Ignatius Kung Pinmei
30 anni nelle prigioni
della Cina comunista
Il Cardinale Ignatius Kung Pinmei nacque il 2 agosto 1901 in una famiglia di tradizione cattolica da almeno cinque generazioni.
Lasciamo a lui la parola: « Sono nato a Pudong, nella periferia orientale di Shanghai. La mia famiglia è cattolica da molte generazioni. Io sono il primo di quattro figli. Nel nostro villaggio si trova una chiesa insolitamente spaziosa e bella, dedicata a Nostra Signora di Lourdes, che arriva ad ospitare oltre le duemila persone.
Fino all’età di dodici anni, insieme ai miei fratelli e a mia sorella, ho ricevuto la mia prima istruzione in cinese classico e dottrina cattolica nella casa di nostra zia Martha, una laica consacrata. A quel tempo infatti, c’erano donne che rimanevano in casa, facevano voto di castità e si dedicavano ad opere d’apostolato. Mia zia Martha, di fatto, ha giocato un ruolo importante nel favorire la mia vocazione.
Ricordo ancora molto bene gli altri miei insegnanti di religione. Fui preparato per la mia prima Santa Comunione da un fratello Marista, ed ebbi modo di frequentare le scuole superiori presso il collegio dei Gesuiti a Shanghai. Sono molto grato sia ai Maristi, sia ai Gesuiti per avermi insegnato a conoscere il Signore e per avermi incoraggiato a proseguire sulla strada del sacerdozio.
All’età di diciannove anni, terminati gli studi superiori, incominciai gli studi presso il seminario diocesano. All’età di ventinove anni, dopo la mia ordinazione, dedicai molti anni all’insegnamento. Insegnai latino e fui anche preside di due collegi gesuiti a Shanghai: l’Aurora High School e il Gonzaga High School.
Nel 1949 la Cina divenne rossa (comunista) e nell’ottobre di quello stesso anno fui consacrato vescovo di Soochow. Un anno più tardi, nel 1950, la Santa Sede mi nominò primo vescovo cinese di Shanghai.
Nel frattempo io continuavo ad amministrare la diocesi di Soochow, a cui si aggiunse l’anno successivo quella di Nanchino (Nanjing). Shanghai è uno tra i più grandi centri commerciali e industriali della Cina, mentre Nanchino ne era stata la precedente capitale, prima che il Governo comunista la spostasse a Pechino (Beijing). Soochow, che non è molto distante da Shanghai, è invece famosa per essere un città pittoresca ed è conosciuta come la Venezia dell’Est.
A quel tempo, i vescovi cinesi cominciarono a prendere pienamente coscienza del difficile cammino che li attendeva a causa del nuovo Governo comunista. Prima della mia ordinazione, feci un ritiro di trenta giorni per chiedere che Dio mi guidasse, dandomi la forza per affrontare le mie responsabilità e per seguire la Sua volontà e quella della Chiesa. Essendo Shanghai la mia città natale, fui molto lieto di accettare la nomina come primo vescovo cinese di Shanghai.
L’ 8 settembre 1955, assieme a molti dei miei preti e fedeli, venni arrestato dal Governo comunista e messo in prigione, dove trascorsi i successivi trent’anni. Fui condannato all’ergastolo sotto il pretesto di “tradimento contro lo Stato”. Questo “tradimento contro lo Stato” consisteva nel mio rifiuto a rinnegare il Santo Padre, a tagliare i legami tra la mia diocesi e il Santo Padre, e nel mio rifiuto di accettare di mettermi alla guida dell’“Associazione Cattolica Patriottica Cinese” in Cina, che avrebbe dovuto essere completamente sotto il controllo del Governo comunista»
La storia del Cardinale Kung è la storia di un pastore fedele e di un vero eroe. Egli era stato Vescovo di Shanghai e Amministratore Apostolico di altre due diocesi solamente per cinque anni, prima di essere arrestato dal Governo cinese. In soli cinque anni, Mons. Kung divenne un punto di riferimento non solo per i fedeli delle sue Diocesi, ma anche per i 3 milioni di cattolici romani che vivevano in quel momento in Cina e godeva anche del più grande rispetto da parte dei suoi confratelli Vescovi. Per questo motivo Mons. Kung era il Vescovo più temuto dai comunisti cinesi. Nei mesi anteriori alla sua cattura, avvenuta nel 1955, Mons. Kung, nonostante gli venissero fatte molte proposte di fuga sicura dalla Cina, rimase vicino ai suoi preti e ai suoi fedeli, incoraggiandoli a perseverare nella fede cattolica e aiutandoli ad offrire la loro vita a Dio.
A dispetto dei comunisti, che avevano creato e autorizzato l’Associazione Cattolica Patriottica Cinese, Mons. Kung diresse personalmente la Legione di Maria – un’organizzazione religiosa di laici cattolici romani dedicata alla venerazione della Beata Vergine Maria. La reazione del Governo non si fece attendere: la Legione di Maria fu dichiarata “associazione illegale” e accusata di nascondere, dietro la facciata della religione, un’attività di spionaggio. Il Governo pretese che tutti i suoi membri si registrassero all’Ufficio di Pubblica Sicurezza e confessassero che la Legione di Maria era un’organizzazione contro-rivoluzionaria; in caso contrario sarebbero stati arrestati. Dinnanzi a questa situazione, Mons. Kung invitó i suoi fedeli a non cedere a questo ordine del Governo, affermando che Dio li avrebbe ricompensati, e che essi avevano il dovere di difendere la loro fede in qualunque circostanza. Fu così che, ad eccezione di pochi che cedettero alle pretese del Governo, il 99% dei membri della Legione di Maria, per la fiducia che avevano nel loro Vescovo, gli obbedirono e rifiutarono di registrarsi. In risposta a questo atteggiamento, centinaia di membri, tra i quali numerosi studenti, furono catturati e condannati a 10, 15 o 20 anni di lavori forzati.
In questo clima di persecuzione Mons. Kung dichiarò l’anno 1952 Anno Mariano per Shanghai. Durante tutto quell’anno si doveva garantire un’ininterrotta recita del Rosario, ventiquattro ore su ventiquattro, ai piedi di una statua pellegrina della Madonna di Fatima, che fece il giro di tutte le parrocchie di Shanghai. In fine la statua giunse anche alla chiesa di Cristo Re, dove solo un mese prima aveva avuto luogo il maggior arresto di preti.
Lo stesso Mons. Kung si presentò nella chiesa e diresse il rosario, sotto lo sguardo vigile di centinaia di soldati armati. Al termine del rosario, guidando l’assemblea, pregò così: “Santissima Madre, non ti chiediamo un miracolo. Non ti imploriamo di fermare la persecuzione, ma ti imploriamo di aiutarci perché siamo molto deboli”.
Intuendo che gli eventi sarebbero da lì a poco precipitati e che egli stesso e molti dei suoi preti sarebbero stati in breve arrestati, Mons. Kung si preoccupò da un lato di preparare i suoi sacerdoti alla lotta e alla persecuzione, ormai imminenti, e dall’altro di formare centinaia di catechisti affinché trasmettessero nelle diocesi la fede Cattolica Romana alle future generazioni.
In effetti, se ai nostri giorni la Chiesa Cattolica Romana in Cina vibra di vitalità, lo dobbiamo anche agli sforzi eroici dei catechisti, al loro martirio e a quello di molti preti e fedeli.
Nel 1953, in risposta al clima di repressione, Mons. Kung organizzò per gli uomini di Shanghai una speciale veglia di preghiera in onore del Sacro Cuore di Gesù. Quattro giorni prima dell’evento, il Governo comunista occupò lo stabile dei Gesuiti di Shanghai, arrestandone molti. Nonostante questo, Mons. Kung decise di presiedere l’incontro di preghiera. Erano presenti più di 3.000 uomini nella cattedrale, mentre migliaia di ragazze e donne erano sedute nella piazza antistante a recitare il Rosario, quando, davanti a una apparentemente impassibile folla di poliziotti, i fedeli incominciarono a ripetere ritmicamente: “Viva il Vescovo. Viva il Papa. Viva la Chiesa”. Alla fine del momento di preghiera, un gruppo di rappresentanti di tutte le parrocchie, per dimostrare apertamente la determinazione di tutti i fedeli nel seguire il loro Vescovo sulla via del Calvario, portarono una grande croce, seguiti da Mons. Kung
Il posto che egli occupava nel cuore dei suoi parrocchiani venne chiaramente riassunto dal gruppo di giovani di Shanghai radunati in occasione dei festeggiamenti del nuovo anno 1953, quando, rivolgendosi a lui, dissero: “(…) Mons. Kung, nell’oscurità, Lei illumina il nostro cammino. Lei ci accompagna in questo nostro pericoloso peregrinare. Lei sostiene la nostra fede e mantiene vive le tradizioni della nostra Chiesa. Lei è la pietra angolare della nostra Chiesa di Shanghai”.
Mesi dopo il suo arresto, Mons. Kung venne mostrato in pubblico per un dibattimento organizzato nel vecchio stadio per corse di cani di Shanghai. A migliaia furono costretti a parteciparvi per ascoltare dalle sue labbra la pubblica confessione dei suoi “crimini”. Con le mani legate dietro la schiena, con addosso la divisa civile cinese, quest’uomo di poco più di un metro e mezzo di altezza, venne spinto avanti verso il microfono perché confessasse. Davanti allo sbalordimento più assoluto della polizia di sicurezza, si udí un solo forte grido del Vescovo: “Viva Cristo Re, Viva il Papa!”. La folla rispose immediatamente: “Viva Cristo Re, Viva Mons. Kung!”.
A quel punto Mons. Kung venne immediatamente trascinato via e spinto dentro un’auto della polizia, scomparendo dagli occhi del mondo fino al 1960, quando venne condotto al processo in cui fu condannato all’ergastolo. La notte precedente all’inizio del processo, il pubblico ministero gli chiese ancora una volta di collaborare alla direzione dell’Associazione Patriottica Cinese. Ma la sua risposta fu: “Sono un Vescovo della Chiesa Cattolica Romana. Se rinnegassi il Santo Padre, non solo non sarei un Vescovo, ma non sarei nemmeno un cattolico. Potete pure tagliarmi la testa, ma non potrete mai sottrarmi ai miei doveri”.
Così il Mons Kung sparì dietro le sbarre per trent’anni durante i quali trascorse molti e lunghi periodi di isolamento.
«Il 3 luglio 1985, venni scarcerato e messo in libertà vigilata, sotto la sorveglianza dell’Associazione Patriottica, a cui mi ero fermamente opposto. Durante questo periodo non ebbi libertà di spostamento e non mi era concesso di uscire da solo».
Poco prima che Mons. Kung venisse rilasciato di prigione, gli fu permesso di partecipare a un banchetto, organizzato dal governo di Shanghai, per dare il benvenuto a Sua Eminenza il Cardinale Jaime Sin, arcivescovo di Manila nelle Filippine, in visita di cortesia alla Cina.
In realtà il Cardinal Sin si era recato in Cina con la speranza di poter entrare in contatto con Mons. Kung. Questa era la prima volta che Mons. Kung, da quando era stato arrestato, aveva l’occasione di incontrarsi con un Vescovo della Chiesa Cattolica Universale in visita in Cina.
Il Cardinale Sin e Mons. Kung furono fatti sedere alle due estremità opposte della tavola, separati da oltre venti commensali comunisti, senza la minima possibilità di dialogare in privato. A un certo punto della cena il Cardinale Sin propose che ognuno dei presenti cantasse una canzone a sua scelta per rallegrare un po’ il convivio. Quando fu la volta di Mons. Kung, alla presenza dei funzionari del Governo cinese e dei vescovi dell’Associazione Patriottica, egli, fissando lo sguardo sul Cardinale Sin, si mise a cantare in latino “Tu es Petrus et super hanc petram aedificabo Ecclesiam meam” (Tu sei Pietro e sopra questa pietra edificherò la mia Chiesa) – un canto religioso che proclama le parole di Gesú dirette a San Pietro e a tutti i suoi Successori, i Papi. In questo modo Mons. Kung voleva comunicare al Cardinale Sin che durante tutti gli anni di prigionia era rimasto fedele al Signore, alla Sua Chiesa e al Santo Padre.
Al termine del banchetto, Mons. Aloysius Jin, vescovo di Shanghai appartenente all’Associazione Cattolica Patriottica Cinese, rimproverò Mons. Kung dicendogli “Cosa stai cercando di fare? Stai cercando di manifestare la tua posizione?”. Il Cardinale Kung gli rispose serenamente: “Non è necessario che manifesti la mia posizione, perché la mia posizione non è mai cambiata” [n.d.r.: Mons. Aloysius Jin in questi ultimi anni sembra aver chiesto e ottenuto di ritornare alla comunione con la Santa Sede].
Prontamente il Cardinale Sin portò immediatamente il messaggio del Cardinale Kung al Santo Padre, annunciando al mondo che quest’uomo di Dio, nonostante inimmaginabili sofferenze, l’isolamento e il dolore, mai era venuto meno al suo amore per la Chiesa e per il suo popolo.
Varie organizzazioni religiose internazionali e di difesa dei diritti umani avanzarono più e più volte la richiesta di poterlo visitare in prigione, ma non fu loro mai permesso. Mons. Kung non era in nessun modo autorizzato a ricevere visite, nemmeno dai suoi familiari, così come non gli era concesso ricevere lettere o denaro per l’indispensabile – diritti questi che erano comuni per gli altri detenuti.
Gli sforzi per ottenere il suo rilascio furono condotti principalmente dalla sua famiglia, e in particolare dal nipote Josef Kung, ma anche da organizzazioni per la difesa dei diritti umani, tra cui Amnesty International, dalla Croce Rossa e dal governo degli Stati Uniti; tali sforzi non si interruppero mai.
«Nel maggio 1987, con l’aiuto del Vescovo di Bridgeport, Mons. Walther Curtis, e di Suor Daniel Marie, Presidente del St. Joseph Medical Center di Stamford in Connecticut, atterrai all’Aeroporto JFK di New York.
Il 5 gennaio 1988, il Governo cinese improvvisamente annunciò il termine della mia libertà vigilata e mi vennero restituiti tutti i diritti civili. Due anni dopo il mio arrivo negli Stati Uniti, le mie condizioni di salute furono sufficientemente buone da consentirmi di andare a Roma, dove fui affettuosamente accolto dal Santo Padre Giovanni Paolo II. Durante quell’incontro il Santo Padre mi mise a conoscenza della mia elevazione in pectore, nel 1979, al Collegio Cardinalizio. Mantenni questo come segreto fino a quando, il 29 maggio 1991, il Santo Padre lo annunciò al mondo».
Quando il 28 giugno 1991, in Vaticano, il Santo Padre Giovanni Paolo II presentò il Cardinale Kung con la berretta rossa al Concistoro, l’allora novantenne vescovo Kung si alzò dalla sedia a rotelle, mise da parte il suo bastone e incominciò a salire i gradini per potersi inginocchiare ai piedi del Pontefice. Fu così che il Santo Padre, visibilmente commosso, lo fece rialzare, gli diede la berretta cardinalizia e rimase pazientemente in piedi in attesa che il Cardinale Kung ritornasse alla sua sedia a rotelle, accompagnato da un’ovazione senza precedenti: sette minuti di applausi dei novemila invitati presenti nella Sala Udienze del Vaticano. (dal blog “I VESCOVI CINESI”)
Il cardinale Kung morì nel 2000, a 99 anni, per cancro allo stomaco, a Stamford, nel Connecticut . Il suo funerale si tenne presso la chiesa di San Giovanni Evangelista a Stamford con la presenza del cardinale James Francis Stafford , presidente del Pontificio Consiglio per i Laici.
Il suo corpo fu quindi trasportato nella Chiesa della Stella del Mare a San Francisco, in California , per una Messa con la presenza del cardinale Paul Shan Kuo-hsi di Taiwan e poi sepolto accanto a Dominic Tang , SJ (Arcivescovo di Canton, Cina) presso il Cimitero Missionario di Santa Clara a Santa Clara, California .
il sacerdozio è l'amore
del Cuore di Gesù
Riflessione del mese di giugno 2019
IL SACERDOTE: L’UOMO DEL CUORE DI GESÙ
In Brasile c’è un’usanza: un bambino che perde i genitori o che vive in una famiglia molto numerosa e troppo povera, viene adottato da una famiglia amica meno numerosa, che lo chiama: ”filho de criação“ ovvero “figlio adottivo” e viene amato come i figli di sangue.
Come Padre amorosissimo il Signore si rivolge a ciascun “figlio adottivo”, a ciascuno di noi e per bocca del profeta Geremia ci dice: : «Ti ho amato di amore eterno, per questo continuo a esserti fedele» (Ger 31, 3). E, per bocca del profeta Osea, ci protesta il suo infinito amore con queste parole: «Come potrei abbandonarti…, come consegnarti ad altri…? Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione» (Os 11,8).
Nella terza apparizione alla mistica di Paray-le-Monial, santa Margherita Maria Alacoque, Gesù dice: «Ecco quel Cuore che tanto ha amato gli uomini e che nulla ha risparmiato fino ad esaurirsi e a consumarsi per testimoniare loro il suo Amore. In segno di riconoscenza, però, non ricevo dalla maggior parte di essi che ingratitudini per le loro tante irriverenze, i loro sacrilegi e per le freddezze e i disprezzi che essi mi usano in questo Sacramento d'Amore. Ma ciò che più mi amareggia è che ci siano anche dei cuori a me consacrati che mi trattano così».
«Il Sacerdote – rivelò un giorno Gesù alla beata Teresa Casini – è parte delle mie viscere, pupilla dei miei occhi; il carattere sacerdotale è al di sopra di qualunque dignità. Io ho chiamato queste anime al mio servizio, dando loro una vocazione sublime, le ho circondate di lumi e grazie dello Spirito Santo e le ho messe in mezzo alla società, affinché, trattando continuamente con essa, mi fossero come tanti canali in cui le anime passassero per venire al mio Cuore. Ma – aggiunse con espressione di dolore – non tutte corrispondono alla loro vocazione e con le loro infedeltà e ingratitudini trafiggono il mio cuore, conficcando una spina in esso». La Beata conclude: «Mi chiese poi di riparare e di consolarlo nel suo dolore» (dall’autobiografia della Beata Teresa Casini).
Nell’omelia della Santa Messa di apertura dell’Anno Sacerdotale, il santo Padre Benedetto XVI così diceva: «Nel Cuore di Gesù è espresso il nucleo essenziale del cristianesimo; in Cristo ci è stata rivelata e donata tutta la novità rivoluzionaria del Vangelo: l’Amore che ci salva e ci fa vivere già nell’eternità di Dio. Il suo Cuore divino chiama allora il nostro cuore; ci invita ad uscire da noi stessi, ad abbandonare le nostre sicurezze umane per fidarci di Lui e, seguendo il suo esempio, a fare di noi stessi un dono di amore senza riserve. “Il sacerdozio è l’amore del Cuore di Gesù”. Come non ricordare con commozione che direttamente da questo Cuore è scaturito il dono del nostro ministero sacerdotale? Come dimenticare che noi presbiteri siamo stati consacrati per servire, umilmente e autorevolmente, il sacerdozio comune dei fedeli? La nostra è una missione indispensabile per la Chiesa e per il mondo, che domanda fedeltà piena a Cristo ed incessante unione con Lui; questo rimanere nel suo amore esige cioè che tendiamo costantemente alla santità. Per essere ministri al servizio del Vangelo, è certamente utile e necessario lo studio con una accurata e permanente formazione teologica e pastorale, ma è ancor più necessaria quella “scienza dell’amore” che si apprende solo nel “cuore a cuore” con Cristo. È Lui infatti a chiamarci per spezzare il pane del suo amore, per rimettere i peccati e per guidare il gregge in nome suo. Proprio per questo non dobbiamo mai allontanarci dalla sorgente dell'Amore che è il suo Cuore trafitto sulla croce. Solo così saremo in grado di cooperare efficacemente al misterioso “disegno del Padre” che consiste nel “fare di Cristo il cuore del mondo”! Disegno che si realizza nella storia, man mano che Gesù diviene il Cuore dei cuori umani, iniziando da coloro che sono chiamati a stargli più vicini, i sacerdoti appunto» (Omelia del Papa Benedetto XVI, 19 giugno 2009).
In questo mese di giugno, dedicato al Sacro Cuore di Gesù, preghiamo più intensamente perché i sacerdoti siano santi e preghiamo particolarmente per quelli che, con la loro condotta di vita, hanno ferito il Cuore di Cristo e scandalizzato i fedeli, perché il Signore doni loro un sincero pentimento e la grazia di una proficua penitenza.
Riflessione del mese di maggio 2019
IL SACERDOTE: L’UOMO INVIATO AD ANNUNCIARE LA PERENNE VICINANZA DEL SIGNORE
Gli undici discepoli, intanto, andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato. Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo». (Matteo 28,16-20)
L’evangelista Matteo inizia il Vangelo ricordando che quel Gesù, di cui sta per narrare la storia, è il Dio-con-noi, l’Emmanuele (cf Mt 1,23), e lo conclude riportando le parole con le quali Gesù promette che rimarrà sempre con noi, anche dopo essere salito al Cielo: “Ed ecco io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo” Gesù rivolge queste parole ai discepoli dopo aver affidato loro il compito di andare nel mondo intero a portare il suo messaggio. Era ben consapevole che li mandava come pecore in mezzo ai lupi e che avrebbero subìto contrarietà e persecuzioni (cf Mt 10,16-22). Per questo non voleva lasciarli soli nella loro missione. Così, proprio nel momento in cui se ne va, promette di rimanere! Non lo vedranno più con i loro occhi, non sentiranno più la sua voce, non potranno più toccarlo, ma lui sarà presente in mezzo a loro, come prima, anzi più di prima. Se, infatti, fino ad allora la sua presenza era localizzata in un luogo ben preciso, a Cafarnao, o sul lago, o sul monte, o a Gerusalemme, d’ora in poi egli sarà là dovunque sono i suoi discepoli.
In una bellissima omelia del 1987, fatta nella cattedrale di Monaco di Baviera, Joseph Ratzinger (Papa Benedetto XVI) dice: “Con l’Ascensione di Gesù al cielo ha inizio la forma definitiva del ministero sacerdotale. Esso consiste innanzitutto nel fare discepoli di Gesù tutti gli uomini, vale a dire nel condurli a fare la sua conoscenza, così che imparino a riconoscerlo, che divenga loro familiare, che imparino ad amarlo, così che possano diventare suoi, i suoi discepoli, la sua comunità che sta con Lui… Il cristianesimo non è una filosofia, una somma di frasi e di insegnamenti, e non è un moralismo, la sollecitazione a fare tante cose- è vita! E’ comunione di vita con Dio. L’adorazione è il cuore del cristianesimo…”. Come può un sacerdote fare discepoli di Gesù tutti gli uomini? Con la sua testimonianza che diventa segno per i suoi fratelli.
Nel bel libro “In memoria di me” di don Mauro Gagliardi si legge: “L’essere segno il sacerdote lo svolge mediante la sua condotta di vita o, come si preferisce dire oggi, attraverso la sua testimonianza….I martiri non erano preoccupati di dare testimonianza nel senso di essere visti dagli uomini. Essi erano preoccupati di non tradire la fede e, con essa il Signore. Dare testimonianza, per i martiri- che sono etimologicamente i veri testimoni- significa rimanere fedeli a Gesù…dare testimonianza non aveva come scopo primario l’edificazione altrui, bensì la glorificazione di Dio in se stessi. Come in ogni ambito della nostra fede, quando si dà il primato a Dio, ne viene un grande beneficio per il prossimo… il Sacerdote impara dalla liturgia che deve essere sempre rivolto verso il Signore e la Sua gloria”.
“Ma-dice il cardinal Sarah in una sua intervista-un sacerdote che ha perso il legame con Gesù, che non prega e non si prende il tempo di stare con Cristo davanti al Santissimo Sacramento, è un sacerdote indebolito. “Senza di me non potete far nulla”, ha detto Cristo (Gv 15,5). Un sacerdote mondano, che non ha più il tempo di meditare la Parola di Dio, che corre nel celebrare la Messa o la celebra in modo profano, che non ha vita interiore, non può restare in piedi”.
A noi il compito di sostenerlo con la nostra fede e la nostra preghiera.
Riflessione del mese di aprile 2019
IL SACERDOTE:
L’UOMO CHE RICONOSCE GESÙ
ALLO SPEZZARE IL PANE
Nel Vangelo di Luca al capitolo 24, 13-35 leggiamo: “Ed ecco, in quello stesso giorno due di loro erano in cammino per un villaggio di nome Èmmaus, distante circa undici chilometri da Gerusalemme, e conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto. Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo. Ed egli disse loro: «Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?». Si fermarono, col volto triste; uno di loro, di nome Clèopa, gli rispose: «Solo tu sei forestiero a Gerusalemme! Non sai ciò che vi è accaduto in questi giorni?». Domandò loro: «Che cosa?». Gli risposero: «Ciò che riguarda Gesù, il Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; come i capi dei sacerdoti e le nostre autorità lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e lo hanno crocifisso. Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele; con tutto ciò, sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; si sono recate al mattino alla tomba e, non avendo trovato il suo corpo, sono venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. Alcuni dei nostri sono andati alla tomba e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui non l'hanno visto». Disse loro: «Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?». E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui. Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. Ma essi insistettero: «Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto». Egli entrò per rimanere con loro. Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma egli sparì dalla loro vista. Ed essi dissero l'un l'altro: «Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?». Partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, i quali dicevano: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!». essi narrarono ciò che era accaduto lungo la via e come l'avevano riconosciuto nello spezzare il pane.
I sacerdoti, come i due discepoli di Emmaus, hanno bisogno di qualcuno che li guidi verso la luce e la verità e questo Qualcuno è lo stesso Gesù, che si fa compagno di viaggio nella loro esistenza segnata, a volte, dallo scoraggiamento e dalla delusione più nera. Essi, come i discepoli di Emmaus, hanno bisogno di ritrovarsi insieme ed è Gesù stesso che dà loro l'occasione per farlo. Infatti, quando Egli spezza il pane, i due discepoli riconoscono il Signore, rileggono la loro esperienza di gioia vissuta poche ore prima, insieme a quello Sconosciuto, che ha fatto ardere il loro cuore, mentre li catechizzava ed insegnava loro a guardare la vita nel segno della speranza e della gioia senza fine e partono senza indugio per riferire agli altri ciò che hanno vissuto in prima persona e che ha dato un senso nuovo alla loro vita.
I sacerdoti proprio come i discepoli di Emmaus, devono sentire l’urgenza di raccontare agli altri che hanno incontrato davvero Gesù Risorto, lo hanno riconosciuto nello spezzare il pane, e che ora, anche se scomparso dai loro occhi, Egli è l’oggetto del loro annuncio e della loro missione tra gli uomini. Per fare questo, però, devono rimanere in continuo contatto con questa Presenza nascosta, misteriosa ma reale, con questa Presenza, che silenziosamente li accompagna e illumina la loro vita, proprio perché essi a loro volta possano illuminare la vita degli altri.
San Giovanni della Croce nel suo “Cantico Spirituale” dice: “Quelli, che sono molto attivi e che pensano di abbracciare il mondo con le loro prediche e con le loro opere esteriori, ricordino che sarebbero di maggior profitto per la Chiesa e molto più graditi a Dio, senza parlare del buon esempio che darebbero, se spendessero almeno la metà del tempo nello starsene con Lui in orazione, altrimenti tutto si ridurrà a dare vanamente colpi di martello e a fare poco più che niente, talvolta anzi niente e anche danno”.
È nostro compito pregare per loro, perché abbiano il desiderio e il coraggio di conoscere e annunciare Gesù Risorto.
Buona Pasqua a tutti.
Sacerdoti santi nostri contemporanei:
Sua Eccellenza Monsignor
Ennio Appignanesi
In questi ultimi tempi si sono susseguiti scandali sempre più gravi da parte di sacerdoti, vescovi e cardinali, che hanno offeso Dio e disorientato il popolo cristiano. I mezzi di comunicazione sociale si sono lanciati su queste notizie, più o meno vere, come arpìe sui cadaveri. E poi tutti a criticare, a condannare, a umiliare. Impegnati a pescare nel torbido, non ci siamo più accorti dei tanti sacerdoti santi che sono passati e continuano a passare davanti ai nostri occhi, senza che mai qualcuno ne metta in evidenza la luminosa testimonianza di vita. Uno di questi è Sua Eccellenza Ennio Appignanesi.
Monsignor Ennio Appignanesi, è nato a Belforte del Chienti il 18 giugno 1925 ma in tenera età si è trasferito a Roma con la famiglia. Ha frequentato prima il Pontificio Seminario Romano Minore, poi il Pontificio Seminario Romano Maggiore ed è stato ordinato presbitero l'8 aprile 1950.
Dal 1959 fino al 1980 è stato parroco di Santa Maria Consolatrice al Tiburtino a Casal Bertone. l 20 dicembre 1980 papa Giovanni Paolo II lo ha nominato vescovo ausiliare della diocesi di Lucera e vescovo titolare di Temisonio. Ha ricevuto la consacrazione episcopale il 6 gennaio 1981 da Giovanni Paolo II.
Il 15 settembre 1983 è stato nominato vescovo di Castellaneta. Il 3 luglio 1985 è stato nominato vescovo ausiliare della diocesi di Roma con l'incarico di vicegerente e arcivescovo titolare di Lorium.
Il 21 gennaio 1988 è stato nominato arcivescovo di Matera-Irsina. Il 19 gennaio 1993 è stato nominato arcivescovo di Potenza-Muro Lucano-Marsico Nuovo.
Il 9 gennaio 2001 si è ritirato per raggiunti limiti di età. Il 26 febbraio 2002 è diventato canonico della Patriarcale Basilica Vaticana. È morto a Roma il 26 marzo 2015 all'età di 89 anni. Le esequie si sono tenute il 28 marzo alle ore 10 nella Basilica di San Pietro.
Per la scomparsa di Mons. Ennio Appignanesi, Arcivescovo, realmente "prete romano", Mons. Giuseppe Mani ci offre una sua testimonianza, che scruta in quel 'segreto del cuore' a cui Dio guarda costantemente i suoi figli, i suoi sacerdoti e a cui dona la ricompensa divina di eternità e nell'eternità.
È morto don Ennio. Aveva novant’anni e da un momento all’altro c’era da aspettarsi la notizia della sua partenza per la casa del Padre, anche se sembrava ancora lontana. Mi aveva telefonato la settimana scorsa per ringraziarmi dell’omaggio del libro “i preti di Wojtyla” che gli avevo mandato e che aveva letto “con grande curiosità e gusto”.
Terminati gli studi universitari e deciso che sarei rimasto a Roma, fui destinato vice parroco a Casalbertone e fu il mio primo parroco. Rivedo il lungo corridoio della canonica parrocchiale e la prima camera, senza bagno, come tutte, era la sua, la più scomoda, perché dava proprio sul cortile dove centinaia di ragazzini a tutte le ore facevano un chiasso indiavolato.
Era il Signor Parroco, ma il servo di tutti, il primo ad alzarsi la mattina e l’ultimo ad andare a dormire la sera, la sua macchina, eternamente in riserva , era al servizio di tutti. Non ritirava lo stipendio ma lo capitalizzava in Vicariato, perché serviva per i campeggi estivi; non aveva mai un soldo in tasca.
Eravamo serviti da due sante suore, che avevano l’ordine di non far mancare niente ma che i frigoriferi fossero sempre pieni in maniera che anche di notte, soprattutto in estate, potessimo mangiare frutta e dissetarci con quanto avessimo desiderato.
Aveva una pastorale con “una linea chiara ” a cui dovevamo attenerci e che spesso diventava oggetto di scherzo, sempre al primo piano, dove potevano arrivarci soltanto i preti e dove regnava un aria di grande famiglia e allegria.
Eravamo dopo il sessantotto e a Casalbertone non avvennero le cose strane di alcune altre parrocchie e lui, pur portandosi tutti gli epiteti di conservatore, reazionario, tenne tutti quei valori che poi lentamente sono stati recuperati anche da chi li aveva contestati.
Don Ennio voleva un gran bene ai suoi preti, pur avendo poi saputo che alcuni erano lì perché avevano dovuto lasciare la diocesi; neppure noi confratelli sapevamo niente, tanta era la riservatezza e la dignità del parroco.
Quando divenni Rettore del Seminario Romano dovetti chiedere alcuni favori, soprattutto l’accoglienza di alcuni sacerdoti e seminaristi e la sua risposta era pronta “al seminario non si dice mai di no“.
Divenne vescovo, addirittura ausiliare di una piccola diocesi delle Puglie e dopo poco fu trasferito ancora più in giù. Poco dopo con grande sorpresa di tutti lo vedemmo di nuovo a Roma, vice gerente col Cardinale Poletti, di cui non condivideva la linea pastorale e infatti la collaborazione durò poco e fu di nuovo mandato nel Sud come Arcivescovo di Matera e dopo pochi anni Arcivescovo di Potenza, dove concluse il suo mandato per limiti di età.
Si definiva, ridendo di sé, “vescovo girovago” e veramente lo fu, senza possibilità’ di affermare una sua pastorale con una certa stabilità . Non era né un teologo n’è uno studioso ma un uomo di grande cultura pastorale e spirituale. Aveva letto pochi libri ma molte anime ed aveva quella sapientia cordis che fu riconosciuta a Papa Giovanni. Era soprattutto un uomo di fede, credeva davvero nel Signore, nella Madonna e amava la Chiesa anche se sapeva bene che non avevano un gran concetto di lui. Amava Dio e la Chiesa più’ di se stesso e questo è quello che conta e che vale.
Nella mia non breve esperienza umana e sacerdotale mi è raramente capitato di conoscere una persona più disinteressata e distaccata da se stessa di don Ennio, veramente morto a se stesso. Don Ennio era davvero un bel cristiano.
Nell’omelia per i suoi funerali il Cardinale Angelo Comastri così lo ricorda: “ In monsignor Ennio Appignanesi c’erano tutti i tratti del pastore buono. Amò le sue diocesi con l’entusiasmo del cuore semplice, infondendo in tutti la gioia di essere discepoli di Gesù, nella fedeltà senza discussione alla sua Chiesa. Caratteristiche che hanno sempre accompagnato il suo stile pastorale. Il 3 luglio 1985 – ha proseguito il porporato – arrivò la chiamata a tornare a Roma come vicegerente. Il suo ritorno fu un viaggio tra amici che gli volevano bene. Per la serenità che infondeva e l’equilibrio con cui agiva. E la disponibilità a correre dovunque venisse chiamato. Presto dovette rimettersi in viaggio. Diceva di se stesso: “Ho fatto il vescovo pellegrino. Non facevo in tempo ad aprire le mie valigie che dovevo subito già riprepararle”. L’obbedienza lo portò poi nella diocesi di Matera Irsina e poi nella diocesi di Potenza-Muro Lucano Marsico-Nuovo. E lì ricominciò con sereno entusiasmo. Posso di lui testimoniare che in tanti anni di frequentazione e amicizia non ho mai sentito una parola malevola verso qualcuno, mai. Poco tempo fa ebbe un malore durante la preghiera del vespro. Quando lo contattai per avere notizie, mi rispose scherzando: “È suonato il campanello, sarà meglio che prepari la valigia ancora una volta, e per l’ultima volta. Probabilmente toccherà a lei a farmi il funerale. Non esageri troppo, perché poi nessuno ci crede e il Signore sarà costretto a fare la radice quadrata”. Giovedì scorso – ha concluso il cardinale Comastri – è tornato al Signore dopo aver celebrato la messa dalle Oblate del Sacro Cuore di Gesù, per le quali aveva affetto immenso e altrettanta gratitudine“.
“Don Ennio – ha raccontato il cardinale Giovanni Coppa – era veramente un pastore. Non ha mai preso posizioni per farsi ammirare. Era un servitore della Chiesa. Eravamo in ottimi rapporti. Lui era stato fatto canonico del Capitolo di San Pietro, dopo che io fui eletto cardinale. Mi ha sempre trattato in modo benevolo. È stata una vera amicizia la nostra. La sua intelligenza, la sua generosità, il suo spirito meritano di essere conosciuti, non solo oggi, ma per l’avvenire. Ora conto sulla sua intercessione, da “lassù”».
Le Suore Oblate del Sacro Suore di Gesù, che gli sono state vicine da quando era bambino fino alla sua morte, lo ricordano come un uomo umile, disponibilissimo, veramente tutto a tutti, capace di sdrammatizzare le situazioni con un sano umorismo. Da quando era in pensione, scherzando diceva di se stesso: “ Io non sono più Sua Eccellenza ma Sua Emergenza così chi ha bisogno di me può trovarmi facilmente e senza troppi complimenti”.
Nel riordinare la camera dopo la sua dipartita, tra carte di ogni tipo, le suore hanno trovato, oltre a una laurea in “utroque iure” di cui non ha mai fatto verbo con nessuno, tantissime lettere, molte delle quali assai commoventi, di giovani, di sposi, di religiose, di sacerdoti. Un sacerdote così diceva: “ Desidero ringraziarti dal profondo del cuore, perché tu mi hai fatto toccare con mano che cos’è l’amore di un padre. Quando ho preso quella sbandata, mi hai cercato, hai parlato al mio cuore, hai pregato ogni giorno perché io rientrando in me stesso, comprendessi il male che stavo facendo e quando sono tornato, invece di umiliarmi mi hai abbracciato, hai pianto con me, mi hai assolto dal mio peccato e mi hai restituito quella fiducia che godevo presso di te, prima che mi smarrissi. Ora, ogni volta che leggerò la parabola del figlio prodigo, saprò cosa significhi essere figlio amato e perdonato e che volto ha un padre”.
Il suo testamento rispecchia il suo animo di uomo e di sacerdote vissuto in un continuo rendimento di grazie al Signore e di sincera intercessione per i suoi fratelli.
TESTAMENTO DI ENNIO APPIGNANESI
Roma Fraterna Domus
Esercizi Spirituali 12-16 Novembre 2007
In nomine Domini, Amen.
“Nella vita e nella morte apparteniamo al Signore... ...Siamo del Signore.” (Rm 14,8)
Credo al Signore con tutto il cuore; spero la felicità eterna per la Sua grande misericordia; amo il Signore nonostante le mie fragilità e lo voglio amare in eterno.
Ringrazio il mio Signore, per la vita, per la fede, per la famiglia cristiana che mi ha educato, per il dono della vocazione al Sacro Ministero di Sacerdote e di Vescovo.
Ringrazio il Signore che mi ha sostenuto nell’amare la Chiesa con semplicità e lealtà.
Ringrazio il Signore per avermi fatto vivere durante il tempo del Concilio Vaticano II e nella fase della attuazione con i suoi problemi e le sue speranze.
Ringrazio il Signore per la morte che voglio accettare come dono che Lui vorrà farmi quando e come vorrà.
Sempre ho chiesto su di me il perdono e la misericordia del Signore per i miei peccati e le mie infedeltà.
Sempre devo tenere presente che, dopo la morte, mi devo presentare davanti al Signore — Giudice — Redentore e Padre.
Ho fiducia che mi starà accanto la Beata Vergine Maria Madre di Dio, Madre mia e fiducia mia.
Ho ricevuto tutto dal Signore, che mi ha confuso con l’abbondanza dei suoi doni, ai quali non sempre ho corrisposto con pienezza, durante la mia lunga vita che va verso la conclusione, secondo la volontà del Signore.
Ora è il tempo del “nunc dimittis” (Lc 2,29-32).
Grazie senza fine al Signore per il ministero sacerdotale che mi ha affidato nella Pasqua 1950 e per il ministero episcopale concessomi nella Epifania 1981.
Ritorno col pensiero e con riconoscenza ai miei amati genitori Teresa e Renato, ai fratelli e congiunti; alla Parrocchia di Belforte dove sono stato battezzato, alla prima Comunione ed alla Cresima; al convitto delle Suore Oblate del S. Cuore di Gesù per la scuola media, ai Seminari minore e maggiore di Roma; ai tempi della guerra e della ricostruzione.
Ripenso ai 28 anni di pastorale nella amatissima Parrocchia di Santa Maria Consolatrice al Tiburtino. Che dire delle Diocesi di Lucera, San Severo, Castellaneta, Matera, Potenza dove sono stato cristiano e Vescovo, ed ancora del servizio pastorale nella Diocesi del Papa come Sacerdote, come Vice-Gerente, come Vescovo emerito e Canonico Vaticano?
Chiedo al Signore che alle tante persone che mi ha voluto affidare doni in ricompensa la sua benedizione e la vita eterna. Un grazie al Signore per avere goduto della benevolenza dei Sommi Pontefici Giovanni Paolo II e Benedetto XVI e della impareggiabile guida del Cardinale Giovanni Canestri.
A quanti mi hanno preparato alla vita e al ministero nella Chiesa; a quanti hanno collaborato con me con saggezza, bontà e pazienza il Signore conceda ogni bene.
A tutti chiedo perdono. A tutti chiedo preghiere di suffragio. Tutti saluto nel Signore e spero di vivere con tutti nella felicità di Dio. Amen!
Sacerdoti santi nostri contemporanei:
cardinale François Xavier Nguyên Van Thuân
" Voglio vivere il momento presente, colmandolo d'amore".
François Xavier Nguyên Van Thuân è nato il 17 aprile 1928 a Huê (Viêt Nam) in una famiglia cristiana eccezionale: nel 1885 tutti gli abitanti del villaggio di sua madre furono bruciati nella chiesa parrocchiale, eccetto suo nonno, che in quel tempo studiava in Malesia.
Parecchi componenti della famiglia paterna, tra il 1698 al 1885 sono stati vittime di persecuzione. Il suo bisnonno paterno, insieme con gli altri familiari, era stato forzatamente assegnato ad una famiglia non cristiana in modo che perdesse la fede. E raccontava questa vicenda al giovane François Xavier.
Anche la nonna, che non sapeva né leggere né scrivere ogni sera dopo le preghiere fatte con la famiglia, teneva desto nei ragazzi il ricordo dei martiri di famiglia con racconti, ne invocava la protezione e recitava il rosario per i sacerdoti.
Sua mamma Elizabeth lo ha educato cristianamente, fin da quando era in fasce. Ogni sera gli insegnava le storie della Bibbia e gli raccontava le testimonianze dei martiri, specialmente dei suoi antenati. Gli parlava tanto anche di santa Teresa di Gesù Bambino.
Non fa meraviglia dunque che François Xavier entra in seminario a 13 anni e diventa sacerdote l’11 giugno 1953.
Dopo appena tre mesi di servizio in una parrocchia però, gli viene diagnosticata una tubercolosi in uno stadio avanzato, che rende necessaria l’asportazione di gran parte del polmone destro. La diagnosi è grave e l’intervento si preannuncia delicato. Poco prima dell’intervento i chirurghi dell’ospedale militare francese di Saigon, dove è ricoverato, fanno effettuare un’ultima radiografia del suo torace. Con grande sorpresa constatano tuttavia che il polmone destro è improvvisamente e completamente guarito, e non c'è più alcuna traccia di malattia, cosa inspiegabile per la scienza.
Per il giovane sacerdote questa esperienza è veramente un miracolo e una prima testimonianza della sollecitudine del Signore per la sua vocazione.
Prosegue la sua formazione a Roma e consegue la laurea in Diritto Canonico nel 1959. Ritorna in Viet Nam a fare il professore, il rettore del seminario e il vicario generale della diocesi di Huê.
Nel 1967, ad appena 39 anni, viene nominato vescovo titolare della diocesi di Nha Trang (nominato il 13 aprile 1967 e consacrato il 24 giugno successivo). Il suo impegno a Nha Trang è molto intenso. I seminaristi maggiori passano da 42 a 147 in 8 anni. Quelli minori da 200 a 500. Inoltre si dedica a rafforzare la presenza dei laici, dei giovani, dei consigli pastorali.
il 24 aprile 1975 da Papa Paolo VI viene nominato Arcivescovo titolare di Vadesi e Coadiutore di Saigon.
Il suo motto episcopale è: «Gaudium et spes».
Quando i Viet Cong conquistano la capitale gli uccidono lo zio, che era il presidente del Vietnam e un cugino. La famiglia del Cardinal Van Thuan è dunque una famiglia di alto livello. E lui stesso parla correntemente sette lingue.
Con l’avvento del regime comunista viene immediatamente accusato del fatto che la sua nomina ad Arcivescovo è frutto di un “complotto tra il Vaticano e gli imperialisti”. Dopo tre mesi di tensioni è chiamato nel Palazzo presidenziale, il “Palazzo dell’indipendenza”. Sono le ore 14:00 del 15 agosto 1975, Solennità dell’Assunta. Entrato da uomo libero nel palazzo presidenziale, ne esce alcune ore dopo come detenuto sotto scorta, senza ricambi o effetti personali. Ha solo la tonaca e il rosario in tasca. E’ arrestato senza giudizio, né sentenza. In catene viene ricondotto nel territorio della sua prima Diocesi, a Nha Trang. Costretto agli arresti domiciliari nella casa parrocchiale di Cay Vong, nel mese di ottobre dello stesso anno inizia a scrivere una serie di messaggi alla comunità cristiana di cui continua a sentirsi pastore, guida e primo responsabile, sperando in cuor suo che possano giungere a destinazione.
Grazie a Quang, un bambino di 7 anni, che gli procura di nascosto dei fogli di carta sui cui scrivere i suoi pensieri, il progetto potrà realizzarsi. Lo stesso bambino, di nascosto delle autorità, s’incarica infatti di portare i messaggi a casa, in modo che i suoi fratelli e le sue sorelle possano ricopiare quei testi e diffonderli a loro volta.
“Quando ero in prigione,- racconta il cardinale- ho vissuto talvolta momenti di disperazione, di rivolta, chiedendomi perché Dio mi avesse abbandonato dal momento che avevo consacrato la mia vita solo al suo servizio, per costruire chiese, scuole, strutture pastorali, guidare vocazioni, seguire movimenti ed esperienze spirituali, sviluppare il dialogo con le altre religioni, aiutare la ricostruzione del mio Paese dopo la guerra, ecc. Mi chiedevo perché Dio si fosse dimenticato di me e di tutte le opere intraprese nel suo nome. Spesso non riuscivo a dormire ed ero preso dall'angoscia. Una notte sentii dentro di me una voce che mi diceva: Tutte quelle cose sono opere di Dio ma non sono Dio. Dovevo scegliere Dio e non le sue opere. Forse un giorno, se Dio lo avesse voluto, avrei potuto riprenderle, ma dovevo lasciare a Lui la scelta che avrebbe fatto meglio per me. A partire da quel momento, ho sentito una pace profonda nel mio cuore e, malgrado tutte le prove, ho ripetuto sempre a me stesso: Dio e non le opere di Dio . Avere l'essenziale nel cuore. Quando abbiamo l'essenziale dentro di noi, non sentiamo più il bisogno di niente. Se hai Dio hai tutto, se non hai Dio nel tuo cuore, manchi di tutto.
Il 1° dicembre 1976, ebbi come un incubo: vidi allontanarsi la luce della cattedrale della mia diocesi, che stavo lasciando e mi trovai in un buio totale, fisico e mentale, nel fondo di una nave, con i miei compagni di tragedia tristi fino alla morte, senza sapere quale fosse la nostra destinazione. C’era solo una piccola lampada a petrolio, per il resto regnava il buio totale. Nella stiva c'erano 1500 persone, in condizioni indescrivibili. Il mattino seguente, alla luce del giorno, molti mi riconobbero. La maggior parte non erano cattolici, ma sapevano che ero un vescovo e mi dissero che la presenza di un vescovo dava loro fiducia e mi fecero tante domande. In quel momento cominciai a sentire nel mio cuore che stava avvenendo una svolta nel cammino della mia vita. Come san Paolo in catene sulla nave che andava a Roma, capitale dell'impero, io andavo prigioniero su una nave diretta verso la capitale del Vietnam, Hanoi. Come san Paolo comprese che il Signore gli affidava una nuova missione, quella di raggiungere il centro dell'impero per cambiarlo dal di dentro, così io capii che ero chiamato a portare il Vangelo in un campo nuovo. Iniziai a considerare la nave e poi la prigione come la mia più bella cattedrale. Una nave lunga con millecinquecento prigionieri: questa è la mia più bella cattedrale, dove devo annunciare il Vangelo con la parola e con la vita. Tutti quei prigionieri, buddisti, confuciani, cattolici, protestanti erano il nuovo popolo affidatomi da Dio, e non solo loro, ma anche i carcerieri comunisti. Allora mi si schiuse una nuova visione e dissi a Gesù: "Eccomi, Signore, sono pronto ad andare per te fuori dalle mura, extra muros. Non nella mia diocesi, ma in un altro luogo. Tu sei morto per me fuori dalle mura di Gerusalemme perché il Vangelo raggiungesse ogni creatura" .
Quando mamma Elizabeth apprende che il figlio è stato arrestato, prega il più intensamente possibile, perché lui resti sempre fedele alla Chiesa, pronto a compiere la volontà di Dio e a perdonare ai suoi aguzzini.
E questo figlio, degno di tale madre, ha vissuto in prigione per tredici anni, fino al 21 novembre 1988, senza mai scoraggiarsi , anzi, ha cercato di vivere la prigionia “colmandola di amore”, secondo una sua abituale espressione.
Racconta lui stesso: " Tutto il gruppo dormiva su un letto comune, testa contro testa e i piedi fuori. Ognuno aveva a disposizione cinquanta centimetri, eravamo come sardine! Quando celebravo e davo la comunione, sciacquavamo la carta dei pacchetti di sigarette dei prigionieri e, con il riso, la incollavamo per farne un sacchetto dove mettere il Santissimo. La presenza del Santissimo ha cambiato la prigione, la prigione che è luogo di vendetta, di tristezza di odio era diventata luogo di amicizia, di riconciliazione e scuola di catechismo. La presenza dell’Eucaristia è fortissima, la presenza di Gesù è irresistibile!".
Ogni giorno può celebrare messa: naturalmente a memoria, perché non può tenere con sé libri e tantomeno messali. Nei duri anni di completo isolamento, oltre alla Messa, non ha altra consolazione che rileggere le 300 frasi del vangelo, imparate a memoria e trascritte su pezzetti di carta e che porta sempre con sé, insieme a due puzzolenti pagine dell’Osservatore Romano, utilizzate per incartare un pesce ricevuto in dono, ma che a lui fanno sentire il legame con la Chiesa di Roma.
In carcere riesce a creare delle piccole comunità cristiane, che si ritrovano per pregare insieme e soprattutto per la celebrazione dell'Eucaristia. La notte, quando è possibile, organizza turni di adorazione davanti all'Eucaristia.
Al campo di prigionia di Phu Khanh viene rinchiuso in una cella angusta senza finestre. Inizia l’incubo peggiore: nessuno può avvicinarsi a lui e nessuno parla con lui, neanche le guardie. Ben presto l’isolamento totale produce l’effetto desiderato dagli aguzzini: privato di qualunque segno di presenza umana, Van Thuân comincia ad avere terrore del vuoto e del silenzio attorno a lui. I carcerieri usano anche l’oscurità per tormentarlo. Senza ragione, la fioca lampadina della cella viene spenta per giorni di seguito e il povero prigioniero non sa quando sia giorno e quando notte. Passa così periodi interminabili: a volte gli sembra di non esistere più nel mondo dei viventi. A volte nell’oscurità, si sente soffocare per il caldo e l’oscurità, al limite della pazzia. Non riesce a dormire. Sovente perde la nozione del tempo. Lo aiutano nei primi, durissimi tempi, l’abbandono nelle mani di Dio e il pensiero della sua famiglia. Riesce a pregare: "Signore, sono nelle tue mani. Se anche permetterai che io impazzisca, so che mi vuoi bene, e un giorno mi spiegherai perché lo hai permesso. Fai di me quello che vuoi".
Ricordando questo periodo terribile racconta: "Il conforto più grande era il ricordo di mia mamma Elisabeth. Mi chiamava “Francesco”, e la sua voce quando diceva il mio nome era dolcissima. La risentivo in quel silenzio, e mi veniva da piangere. Mi aveva educato cristianamente fin da quando ero tra le sue braccia. Mi insegnava ogni sera le storie della Bibbia, mi raccontava le memorie dei nostri martiri, specialmente dei nostri antenati. Era la donna forte che aveva seppellito i suoi fratelli massacrati dai traditori, a cui aveva sinceramente perdonato, accogliendoli sempre, come se niente fosse successo. Pensare a lei era il mio grande conforto".
Durante l’estate la cella, infuocata come una fornace, comincia a emanare odori insopportabili a causa della vicina latrina. Van Thuân si stende allora sul pavimento sudicio e pone il volto vicino allo spazio vuoto sotto la porta per cercare di respirare un po’ d’aria mossa, ma riesce solo a sentire l’orribile fetore …. In uno stato di profonda prostrazione, alcuni giorni non riesce a ricordare neppure il Pater Noster o l’Ave Maria, gli sembra di impazzire. L’unico sollievo, ironia della sorte, è quando vengono a prelevarlo per gli interrogatori. Il fatto di vedere delle altre persone, di poter parlare, lo conforta.
“Sulle montagne di Vinh Phù, nella prigione di Vinh Quang un giorno dovevo tagliare della legna e chiesi ad uno di loro se mi poteva fare il favore di lasciarmi tagliare un pezzo di legno a forma di croce. «È vietato!», rispose. Poi aggiunse: «È vietato, non si può avere nessun segno religioso in prigione, ma lei è mio amico», e mi lasciò fare. «È impossibile», disse ancora, «andrò in prigione per questo», ma chiuse gli occhi e mi lasciò fare. «Sono tuo amico» mi disse; non poté più resistere. Ed andò via. Così mi lasciò il tempo per tagliare un pezzo di legno in forma di croce, che io nascosi nel sapone per tanti anni, fino alla mia liberazione, per evitare che i capi lo scoprissero durante i controlli. Poi lo incastonai nel metallo e ne feci la mia croce pettorale. Questa croce che oggi porto è fatta con il legno preso dalla prigione ed è stata costruita con la complicità dei poliziotti comunisti.
In un’altra prigione un giorno domandai ad un poliziotto se mi poteva dare un filo elettrico. «Che cosa vuole fare con il filo elettrico?» mi chiese, «vuole suicidarsi?»; «No», risposi. «E allora a cosa le serve il filo elettrico?»; «vorrei fare una catena per portare la mia croce». «Ma come si può fare una catena con il filo elettrico?». In effetti i vescovi hanno almeno delle catene d’argento, ma un filo elettrico… Risposi che lo potevo fare. «Prestami due piccole tenaglie e ti mostrerò». «È contro la sicurezza» mi disse», «non posso». Ma pochi giorni dopo tornò per dirmi: «Lei è un buon amico, non posso rifiutare, domani è il mio turno di guardia ed io verrò con il filo elettrico. Ma in quattro ore bisogna finire il lavoro, dalle sette alle undici, altrimenti, se qualcuno ci vede, può denunciarci». Allora mi aiutò. Con pezzi di fiammiferi misurammo il filo elettrico per tagliarlo, e con le piccole tenaglie facemmo in quattro ore la catena per portare la croce. Anche questo con la complicità di poliziotti comunisti diventati amici di un vescovo>>.
Nonostante la persecuzione cui è sottoposto, l’arcivescovo non manca di manifestare la sua benevolenza nei confronti dei carcerieri e spesso tiene delle lezioni per insegnare loro le lingue straniere. Un giorno il poliziotto, che ha l’incarico di controllarlo a vista, gli chiede di insegnargli un canto in latino. L’arcivescovo gli insegna il Te Deum, che piace molto alla guardia e che questi canterà ogni mattina a squarciagola, durante il tempo della prigionia.
«Ecco» pensa l’arcivescovo, «in questo carcere non mi permettono di pregare, ma è venuto questo poliziotto che prega il Signore al posto mio».
Le autorità lo temono, perché parla di amore e perdono e rischia di “contaminare” le guardie. “ Loro poi mi raccontarono: «Quando il capo ci ha convocati per mandarci a controllarla, ci ha detto: “Andate a sorvegliare questo pericoloso vescovo. Non parlategli, altrimenti lui vi contaminerà e sarò costretto a cambiarvi dopo due settimane con un altro gruppo>>. Il capo però li seguiva per controllare i loro atteggiamenti. Alla fine li riconvocò e disse loro: «Ormai non vi cambierò più, perché se vi cambio ogni due settimane, questo pericoloso vescovo contaminerà tutta la polizia».
Quest’uomo, disarmato, con la sua sola presenza e con la sua testimonianza, risulta estremamente contagioso. Le guardie che tengono sotto controllo, il futuro Cardinale Van Thuan, in prigione, gli dicono: "Ma tu un giorno, se sarai liberato, ci farai perseguitare?" E lui: "No, assolutamente". "Ci farai uccidere?". E lui: "Certo che no, io vi amo". "Come? Tu ci ami?”. "Sì, certo. Io vi amo".
Durante periodo di incarcerazione non ha mai perso la speranza nella Chiesa, non ha mai rinnegato la Chiesa.
Negli anni ’80, dopo tante traversie, il Vietnam si inserisce lentamente nel mercato internazionale. Ma per ricevere aiuti dall’Occidente, deve garantire il rispetto di alcuni dei «diritti umani» fondamentali, come la liberazione dei prigionieri tenuti in carcere senza essere stati mai processati.
E’ in questo contesto che avviene la liberazione del Vescovo Van Thuan. Viene portato davanti al Ministro degli Interni, che nella direzione del carcere sta consultando la lista dei prigionieri. Il Ministro lo guarda sorpreso. Credeva di trovarsi davanti un uomo svuotato da tanti anni di carcere durissimo. Si trovava invece davanti a un uomo pieno di forza. Allora rivolgendosi al direttore del carcere gli ordina: «Fate il necessario per liberarlo oggi».
La sua liberazione, avviene il 21 novembre 1998, festa della presentazione di Maria Santissima al tempio. La prigionia di quest’uomo di Dio comincia il giorno della festa dell’Assunzione di Maria al cielo, 15 agosto 1975, e termina il giorno della Presentazione di Maria al tempio, 21 novembre 1988. Come dubitare che la Madonna abbia vegliato su questo figlio e gli abbia ottenuto dal Signore il coraggio di non cedere mai allo scoraggiamento e la forza per "vivere il momento presente colmandolo d’amore”?
Dopo la liberazione viene espulso dal suo Paese ed è costretto all’esilio forzato a Roma, dove papa Giovanni Paolo II lo nomina Presidente della Commissione Giustizia e Pace della Santa Sede.
Lo stesso Pontefice lo vuole come predicatore degli Esercizi spirituali per la Curia Romana nella Quaresima del 2000. Il Vescovo Van Thuan si scusa con i suoi ascoltatori: «Nei 13 anni della mia prigionia non ho avuto molto tempo per studiare libri di spiritualità. Vi racconterò semplicemente quegli anni che ho vissuto con Dio».
Viene creato cardinale nel Concistoro del 21 febbraio 2001. Proprio mentre si prepara alla cerimonia, riceve gli esiti di alcuni esami: ha un cancro molto raro, che lo porterà alla morte il 16 settembre 2002. Negli ultimi giorni della sua vita, quando è divorato dai dolori della malattia che lo sta uccidendo, nella clinica Pio XI la sua preghiera è costituita da un lungo e continuo sguardo al crocifisso di plastica appeso nella stanza dell’ospedale.
Il giorno del suo funerale Giovanni Paolo II lo saluta così: « Il Cardinale Van Thuân durante gli esercizi spirituali ci ha raccontato che proprio in prigione aveva compreso che il fondamento della vita cristiana è "scegliere Dio solo", totalmente abbandonandosi nelle sue mani paterne. Nel porgere l’ultimo saluto a questo eroico araldo del Vangelo di Cristo, ringraziamo il Signore per averci dato in lui un esempio luminoso di coerenza cristiana fino al martirio. Ha affermato di sé con impressionante semplicità: ‘Nell’abisso delle mie sofferenze non ho mai cessato di amare tutti, non ho escluso nessuno dal mio cuore’. Egli ci lascia, ma resta il suo esempio. La fede ci assicura che non è morto, ma è entrato nel giorno eterno che non conosce tramonto».
Sacerdoti santi nostri contemporanei:
Padre Angelo Cuomo
Angelo Cuomo nacque a San Giuseppe Vesuviano il 13 agosto 1915 da Nicolangelo e da Rosa Panico.
Fu battezzato il 19 agosto successivo.
Nell’autunno del 1922 Angelo cominciò a frequentare la scuola elementare e si preparò con grande raccoglimento alla prima comunione. Adolescente, frequentando la parrocchia, aderì all’Azione Cattolica e, attraverso il padre Agostino Carraretto, imparò a conoscere e ad amare Gesù e l’eccezionale figura di san Leonardo Murialdo, Fondatore della Pia Società Torinese di S. Giuseppe.
Il 20 marzo 1930 ricevette, dalle mani di sua eccellenza mons. Egisto Melchiori, vescovo della diocesi di Nola, il sacramento della Confermazione.
Sentì forte il richiamo alla santità: voleva innanzitutto amare Dio e prodigarsi per il prossimo. Nella preghiera scrutò i disegni di Dio su di lui e nel silenzio dell’adorazione si sentì chiamato al sacerdozio.
Allora si affidò alla protezione materna della Madonna. All’età di sedici anni, il 26 agosto del 1931, fece il suo ingresso nel noviziato della «Pia Società Torinese di S. Giuseppe» di Rivoli, in provincia di Torino.
Elesse, come suo modello e protettore, San Giuseppe, padre putativo di Gesù e promise di imitarne lo spirito di fede, l’obbedienza pronta alla divina volontà, l’abbandono filiale alla Provvidenza.
Con un corso di esercizi spirituali si preparò a ricevere il suddiaconato. Era d’esempio a tutti per lo spirito di preghiera. Recitava con particolare fervore l’Ufficio divino, nella consapevolezza che «deve essere la gioia più grande e il più grande onore cantare, a nome di tutta la Chiesa e a nome di tutta la creazione, la gloria dell’Altissimo».
Nel corso della giornata lo si vedeva spesso in chiesa. Voleva essere il «prolungamento di Cristo, che passava molto tempo in orazione».
Il 25 agosto 1941, prima di ricevere l’ordine maggiore del suddiaconato, nel suo diario scrisse: «Mi offro a Cristo con tutta la mia vita, per essere tra le sue mani uno strumento di apostolato e per iniziare quell’offerta che culminerà nel Sacerdozio in cui Cristo si doni a me perché io lo doni alle anime. Amore. Santità. La mia santità è voluta da Cristo, che mi ha chiamato alla vita religiosa. È voluta dalla Chiesa, che mi affida i suoi tesori. È voluta dal popolo, che nel Sacerdote vuol vedere l’uomo di Dio. Quale santità voglio acquistare?: che nessuno se ne accorga. Una grande vita interiore deve formare la linfa spirituale della mia giornata. Signore, fa’ che la mia santità sia una fiamma che si espanda, un incendio che arda sempre, per poter realizzare il motto di San Paolo: “Per me vivere è Cristo” avendo lo scopo di santificare me stesso e santificare gli altri. Ecco la necessità, allora, di crescere in santità. L’osservanza più precisa della Regola, lo spirito di mortificazione e l’unione con Dio mi daranno la mano per ascendere questo monte che mi brilla lontano».
Il 28 giugno 1942, diventò sacerdote di Cristo. Sull’immaginetta ricordo scrisse: «Mi dono tutto a tutti, per guadagnare tutti a Cristo».
Svolse i primi anni della sua missione tra i giovani a Lucera, in provincia di Foggia. La chiesa e l’oratorio di “Santa Caterina” si rivelarono ben presto insufficienti per il numero dei ragazzi che li frequentavano, per cui pensò di realizzare un’Opera Nuova.
Attraverso numerose iniziative riuscì ad avere in dono il terreno e con straordinari espedienti raccolse i fondi necessari per costruire un oratorio, una chiesa ed un teatro, che dedicò tutti a San Giuseppe.
Nonostante le mille occupazioni, riusciva sempre a trovare il tempo per intrattenersi davanti a Gesù Sacramentato e spesso piangeva calde lacrime considerando l’ingratitudine degli uomini verso Gesù che, «per compassione verso questa umanità, aveva voluto restare con noi, vivere con noi, vicino a noi».
Padre Angelo voleva a tutti i costi «farsi santo» e, ricordando che il Padre Fondatore chiedeva a Dio l’aiuto per raggiungere la santità, nella preghiera espresse questo suo desiderio al Signore e alla Vergine Maria, Regina dei Santi e Madre dei sacerdoti.
Dopo aver rivestito l’incarico di Direttore dell’Opera Nuova, fu nominato Superiore provinciale dei Padri Giuseppini. Volle subito conoscere le comunità comprese nella sua giurisdizione, tutti i confratelli, gli oratori e le Opere, e rendersi conto dei relativi problemi e delle singole necessità.
In questo “servizio”, mise in luce straordinarie doti di saggezza, di pazienza e di carità.
Ad ogni Religioso raccomandava di nutrire il suo spirito con assidua preghiera.
Servendosi delle lettere circolari, scriveva: «Se tu non alimenti il tuo zelo, nutrendolo di vita interiore e di orazione mentale, la vita può serbarti amare sorprese. Il dovere, la dedizione, l’attuazione di qualunque ideale, lo spirito di sacrificio e di rinunzia, il tuo lavoro che non conosce sosta e riposo, costano dolore. Ora, chi ti darà la forza per superare con gioia ogni difficoltà, chi ti farà raggiungere le tue aspirazioni, se non la tua preghiera e il tuo saper sostare davanti al Signore?».
Il suo provincialato durò nove anni.
Poi fu superiore e parroco dell’Opera “S. Michele” a Foggia.
Il 5 ottobre 1972, dopo quindici anni, Padre Angelo fece ritorno a Lucera dove, fino al 31 maggio 1980, si dedicò all’insegnamento, mettendo in luce doti carismatiche di grande educatore della gioventù.
Per i suoi meriti eccezionali il Consiglio Comunale di Lucera gli conferì la cittadinanza onoraria.
Padre Angelo Cuomo , definito dal vescovo della Diocesi mons. Raffaele Castielli «un dono incomparabile di Dio», passò gli ultimi anni della sua vita tra l’altare e il confessionale. Nelle ore libere visitava gli infermi, assisteva i moribondi, confortava le anime, faceva compagnia a chi era solo, dispensava saggi suggerimenti e ispirati consigli. Aveva per tutti una parola buona, un sorriso.
Il 31 dicembre del 1989 volle essere presente tra i giovani, che avevano deciso di aspettare all’Opera la fine dell’anno vecchio e di festeggiare l'arrivo del nuovo.
Di notte fu colto da un infarto. Riuscì a chiamare l’anziano confratello padre Nazareno Lughi, per chiedergli l’estrema unzione.
Non voleva disturbare nessuno.
I suoi occhi, fissavano quelli della “Madonna della tenerezza”, la cui effigie troneggiava nella sua camera. Tentò di baciare il Crocifisso che aveva sul comodino, ma il suo braccio ricadde sulla coperta.
Venne chiamata un’autoambulanza. Ma mentre questa si dirigeva verso l’ospedale, la bell’anima di Padre Angelo, con un’improvvisa deviazione, si avviò verso la Patria beata.
Erano le ore 4:30 di martedì, 2 gennaio 1990.
Le sue spoglie riposano nella chiesa di Cristo Re, a Lucera.
Padre Angelo, splendida figura di Sacerdote di Cristo, con il suo zelo instancabile è stato un faro di luce per tutti, in modo particolare per i giovani, ed è stato vicino a chiunque avesse bisogno di lui. Ora continua la sua opera dal cielo.
Riflessione del mese di marzo 2019
IL SACERDOTE: UOMO DI DIO CHE COMBATTE IL MALIGNO CON LA PREGHIERA, IL DIGIUNO E LA PENITENZA.
Allora Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo. Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. Il tentatore gli si avvicinò e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di' che queste pietre diventino pane». Ma Egli rispose: «Sta scritto: Non di solo pane vivrà l'uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio».
Allora il diavolo lo portò nella città santa, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù; sta scritto infatti: Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo ed essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra». Gesù gli rispose: «Sta scritto anche: Non metterai alla prova il Signore Dio tuo».
Di nuovo il diavolo lo portò sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria e gli disse: «Tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai». Allora Gesù gli rispose: «Vattene, Satana! Sta scritto infatti: Il Signore, Dio tuo, adorerai: a Lui solo renderai culto».
Allora il diavolo lo lasciò, ed ecco, degli angeli gli si avvicinarono e lo servivano. (Mt 4, 1-11)
Sull’esempio di Gesù ogni cristiano, ma in modo particolare il Sacerdote, deve combattere il Maligno con la preghiera, il digiuno e la penitenza.
Ce ne dà conferma la testimonianza luminosa di don Dolindo Ruotolo, Sacerdote napoletano morto in concetto di santità il 19 novembre 1970.
Don Dolindo non amava le delicatezze del cibo e del vestiario, sopportava il freddo e la fame e fu visto camminare nella neve senza calzini. Riceveva tutti, per tutti pregava, per tutti soffriva. Si avvicinava ai malati più infetti e li accarezzava, li baciava e ciò per cui il ribrezzo avrebbe in altri estinto la compassione, in lui suscitava la pietà.
In una sua lettera al Can. Francesco Savia, c’è un prezioso squarcio autobiografico: «Ho cercato solo la gloria di Dio e la salvezza delle anime. Non ho avuto un solo quarto d’ora nel quale avessi operato per mio conto. Sedici anni di Sacerdozio, di cui quattordici fra grandi prove ed affanni, ma perciò stesso sedici anni fecondi di misericordia e di grazie, perché la Croce è stata per Gesù la suprema sua attività sacerdotale sul Calvario e la croce è l’attività più bella di un Sacerdote. Si lavora più per Dio soffrendo che operando. Il Signore però mi ha fatto soffrire ed operare sempre».
Nelle sue lettere a sacerdoti amici fa dire a Gesù: «Vivi tutto per me, se vuoi salvare le anime. Come può riscaldare una stufa senza corrente o un braciere senza fuoco? Non basta alla stufa o al braciere la forza esterna per riscaldare, figlio mio! Da tutto il tuo essere debbo trasparire io. Con la meditazione e con la preghiera tieni sempre acceso il tuo cuore, ed invece di agghiacciarti al contatto col mondo, liquefa il ghiaccio mondano col tuo amore a Dio. L’anima che non si nutre di Dio è come un corpo senza calorie ed ogni negligenza nella preghiera spegne nel cuore una fiammella, fino a renderlo gelido. Pensa che dalla tua preghiera può dipendere la salvezza di un’anima, come da una medicina ben preparata può dipendere la vita di un uomo».
«La penitenza è il disinfettante dell’anima, che toglie da essa gli ostacoli alla grazia di Dio. Quando fai penitenza per un’anima traviata, tu formi in te una riserva di grazia che si effonde in lei come una vitamina di vita soprannaturale. La penitenza ti raffina e rende la tua anima più penetrante nella povera anima peccatrice. È come il lubrificante della tua parola di vita, che penetra facilmente anche nella durezza ostinata. L’anima tua con la penitenza si spiritualizza, e si effonde nella mente, nel cuore e nei sensi del peccatore; la penitenza è ... l’oratoria di ogni tua parola di vita. Oh, perché i sacerdoti hanno dimenticato la preghiera e la penitenza per salvare le anime?».
Se oggi alcuni sacerdoti trascurano la preghiera e la penitenza non sarà forse perché anche noi dimentichiamo di pregare per loro?
La Quaresima è il tempo propizio per impegnarci a chiedere con insistenza al Signore numerosi e santi sacerdoti. Cerchiamo di non farlo passare invano.
Sacerdoti santi
nostri contemporanei.
Una perla preziosa
del sacerdozio napoletano:
don Dolindo Ruotolo
Dolindo Ruotolo nacque a Napoli il 6 ottobre 1882 da Raffaele Ruotolo, ingegnere e matematico, e da Silvia Valle, discendente della nobiltà napoletana e spagnola. “Fui chiamato Dolindo, che significa dolore…” sono sue parole per spiegare il significato di questo strano nome, elaborato ed impostogli dal padre al battesimo. Fu tutto un programma di vita, che inconsapevolmente il genitore predestinò al quinto dei suoi 11 figli.
Il dolore effettivamente si presentò nella sua vita prestissimo: a 11 mesi subì una operazione chirurgica sul dorso delle mani, per un osso cariato, poi un altro intervento per un tumore sotto la guancia, che interessò anche le ghiandole.
La famiglia era numerosa e le entrate alquanto scarse, questo faceva sì che spesso nella sua casa si soffrisse la fame e mancassero persino vestiario e scarpe.
Don Dolindo descriveva il padre come una persona molto rigida; Raffaele tra l’altro non mandò i figli a scuola, ma volle insegnargli egli stesso a leggere e scrivere, per cui la loro educazione fu molto sommaria.
Nel 1896, a causa della separazione dei genitori, Dolindo e il fratello Elio vennero messi nella Scuola Apostolica dei Preti della Missione.
Nel 1899, Dolindo venne ammesso al noviziato. Nella sua autobiografia così egli racconta: “ Passando in vicinanza del Coretto dov'era esposto il SS. Sacramento, mi sentivo liquefare d'amore e non me ne sarei mai allontanato. Negli esercizi dell'anno 1898, anno che ho riguardato sempre come anno della mia conversione, fui tanto lieto perché mi diedero la cura della lampada al Sacramento e mi successe questo fatto. La lampada si spegneva spesso perché l'olio era cattivo. Mi raccomandai allora all'Angelo Custode, perché mi avesse svegliato la notte, un minuto prima che si spegnesse (lo spegnersi, infatti, non dipendeva dall'esaurirsi dell'olio ma appunto dalla sua cattiva qualità ... ). Ogni notte, infatti, in ore diverse io mi sentivo svegliare: scendevo subito e trovavo la lampada che stava per spegnersi. Una notte mi sentii battere sulla spalla destra ed ascoltai distintamente questa voce, che ancora mi sta negli orecchi: « Dolindo... la lampada... ». Due volte fui pigro a levarmi, indugiai un minuto e trovai la lampada che allora si era spenta e fumigava. Era dunque veramente il mio buon Angelo che mi svegliava un minuto prima. In questo tempo il mio amore a Gesù Sacramentato crebbe assai”.
Il 1° giugno 1901, fece i voti religiosi.
Nell’anno 1903 fece domanda ai suoi superiori di andare in Cina come missionario; il Visitatore dell’Ordine gli rispose: “Dio le dà questo desiderio per prepararla alle sofferenze e all’Apostolato. Sarà martire, ma di cuore, non di sangue. Rimanga qui e non ne parli più".
Il 24 giugno 1905 venne ordinato sacerdote. Successivamente venne nominato maestro di canto gregoriano e professore dei chierici della Scuola Apostolica.
La vita da sacerdote ‘Vincenziano’, fu intessuta da tanti episodi dolorosi, che mortificarono don Dolindo, dandogli però quella forza di sopportare tutto senza ribellarsi, prendendo tutto ciò come manifestazione della particolare attenzione di Dio nei suoi confronti, che lo forgiava a ciò cui era destinato in seguito. ”Sentii- racconta nella sua autobiografia- la nullità delle cose umane, la vanità delle creature, la durezza degli uomini, la vanità somma che è il riporre in loro la fiducia; mi raccolsi in Gesù Sacramentato, confidai di più nella Madonna, mi sentii più umiliato internamente, parlai di meno, pregai di più... Fu come un rinnovamento interiore. Ora che io scrivo, ripensando al grande amore che mi ha portato Gesù, mi sento commuovere”.
Dal 3 settembre 1907, fu vittima di una serie di errori e incomprensioni che lo portarono al giudizio dell’allora Sant’Uffizio. Venne sospeso dai sacramenti e fu sottoposto anche a perizia psichiatrica, da cui risultò sano di mente.
Si spostò a Rossano in Calabria e da lì, con l’aiuto di prelati amici e certi della sua dottrina e alcuni anche testimoni dei suoi doni soprannaturali, partì la richiesta di revisione del processo.
L’8 agosto del 1910 venne riabilitato, dopo due anni e mezzo di sospensione.
Ridatigli i sacramenti, fu inviato di nuovo a Napoli dove fu espulso dalla sua Comunità.
Seguirono anni pieni di tormenti di ogni genere. Dovette far ritorno in famiglia. Così egli parla di questo periodo: “In casa mia, al principio che io vi andai, la lotta fu sorda e quasi nascosta. Mi fuggivano e mi riguardavano come scomunicato. Se io lasciavo il pane, mangiando, invece di riporlo nella cesta lo gettavano nell'immondizia come pane di scomunicato. Mi facevano pedinare quando uscivo, senza che io me ne fossi accorto. Spesso succedevano scenate da parte di tutti. Mi rinfacciavano spesso che io non guadagnavo nulla ed ero a carico della famiglia. In questo, poveretti, avevano ragione, perché allora in casa mia vi era un grande squallore di povertà. Si mangiava solo un piatto di maccheroni o di legumi e niente altro. Alle volte non si poteva fare neppure questo piatto, ed io ricordo di avere mangiato per pranzo una volta un'insalata di pomodori e null'altro. Si soffriva la fame nel più stretto senso della parola. In casa io non potevo rivolgere la parola a nessuno, perché mi disprezzavano tutti profondamente. Il mio letto era situato in una stanza fredda oltre ogni dire. Quando venne l’inverno, io stavo senza scarpe, senza maglie, senza coperte e morivo di freddo. Dormivo con un copertino d'estate; i miei dicevano: « Se vuoi la coperta di lana te la compri tu, noi non ce l'abbiamo... ». Seguitai ad andare con le scarpe rotte; non avevo panni per coprirmi all'infuori della vecchia sottana che indossavo e del vecchio cappottino a ferraiolo. Non avevo ombrello; ne avevo comprato uno vecchio per una lira, ma dovetti smarrirlo. Ricordo che una sera ebbi tanta acqua addosso, che dovetti spremere la sottana nella vasca. L'acqua mi era penetrata fino alle carni, ed io dovetti rimettermi la stessa sottana bagnata non avendo altro. Sembravano diventati tutti spietati con me, ma il Signore lo permetteva per immolarmi. Avevo anche l’anima oppressa da pene interne”.
In questo periodo dovette accettare di essere esorcizzato e, considerato pazzo, fu oggetto di dolorosi attacchi da parte della stampa.
Nella sua dolorosa solitudine cominciò ad avere delle comunicazioni soprannaturali, per cui scriveva quanto gli veniva rivelato, specie da santa Gemma Galgani.
Il 22 dicembre 1909 Gesù gli parlò solennemente dall’Eucarestia.
Durante la celebrazione eucaristica egli percepiva la presenza della Madonna, dei Santi e degli Angeli custodi degli astanti.
Nel dicembre 1911, don Dolindo venne convocato a Roma una seconda volta per un nuovo processo e fatto alloggiare in una specie di carcere sacerdotale del Sant’Uffizio.
Fu poi rimandato a Napoli nel 1912. Nonostante tanta sofferenza nel cuore di don Dolindo non c'è traccia di risentimento, anzi: « Ringrazio Dio che nelle vie nelle quali mi ha fatto passare, vie così ardue e complesse, io ho avuto una sola preoccupazione: quella di fare la sua Volontà; un solo timore: quello di intralciare la sua via. Ho detto sempre, e lo sanno quelli che mi conoscono: preferisco farmi distruggere, preferisco magari essere illuso, anziché negare a Dio il mio concorso, almeno passivo, nelle sue vie. E' stato così che, pregando e gemendo, ho seguito sempre gli eventi, senza provocarli, ma anche senza porvi ostacoli positivi; mi sono abbandonato a Dio e ho detto a me stesso: io non posso, anche nel dubbio, impedire una via che potrebbe essere destinata al bene di tutti. Dio non fa opere superflue”.
Il dolore di don Dolindo in questi anni è immenso ma egli non perde la sua serenità. “Una prova di questa serenità d'animo è il menu che scrisse insieme a Mons. C. ex Vicario Generale di una città del sud, anima ardente, semplice e piena d'iniziative..al Padre V. scherzando sulla loro estrema e dolcissima povertà romana...
« Gran Restaurant de la Sfasulation » Roma
(Sfasulation, parola napoletana... francesizzata. A Napoli sfasulazione significa: povertà estrema; forse deriva da « sfasùlo » - senza fagioli, cioè tanta povertà da non poter mangiare neppure i fagioli).
Diner du jour 25 Fevr. 1911
Antipasto di consolazioni in Gesú;
Omelette di litanie e giaculatorie;
Brodo Maggi da L. 0,05, per 2= L. 0,10;
Scagliozzi caldi di santo entusiasmo = L. 0,10;
Merluzzo del Baltico (alias Bacalaus) fritto con entramè di zucca L. 0,30;
Pane del forno reale militare, più o meno integrale L. 0,15; Vino, né vecchio né giovane, avuto in dono;
Dolci a profusione di divine soavità spirituali;
Spumante d'ilarità.
N.B. Il conto è stato saldato dalla divina Provvidenza che non abbandona mai il « chiachiello dei chiachielli », Dolindo Ruotolo, né Giuseppe C., somarello dei somarelli”.
Le critiche alle sue opere letterarie e teologiche furono aspre. Vennero messe in giudizio anche le locuzioni con Gesù che egli riceveva.
Subirà un altro processo nel 1921, verrà condannato ed esiliato di nuovo.
Venne definitivamente riabilitato il 17 luglio 1937.
Pur tra tanti dolori ed incomprensioni, la sua vita di sacerdote proseguì a Napoli nella chiesa di S. Giuseppe dei Nudi, di cui il fratello don Elio era parroco.
Don Dolindo non amava le delicatezze del cibo e del vestiario, sopportava il freddo e la fame e fu visto camminare nella neve senza calzini ai piedi. Riceveva tutti, per tutti pregava, per tutti soffriva. Si avvicinava ai malati più infetti e li accarezzava, li baciava e là dove in altri il ribrezzo avrebbe avrebbe avuto la meglio in lui suscitava la pietà e l'amore verso il Signore: “La fiamma centrale della mia vita è la gloria di Dio, nella quale voglio consumare tutto me stesso. E' un fuoco che mi divora e, avvolgendomi, brucia in un atto d'amore tutte le mie miserie”.
Don Dolindo è stato l'ideatore dell’'Opera di Dio", il cui senso è una rinnovata vita eucaristica, cioè il contatto personale e consapevole dell’uomo con Gesù vivo e vero, la disponibilità a lasciarsi trasformare in Lui, come rimedio ai tanti mali che affliggono l’individuo e che si riflettono su scala più ampia sul mondo intero.
Intorno a lui si radunarono tante giovani donne e uomini, tutti di cultura elevata o laureati. Essi diedero vita all’Opera “Apostolato Stampa”, che diffuse in ogni luogo l’insegnamento di don Dolindo, soprattutto attraverso la stampa dei suoi scritti, che vanno dal monumentale “Commento alla Sacra Scrittura” in 33 grossi volumi, alle tante opere di teologia, ascetica e mistica, a interi volumi di epistolario, a scritti autobiografici e di dottrina cristiana.
Nel 1960 per questo santo Sacerdote iniziò un altro calvario: un ictus gli immobilizzò il lato sinistro, ma non lo fermò anzi gli conferì maggiore fervore nell’amore per Dio: “Sii benedetto, o mio Dio, nella mia vita, e tutto il mio essere ti lodi. La mia mente ti adora credendo, ed io riconosco che la tua parola è verità eterna, che la verità eterna sei Tu stesso. Il mio cuore ti ama ed io riconosco che Tu sei l'unico bene. Tutto quello che ho mi viene da Te, mio Dio, ed il mio spirito esulta solo in Te, poiché Tu solo sei vita. Io ti esalto, mio Dio, nella mia medesima piccolezza, e la mia miseria sia la confessione più bella della Tua infinita bellezza. Sono nulla, o Signore, ma appunto per questo il mio spirito esulta in Te, poiché in me non trova nulla che possa farmi esultare. Eccomi a Te, mio Dio, io m'immolo completamente a Te solo, e mi ti cedo tutto. Glorificati nella mia libertà, glorificati nella mia volontà, glorificati nella mia vita, glorificati nella mia morte, glorificati in me, o Signore! Eccomi spoglio di tutto, eccomi tutto annientato in Gesù mio Salvatore, eccomi tutto trasformato in Lui come vittima di amore. Accoglimi, o Signore, nell'Ostia Santa che s'immola sopra gli Altari, accoglimi nel momento nel quale si consuma il Sacrificio sacerdotale, accoglimi sempre in tutto quello che mi circonda. Se la luce dispare, accoglimi come un essere che si eclissa e scompare innanzi alla Tua luce eterna. Se il freddo inverno agghiaccia la terra, accoglimi come un gelo triste che attende il tuo fuoco per sciogliersi in pioggia. Se la vita della terra si diminuisce, accoglimi nella miseria mia che mi fa sterile e stecchito. E vieni, o mio dolce Sposo di amore, vieni perché fiorisca la mia povera terra, perché passi l'inverno, perché io sia come un campo fiorito, nella primavera. Io non Ti domando nulla, o mio Signore, io non Ti rifiuto nulla, o mio Dio. Se mi vuoi nella gioia, eccomi sono tuo. Se mi vuoi nel dolore, eccomi sono tuo. Se mi vuoi nell'aridità, eccomi sono tuo. Se mi vuoi nell'impeto del fervore, eccomi sono tuo. Se mi vuoi nell'inerzia dell'anima, eccomi sono tuo. Io ti dono tutto, io ti rinunzio tutto, e Te solo voglio cercare, solo Te voglio esaltare, solo Te voglio benedire nel tempo e nella eternità”.
Dal suo tavolino continuò a scrivere alle sue ‘Figlie spirituali’ sparse un po’ dovunque.
Don Dolindo Ruotolo si spense il 19 novembre 1970 all’età di 88 anni a causa di una broncopolmonite.
Poco prima della sua morte, nel generale raccoglimento attorno al suo letto di morte, si era diffuso nell'aria un profumo di gigli, sentito dai presenti e accolto come segno ultimo della sua santità.
Vera luce della spiritualità napoletana e della Chiesa cattolica, don Dolindo Ruotolo riposa nella chiesa di S. Giuseppe dei Nudi, dove è anche la tomba di suo fratello Elio.
Preghiera per la beatificazione del servo di Dio Don Dolindo Ruotolo
O grande Iddio, sorgente di ogni santificazione,
noi ti ringraziamo per i doni ed i privilegi concessi al tuo servo Dolindo Ruotolo.
Egli, nella sua tormentata e lunga esistenza,
tanto si sacrificò' per restare fedele alla tua chiamata e adoperarsi per la salvezza eterna delle anime.
Ora ti preghiamo di volerlo glorificare anche qui sulla terra e per questo ti chiediamo, umilmente , di concederci, per sua intercessione, quelle grazie che tanto ci stanno a cuore.
Recitare 3 Gloria al Padre..... Don Dolindo, prega per noi....
Riflessione del mese di febbraio 2019
IL SACERDOTE: L’UOMO CHE RICONOSCE IL SIGNORE
Al capitolo secondo del Vangelo di san Luca si legge: «A Gerusalemme c'era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione d'Israele, e lo Spirito Santo era su di lui. Lo Spirito Santo gli aveva preannunciato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Cristo del Signore. Mosso dallo Spirito, si recò al tempio e, mentre i genitori vi portavano il Bambino Gesù per fare ciò che la Legge prescriveva a suo riguardo, anch'egli lo accolse tra le braccia e benedisse Dio, dicendo: “Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli: luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele”».
Quanti bambini saranno entrati in quel Tempio, quante migliaia di bambini con genitori giovani e poveri avrà visto il santo vecchio Simeone? Eppure riconosce e prende tra le sue mani il Salvatore d’Israele, come se fosse un’offerta, lodando Dio. Sopraggiunta l’anziana profetessa Anna, ugualmente si mette a lodare Dio a motivo di quel Bambino. Simeone ed Anna sono due personaggi conosciuti nel Tempio, poiché lo frequentano assiduamente. Hanno una certa dimestichezza con quei luoghi, con la fede ebraica, con le Sacre Scritture. Ma la loro fede non è un semplice “costume”. È una fede viva, attenta e aperta a quanto il Signore propone. È proprio per questo che riescono a riconoscere il Signore.
In una splendida conferenza del 1977 don Giussani, fondatore del movimento “Comunione e Liberazione”, diceva:
«Questa è la fede: riconoscere una Presenza, e basta. Fede è riconoscere un avvenimento che riaccade di nuovo ogni volta che ci pensiamo. Quando Isaia profetizzava: “Non un angelo, ma Egli stesso vi salverà” (Is 63,9), descriveva questo avvenimento che è Dio fatto compagnia all’uomo; lo stesso quando Mosè, nel capitolo 33 dell’Esodo, chiede: “Signore, se tu non ci accompagni nel cammino, allora piuttosto non farci partire di qui” (Es 33,15). L’accorgersi di questa Presenza è talmente l’unica novità che rende nuovo tutto, perfino l’istante, la banalità del tuo luogo quotidiano. Noi apparteniamo a Lui, perché la sua Presenza è un possesso che Egli prende di noi. È questa percezione, è questa coscienza che mi salva, che non mi giudica, non nel senso che avalla il mio male, ma nel senso che mi permette di non legarmi mai al mio male, che fa sì che il mio male non sia il mio progetto e il mio idolo: “Sia che viviamo, sia che moriamo siamo suoi” (Rm 14,8)».
Il Sacerdote dovrebbe essere l’uomo che si accorge di questa Presenza e la indica ai suoi fratelli.
Molte, troppe volte però egli è distratto da tante cose che, invece di rivelargli questa Presenza, gliela nascondono, impedendogli così di indicarla agli altri. È necessario allora che noi, con la nostra presenza fraterna, gli ricordiamo che niente e nessuno è così importante come la Presenza che dà senso alla vita.
Che desiderio abbiamo di diventare questa presenza? .
Sacerdoti santi nostri contemporanei
don Andrea Santoro
Andrea Santoro nasce a Priverno, in provincia di Latina nel 1945, da papà Gaetano, muratore, e da mamma Maria. E' il terzo di tre fratelli. Nella città natale rimane fino al 1955, quando con la famiglia si trasferisce a Roma, nel quartiere popolare del Quadraro. Resterà però con la famiglia per soli altri due anni, visto che nel 1957 entra in seminario.
Gli anni della formazione coincidono con la grande stagione conciliare, e l'istituzione del seminario come tante altre istituzioni, vive un momento di discussione interna. In questi anni il giovane Andrea si esprime come uno degli elementi che ricercano un sempre maggior dialogo con l'esterno (studia la chitarra e l'inglese), ma al tempo stesso persegue una marcata radicalità evangelica; è molto esigente con se stesso. Per questo sceglie come suo confessore l'austero Mons. Battista Proja.
Il 18 ottobre 1970 riceve dalle mani di Mons. Ugo Poletti l'ordinazione presbiterale.
I primi mesi di servizio li vive nella parrocchia dei Santi Marcellino e Pietro "ad duos lauros", al Casilino. Si trattava di uno dei quartieri più degradati della capitale: ben 5000 persone vivevano in baracche, con situazioni drammatiche per quanto concerne l'igiene e il degrado sociale con una forte presenza di prostituzione.
Dal 1971 al 1980 presta la sua opera nella parrocchia della Trasfigurazione, nel quartiere Monteverde, come viceparroco. Don Andrea porta la sua profonda spiritualità (che in questi anni rivolgerà soprattutto ai bambini) e la sua passione per la Bibbia, che lo accompagnerà per tutta la vita. Ma il giovane sacerdote si spende anche in campo sociale, presenziando alle riunioni dei comitati di quartiere e attivandosi in iniziative più estemporanee, come l'ospitalità offerta a un gruppo di madri di Desaparecidos argentini nel 1979, che lottavano per avere notizie dei loro cari fatti sparire dal regime militare al potere dal 1976. Per Don Andrea, come comunità di credenti, la parrocchia deve vivere la particolare declinazione della fede che è attenzione alla realtà, vicina o lontana.
Dopo alcuni mesi trascorsi nella vecchia parrocchia della Trasfigurazione, nel settembre 1981 Don Andrea è inviato nella parrocchia, di recente costituzione, di Verderocca. La parrocchia è stata fondata per accompagnare la crescita di questo quartiere, in forte espansione, ed all'inizio è priva di tutto, anche di una chiesa. Don Andrea ha l’occasione di sperimentare un modo quasi missionario di fare il parroco: vive in un appartamento, incontra la gente per strada, la visita in casa. Prima di un edificio serve una comunità. Ed è la comunità che accoglie i primi passi del cammino parrocchiale, mettendo a disposizione locali condominiali e appartamenti per le celebrazioni, le catechesi, le attività parrocchiali. Per sette annisi può dire che insieme a Don Andrea, cammini anche l'Eucaristia: dai saloni agli appartamenti, dalle scuole ad un tendone, fino al 1988. E' in quell'anno che intraprende la costruzione di una Chiesa, che verrà dedicata a Gesù di Nazareth e nel cui progetto fa inserire anche un piccolo “eremo”, a disposizione di chi, nella comunità parrocchiale, avesse avuto desiderio o bisogno di spazi di silenzio e meditazione e, poco lontano, due locali per persone in difficoltà e un magazzino per la raccolta di generi alimentari e di conforto.
L'azione di Don Andrea nella comunità di Verderocca prosegue fino al 1993, anni segnati da eventi importanti come la visita del S. Padre Giovanni Paolo II, e da tante iniziative sociali e comunitarie.
Dopo il distacco da quest'opera, chiede di trascorrere cinque mesi in Medio Oriente.
Nel 1994 viene trasferito nella parrocchia dei santi Venanzio e Filippo, non distante da S. Giovanni in Laterano. Una parrocchia importante, marcatamente segnata dal cammino neocatecumenale. Pur apprezzando tale risorsa, il nuovo parroco preme affinché la comunità si apra a varie esperienze, mostrandosi come luogo aperto e accogliente per tutte le sensibilità. Riprende, insomma, quello stile missionario che già lo aveva caratterizzato nei primi anni di Verderocca. Così, apre spazi della parrocchia a “Nuovi orizzonti”, un movimento fondato da una giovane, Chiara Amirante e che rivolge la sua attenzione alle povertà urbane e all'evangelizzazione di strada. Non è forse casuale che don Andrea metta a disposizione i locali sottostanti la chiesa, come a sottolineare il legame tra Eucaristia, fratellanza e solidarietà. E, come a Verderocca, crea la cappella di San Venanzio, come spazio dedicato esclusivamente alla preghiera. Nuova, nell'azione pastorale, è invece l'attenzione ai temi dell'ecumenismo e del dialogo interreligioso. Quest'apertura verso l'altro è indice della sua crescente sete di partenza per la missione, inizialmente poco compresa dai suoi superiori. Il permesso agognato da Don Andrea giunge nel 2000, quando il Card. Ruini gli consente di partire per l'Anatolia, per un triennio, quale sacerdote fidei donum.
In un'intervista del 2004, egli spiegava così la sua scelta: “Io dico sempre: «la fede è partire». Senza la disponibilità a partire non c'è la fede. E partire vuol dire mettersi in un cammino in cui Dio sempre più ti si manifesta, in cui tu sempre di più lo incontri, sei da lui riempito e svuotato, e sempre di più diventi una benedizione per gli altri. La disponibilità a misurarsi faccia a faccia in una relazione con Dio, dove Lui prende le redini della tua vita, dove l'incertezza che ti viene da Dio è preferibile alle certezze che vengono da te”.
E' interessante osservare come Don Andrea interpreti il suo invio in missione anche come mezzo per creare un legame tra la Chiesa di Roma e la Chiesa turca: “Sento questo invio come uno scambio: noi abbiamo bisogno di quella radice originaria della fede se non vogliamo morire di benessere, di materialismo, di un progresso vuoto e illusorio; loro hanno bisogno di noi e di questa nostra Chiesa di Roma per ritrovare slancio, coraggio, rinnovamento, apertura universale” Proprio per questa ragione, prima di partire fonda un'associazione dal significativo nome di “Finestra per il Medioriente”, che, attraverso pubblicazioni, incontri e pellegrinaggi, favorisca lo scambio di esperienze tra Roma e la “culla” delle fedi. Prima va ad Urfa, nel sud est del paese, ai confini con la Siria, dove rimane tre anni come presenza orante e silenziosa: lì non c’è neppure un cristiano e tuttavia riesce a farsi benvolere da tutti, persino dall’imam della moschea vicina.
Confida agli amici di Roma: “mi sono guardato intorno, ho pregato…, ho intessuto piccoli quotidiani rapporti con i vicini di casa, con i mille piccoli negozianti delle mille piccole botteghe, imparando a salutare, a rispondere alle tante domande, a chiedere informazioni; ho imparato a voler bene, come segno fondamentale della presenza di Cristo, a voler bene gratuitamente senza nulla aspettarmi, a voler bene ad ogni persona così come è, come è vista ed amata da Dio”.
E’ lo stesso stile che adotta quando gli chiedono di trasferirsi al nord, a Trabzon, Trebisonda: una città di duecentomila abitanti, con una comunità cattolica di appena15 persone, una più folta comunità ortodossa sparsa per la città, un’emigrazione femminile caratterizzata dalla prostituzione e dallo sfruttamento. “Tienici uniti nella nostra diversità: non così uniti da spegnere la diversità, non così diversi da soffocare l’unità” diventa la sua preghiera costante, mentre si esercita nella “liturgia della porta”: aprire, sorridere, salutare, rispondere, ma anche prendere posizione, per strappare dalla prostituzione quelle schiere di donne, perlopiù armene e georgiane. “Cerco di essere la presenza, per quanto povera e inadeguata, di Gesù . Cerco di essere, insieme a quei pochi che si riconoscono in Gesù, un piccolo virgulto di Chiesa. Cerco di essere una piccola finestra di luce”.
È forse in questa sua azione di contrasto alla prostituzione, o più semplicemente nel fanatismo fomentato in quei giorni dalla pubblicazione di alcune vignette blasfeme su un giornale danese, che matura la decisione di eliminare quel prete scomodo, che in silenzio sta creando ponti tra le religioni.
Se ne incarica un ragazzo di appena 16 anni, imbottito di odio da fanatici predicatori, che il 5 febbraio 2006 lo uccide con alcuni colpi di pistola, mentre don Andrea è inginocchiato in chiesa, assorto in preghiera.
Nella convinzione che sia un testimone della fede fino al dono della vita, la Chiesa di Roma ha dato avvio nel 2011 al suo processo di canonizzazione.
Riflessione del mese di gennaio 2019
IL SACERDOTE: UOMO DI MARIA
La Chiesa all’inizio di ogni anno ci fa volgere lo sguardo a Maria Madre di Dio e pone la nostra vita sotto la Sua materna protezione.
«Il Santo Curato d'Ars amava ripetere: “Gesù Cristo, dopo averci dato tutto quello che ci poteva dare, vuole ancora farci eredi di quanto Egli ha di più prezioso, vale a dire la sua Santa Madre”. Questo vale per ogni cristiano, per tutti noi, ma in modo speciale per i sacerdoti. Maria li predilige per due ragioni: perché sono più simili a Gesù, amore supremo del suo cuore, e perché anch’essi, come Lei, sono impegnati nella missione di proclamare, testimoniare e dare Cristo al mondo. Per la propria identificazione e conformazione sacramentale a Gesù, Figlio di Dio e Figlio di Maria, ogni sacerdote può e deve sentirsi veramente figlio prediletto di questa altissima ed umilissima Madre».
( BENEDETTO XVI, Udienza generale,12 agosto 2009).
Nel Vangelo di Giovanni, l’episodio delle nozze di Cana ci permette di scoprire la sollecitudine affettuosa di Maria per ciascuno dei suoi figli, l'attenzione materna con cui avverte l'altrui situazione difficile; vediamo la sua bontà cordiale e la sua disponibilità ad aiutare ma anche la sua fiduciosa intercessione presso il suo Figlio. «Tre giorni dopo, ci fu uno sposalizio a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. Nel frattempo, venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: “Non hanno più vino”. E Gesù rispose: “Che ho da fare con te, o donna? Non è ancora giunta la mia ora”. La madre dice ai servi: “Fate quello che vi dirà”. Vi erano là sei giare di pietra per la purificazione dei Giudei, contenenti ciascuna due o tre barili. E Gesù disse loro: “Riempite d’acqua le giare”; e le riempirono fino all’orlo. Disse loro di nuovo: “Ora attingete e portatene al maestro di tavola”. Ed essi gliene portarono. E come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, il maestro di tavola, che non sapeva di dove venisse (ma lo sapevano i servi che avevano attinto l’acqua), chiamò lo sposo e gli disse: “Tutti servono da principio il vino buono e, quando sono un po’ brilli, quello meno buono; tu invece hai conservato fino ad ora il vino buono”. Così Gesù diede inizio ai suoi miracoli in Cana di Galilea, manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui» (Gv2,1-11).
Notare il bisogno di qualcuno o la mancanza di qualcosa è un tratto prettamente femminile: le donne hanno “l’occhio lungo”. Basta poco, quindi, alla Vergine, perché le salti all’occhio quel deficit di vino: subito deve aver compreso quale brutta figura stavano rischiando di fare gli sposi, di fronte ai loro invitati. Invece di rivolgersi al maestro di tavola, preferisce andare sul sicuro, indirizzandosi al Figlio. Nella risposta di Gesù notiamo una certa freddezza. Maria però, tenace come sanno essere le donne, non demorde e, nonostante la risposta non suggerisca grande disponibilità, con assoluta fiducia dice ai servi: “Fate quello che vi dirà”.
Oggi tanti sacerdoti rischiano di fare la brutta figura, che hanno rischiato di fare gli sposi di Cana, perché manca loro il vino della fede, il vino della preghiera, il vino della speranza, il vino della fedeltà. Maria però, con “l’occhio lungo” che le è proprio, veglia su di essi; li raccomanda a Gesù e dice a noi come ai servi delle nozze di Cana: “Fate quello che vi dirà”, cioè pregate per loro, perché siano santi.
PREGHIERA A MARIA PER I SACERDOTI
Vergine Madre, figlia del tuo Figlio, donna dell'ascolto e del servizio, a te ci rivolgiamo con cuore di figli. Ti affidiamo tutti i sacerdoti. Ti chiediamo di accompagnarli con la tua bontà materna, perché ogni giorno ripetano il loro "sì" a Dio, come tu stessa hai fatto a Nazaret e in tutta la tua vita. Tu eri presente con gli apostoli nel cenacolo e con loro hai invocato e poi accolto il dono dello Spirito, che li ha resi coraggiosi testimoni del tuo Figlio, crocifisso e risorto, e li ha sostenuti nell'annunciare il Vangelo ad ogni creatura. Tu stessa li hai accompagnati con la tua preghiera, e la tua tenerezza di Madre. Accompagna anche i nostri sacerdoti, dona loro l’audacia di annunciare anche nel nostro tempo la bellezza dell'amore del Padre. Aiutali ad essere autentici e fedeli, puri di cuore e solleciti verso ogni persona. Sostienili nelle giornate difficili, e aiutali a rialzarsi, quando sperimentano la debolezza della loro risposta. Prendi per mano tutti quelli che hanno smarrito la strada e non trovano il coraggio di tornare a casa. Sostieni chi fatica ad essere fedele, e dona la consolazione che aiuta a superare i momenti difficili. Invoca con loro e per loro lo Spirito, perché siano servitori della comunità sull'esempio del Figlio tuo, che si è fatto servo per amore. Aiutali a spezzare con fede il pane della Parola e dell'Eucaristia e ad essere compagni di viaggio per tutti coloro che cercano nel Vangelo la risposta alle tante domande della vita, il sollievo alle tante sofferenze che spesso ci rendono tristi. Accompagnali tutti con il tuo amore di Madre; o clemente, o pia, o dolce Vergine Maria!
Riflessione del mese di dicembre 2018
IL SACERDOTE: LAMPADA CHE RISCHIARA
Nel vangelo di Giovanni Gesù afferma: «Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (Gv 8,12). «Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città che sta sopra un monte, né si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa luce a tutti quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,14-16).
Abbiamo bisogno di luce e, allo stesso tempo, siamo chiamati a divenire luce. Gesù è la luce del mondo , la luce di ogni uomo, di ogni cristiano, ma lo è soprattutto del sacerdote e se ogni cristiano in Gesù diventa a sua volta luce del mondo, a maggior ragione lo diventa il sacerdote. Sarebbe stolto e disastroso per lui rifiutarsi di risplendere come una lampada e lo sarebbe soprattutto per la comunità cristiana. Gesù dice: «Conservate le vostre lampade accese» (cfr Lc 12,35): la lampada della fede, la lampada della preghiera, la lampada della speranza e dell’amore! Dalla coscienza viva della sua vocazione, della sua consacrazione come strumento di Cristo per il servizio degli uomini, nasce nel Sacerdote la coscienza della necessità di diventare luce per illuminare gli altri. Egli ogni giorno deve dire: «Signore, tu sei luce alla mia lampada; il mio Dio rischiara le mie tenebre» (Sal 18,29).
«Lampada accesa sei tu sul candelabro, nella mia Chiesa, come Sacerdote, lampada per l'ufficio che rivesti nella tua Comunità. Devi dunque splendere, perché gli altri possano illuminarsi alla tua fiamma. Libro vivente aperto al popolo e ai tuoi dipendenti, affinché vi leggano, nei tuoi esempi e nelle tue parole, la via che debbono seguire per venire a me. Ogni tuo difetto è come un soffio che diminuisce la fiamma e volta la pagina al vuoto. La tua... dignità non sta nei drappi e nell'anello, sta nell'abito della santità e nel più intimo legame con me. Ti voglio santo» (Gesù a don Dolindo Ruotolo, sacerdote napoletano, morto in concetto di santità il 19 novembre 1970).
Dio, Dio, Dio mio
Voglio portare scritto sulla mia fronte: Dio è la mia gloria...
Sul mio intelletto: Dio è la mia luce!
Sul mio cuore: Dio è il mio amore!
Ciò che non viene da Lui, io voglio aborrirlo...
Una conoscenza che non mi porti a conoscerlo e ad amarlo, per me è più tenebrosa di un abisso...
Dio, Dio, Dio mio,
che cosa dirò di te, io, piccola creatura?
Farò del mio intelletto un timpano di luce, per osannare alla tua eterna verità...
Farò del mio cuore un cembalo d'amore, per cantarti amore...
Farò del mio corpo un'arpa a dieci corde, intonate ai tuoi comandi, per cantarti tutta la mia fedeltà!
E, mondato dalla tua misericordia, vivificato dal tuo amore, ti dirò che sono tuo e canto in eterno le tue misericordie... (Don Dolindo Ruotolo a Gesù)
In questo periodo di Avvento preghiamo con maggiore intensità perché i sacerdoti, attingendo quotidianamente luce a Colui che è la Luce del mondo, siano come lampade che rischiarano il cammino di chiunque li avvicini.
Riflessione del mese di novembre 2018
Il Sacerdote : uomo di fede
E dalla folla uno gli rispose: «Maestro, ho portato da te mio figlio, che ha uno spirito muto. Dovunque lo afferri, lo getta a terra ed egli schiuma, digrigna i denti e si irrigidisce. Ho detto ai tuoi discepoli di scacciarlo, ma non ci sono riusciti». Egli allora disse loro: «O generazione incredula! Fino a quando sarò con voi? Fino a quando dovrò sopportarvi? Portatelo da me». E glielo portarono. Alla vista di Gesù, subito lo spirito scosse con convulsioni il ragazzo ed egli, caduto a terra, si rotolava schiumando. Gesù interrogò il padre: «Da quanto tempo gli accade questo?». Ed egli rispose: «Dall'infanzia; anzi, spesso lo ha buttato anche nel fuoco e nell'acqua per ucciderlo. Ma se tu puoi qualcosa, abbi pietà di noi e aiutaci». Gesù gli disse: «Se tu puoi! Tutto è possibile per chi crede». Il padre del fanciullo rispose subito ad alta voce: «Credo; aiuta la mia incredulità!». Allora Gesù, vedendo accorrere la folla, minacciò lo spirito impuro dicendogli: «Spirito muto e sordo, io ti ordino, esci da lui e non vi rientrare più». Gridando e scuotendolo fortemente, uscì. E il fanciullo diventò come morto, sicché molti dicevano: «È morto». Ma Gesù lo prese per mano, lo fece alzare ed egli stette in piedi. (Mc 9, 17-27) “ Tutto è possibile a chi crede” dice Gesù al padre del ragazzo posseduto da un spirito muto.
Se ogni cristiano, come il padre del ragazzo guarito, ha bisogno di ripetere ad alta voce: “ Credo; aiuta la mia incredulità”, quanto più ne ha bisogno il Sacerdote! Egli, che deve confermare nella fede i propri fratelli, a maggior ragione deve essere un uomo di fede. Anche il Sacerdote, però è un uomo che deve crescere nella fede e in questo lo può e lo deve aiutare la testimonianza di fede della comunità cristiana e la preghiera della stessa.
Nel suo libro “Inviato speciale ai confini della fede. La mia vita di missionario giornalista” padre Piero Gheddo, missionario del PIME, rivela che più volte nella sua vita ha attraversato vere e proprie crisi interiori. Da uomo e da prete. Negli oltre 80 Paesi visitati per incontrare sul campo popoli, culture, missionarie, missionari, volontari “ho visto da vicino la miseria più disumana, le atrocità delle guerre e delle violenze. Qualcuno mi ha chiesto: “Non ti è mai salito, da dentro, il grido “Dio, dove sei?” davanti a certi tragici spettacoli?”. «Ho già visto la fame in India, ma non in questa spaventosa situazione: uomini, donne, bambini, anziani, seduti per terra in tutte le costruzioni, nei corridoi, nelle stanze, nel cortile sotto un sole impietoso, per avere due volte al giorno una fetta di polenta di mais con un po’ di peperoncino e un litro d’acqua per famiglia. La fame autentica (che poi proverò in Angola) torce lo stomaco, rende l’uomo disumano. Ho pensato a Gesù crocifisso. Questi poveri scheletri umani sono in Croce con Gesù. Mi sento colpevole, responsabile di quella tragedia. Penso a tutto quel che Dio ha dato a me e nulla a quei poveri in Croce con Gesù. Provo vergogna, piango e prego per loro». Da sacerdote, confessa ancora padre Gheddo, «ho attraversato la forte crisi dell’attivismo: mi sono lasciato trascinare in un tale inarrestabile ingranaggio di attività, sempre più urgenti, da mettere in secondo piano la preghiera e la ricerca dell’intimità con Gesù Cristo» Dal 1968 fin verso il 1973-1974 “mi capitava di trascurare il breviario, il rosario, la confessione, di non celebrare tutti i giorni la santa Messa… Ero talmente pressato dagli impegni che mi pareva logico non dare troppo peso alle pratiche di pietà, perché mi illudevo pensando: “Gesù sa che prima o poi a queste pratiche ci ritorno! In quegli anni c’è stato un decadimento nella mia vita spirituale”.
L’incontro con monsignor Aristide Pirovano, uno dei missionari Pime più conosciuti, è stato decisivo. «Pregava tanto e a me diceva che, come giornalista con una vita molto distratta, dovevo essere fedele alle pratiche di pietà del sacerdote. Nel gennaio 1997 vado a salutarlo nell’ospedale Valduce di Como poco prima della sua morte, mentre sto partendo per la Guinea-Bissau. Recitiamo assieme il rosario e poi mi dice di recitare tre rosari al giorno!”.
Infine l’incontro con parecchi testimoni della fede: il beato martire Giovanni Mazzucconi, i servi di Dio Marcello Candia (oggi venerabile), Clemente Vismara (oggi beato), Felice Tantardini, Paolo Manna (oggi beato), di cui ha scritto la biografia, l’hanno aiutato a superare le crisi e a vivere a sua volta come testimone della fede.
In questo mese di novembre, ricordiamo i tanti sacerdoti santi che abbiamo conosciuto, preghiamo perché il Signore conceda loro il riposo eterno e chiediamoGli di donarcene ancora tanti e santi.
"Vieni, seguimi".
Nonostante gli scandali passati e recenti da parte di Sacerdoti di ogni ordine e grado, Gesù non si stanca di passare e di chiamare giovani al suo seguito.
Sosteniamo con la nostra preghiera tutti coloro che accolgono l'invito del Signore, perché perseverino senza scoraggiarsi.
Riflessione del mese di ottobre 2018: IL SACERDOTE: L’UOMO GUARITO CHE GUARISCE
Gesù entrò di nuovo a Cafarnao dopo alcuni giorni. Si seppe che era in casa e si radunarono tante persone, da non esserci più posto neanche davanti alla porta, ed egli annunziava loro la parola. Si recarono da lui con un paralitico portato da quattro persone. Non potendo però portarglielo innanzi, a causa della folla, scoperchiarono il tetto nel punto dov'egli si trovava e, fatta un'apertura, calarono il lettuccio su cui giaceva il paralitico. Gesù, vista la loro fede, disse al paralitico: "Figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati". Seduti là erano alcuni scribi che pensavano in cuor loro: "Perché costui parla così? Bestemmia! Chi può rimettere i peccati se non Dio solo?". Ma Gesù, avendo subito conosciuto nel suo spirito che così pensavano tra sé, disse loro: "Perché pensate così nei vostri cuori? Che cosa è più facile: dire al paralitico: Ti sono rimessi i peccati, o dire: Alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina? Ora, perché sappiate che il Figlio dell'uomo ha il potere sulla terra di rimettere i peccati, ti ordino - disse al paralitico - alzati, prendi il tuo lettuccio e va’ a casa tua". Quegli si alzò, prese il suo lettuccio e se ne andò in presenza di tutti e tutti si meravigliarono e lodavano Dio dicendo: "Non abbiamo mai visto nulla di simile!" (Mc 2,1-12)
L’unico vero medico è Gesù. Il sacerdote guarisce su mandato di Gesù: ”Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà messo dinanzi, curate i malati che vi si trovano, e dite loro: Si è avvicinato a voi il regno di Dio”. (Lc 10,8-9)
“ Il sacerdote prima ancora di essere medico è un paziente, un infermo come gli altri che ha bisogno di Cristo. Per riconciliare gli uomini con Dio, anche lui deve essere riconciliato. Essere sanati dal peccato significa infatti riconciliarsi con Dio, dal quale il peccato ci separa. Se il sacerdote deve svolgere un servizio risanante e riconciliatore, egli deve di continuo riconciliarsi con Dio. Il Sacerdote, in quanto medico, non può sempre approvare; egli deve anche disapprovare. Questo può non piacere alle anime, ma fa loro bene. Come medico delle anime e dei corpi, il sacerdote è chiamato a risanare con la parola chiara, con la parola di Cristo e della Chiesa e non con il suo pensiero umano”. ( tratto liberamente da di Mauro Gagliardi)
Nella lettera ai sacerdoti per l’indizione dell’anno sacerdotale il santo padre Benedetto XVI, citando il santo curato d'Ars, così si scriveva: Non è il peccatore che ritorna a Dio per domandargli perdono, ma è Dio stesso che corre dietro al peccatore e lo fa tornare a Lui”. “ Questo buon Salvatore è così colmo d’amore che ci cerca dappertutto”>. Tutti noi sacerdoti dovremmo sentire che ci riguardano personalmente quelle parole che egli metteva in bocca a Cristo: “Incaricherò i miei ministri di annunciare ai peccatori che sono sempre pronto a riceverli, che la mia misericordia è infinita”. Dal Santo Curato d’ars noi sacerdoti possiamo imparare non solo un’inesauribile fiducia nel sacramento della Penitenza che ci spinga a rimetterlo al centro delle nostre preoccupazioni pastorali, ma anche il metodo del dialogo di salvezza che in esso si deve svolgere. Il curato d’Ars aveva una maniera diversa di atteggiarsi con i vari penitenti. Chi veniva al suo confessionale attratto da un intimo e umile bisogno del perdono di Dio, trovava in lui l’incoraggiamento ad immergersi nel “torrente della divina misericordia” che trascina via tutto nel suo impeto. E se qualcuno era afflitto al pensiero della propria debolezza e incostanza, timoroso di future ricadute, il Curato gli rivelava il segreto di Dio con un’espressione di toccante bellezza: “ Il buon Dio sa tutto. Prima ancora che voi vi confessiate, sa già che peccherete ancora e tuttavia vi perdona. Come è grande l’amore del nostro Dio che si spinge fino a dimenticare volontariamente l’avvenire, pur di perdonarci!”.
SACERDOTI SANTI
preghiera per ottenere sacerdoti santi
Padre nostro che sei nei cieli,
donaci sacerdoti secondo il tuo Cuore.
Perché sia santificato il tuo nome,
donaci sacerdoti secondo il tuo Cuore.
Perché venga il tuo Regno,
donaci sacerdoti secondo il tuo Cuore.
Perché la tua volontà si compia in cielo come in terra,
donaci sacerdoti secondo il tuo Cuore.
Per donarci il Pane della vita,
donaci sacerdoti secondo il tuo Cuore.
Per perdonare le nostre colpe,
donaci sacerdoti secondo il tuo Cuore.
Perché ci aiutino a superare le tentazioni,
donaci sacerdoti secondo il tuo Cuore.
E loro e noi libera da ogni male. Amen.
io ho una missione
“Dio mi ha creato per rendergli un servizio definitivo. Egli mi ha affidato un lavoro che non ha affidato ad un altro. Ho la mia missione. Forse non lo saprò mai in questa vita, ma mi sarà chiaro nella prossima. Sono un anello di una catena, un legame di collegamento tra le persone. Egli non mi ha creato per nulla. Farò il bene; farò la Sua opera. Sarò un angelo della pace, un predicatore della verità al mio posto, ma non lo farò se non osserverò i suoi comandamenti. Pertanto, mi fiderò di Lui, in qualunque situazione io sia, non potrò mai essere gettato via. Se sono nella malattia, la mia malattia può servirLo, nella perplessità, la mia perplessità può servirlo. Se sono nel dolore, il mio dolore può servirlo. Non fa nulla invano. Egli sa cosa fa. Può portare via i miei amici. Può gettarmi tra gli estranei. Può farmi sentire desolato, far affondare il mio spirito, nascondermi il mio futuro. Eppure, Egli sa cosa fa”.
card. John Henry Newman
Lascia la banca e diventa sacerdote.
È Johannes d’Asburgo.
C’è un giovane che ha deciso di lasciare la sua famiglia, una promettente carriera in un istituto finanziario di Parigi e la vita mondana per consacrarsi a Cristo e dedicarsi al servizio delle anime. E se già questo non è per nulla scontato, ad aggiungere particolarità a questa storia di vita è il fatto che il protagonista è Johannes d’Asburgo, classe 1981, terzo figlio dell’arciduca Rodolfo e di Hélène d’Austria e dunque erede di una discendenza intimamente legata al cristianesimo. A José María Ballester Esquivias, che lo ha intervistato, il giovane ha risposto in maniera semplice e chiara sulle motivazioni che lo hanno spinto a diventare sacerdote: «Mi chiede due o tre ragioni. Ne ho solo una: Gesù. Non sono stato ordinato sacerdote per soddisfare un desiderio di realizzazione personale. Molto semplicemente, è stato il Signore che, per rispondere al mio desiderio di offrirmi veramente a Lui, ha detto una parola sulla mia vita. È per corrispondere al Suo desiderio che ho intrapreso questa strada». Naturalmente, negli anni non è stato tutto così lineare, anche se il giovane afferma di non aver mai avuto particolari crisi di fede. Fin da piccolino aveva chiara la differenza tra il Bene e il Male e nutriva una forte speranza in un mondo migliore. La prima svolta arriva tuttavia con l’adolescenza. È infatti attorno ai sedici anni che Johannes s’imbatte in due libri che segneranno la sua esistenza, facendogli comprendere la possibilità di vivere nella gioia. Il primo testo è La città della gioia, di Dominique Lapierre; il secondo è una biografia di Zita (1892-1989), sua bisnonna e moglie del beato imperatore Carlo d’Austria (1887-1922). Della vita di questi due suoi antenati Johannes coglie soprattutto il fatto che si sono spesi «a servizio dei poveri e della pace, quando avrebbero potuto vivere in modo molto diverso, come principi». «Per me», prosegue, «rappresentano l’esempio stesso della nobiltà del cuore». Evidentemente però il giovane non era ancora pronto per fare un passo ulteriore. A 19 anni decide così di iscriversi alla facoltà di economia presso l’Università di San Gallo (Svizzera), che lo porterà poi a ricoprire un ruolo promettente in una banca di Parigi. Dopo un anno dall’inizio di questo impiego, tuttavia, «il banchiere in erba ha sentito un grande vuoto che ha sofferto completando la sua formazione presso il Philantropos Institute, un’istituzione accademica situata a Friburgo che offre una formazione annuale basata sull’antropologia cristiana». Questo percorso lo porta a interrogarsi nel profondo sulla figura di Gesù Cristo e a maturare la decisione, nel 2006, di iniziare il percorso di avvicinamento al sacerdozio presso la giovane fraternità Eucharistein, fondata nel 1996 a San Maurizio da padre Nicolas Buttet e ispirata al versetto 20 del quinto capitolo della Lettera agli Efesini, che esorta a vivere «rendendo continuamente grazie per ogni cosa a Dio Padre, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo» Dopo 12 anni, il 16 giugno di quest’anno, Johannes è stato ordinato sacerdote e la speranza che vive in lui è manifesta perché, afferma, «quando le persone vivono il Mistero di Cristo, iniziano opere che cambiano il corso naturale delle cose!». E lo stesso è se si rivolge lo sguardo alla Chiesa e al mondo: la sola speranza è Gesù: «Solo Lui», spiega il padre, «può trasfigurare le miserie del nostro mondo, forse le più abissali che l’umanità abbia mai conosciuto: miseria materiale, moralità, individualismo, mancanza di famiglia e relazioni, perdita di senso e di riferimento, mancanza generalizzata di speranza, pazzia mortale (in particolare i suicidi), poiché Egli conosce le sofferenze che ha attraversato il Suo amore divino attraverso la crocifissione e la risurrezione».
( da " IL TIMONE" )
Ogni giovedì presso il centro di spiritualità sacerdotale, alle ore 18:00, c'è un'ora di adorazione per le vocazioni sacerdotali, per i seminaristi e per la santificazione dei sacerdoti.
Chi vuole, può unirsi spiritualmente a questa preghiera tanto gradita al Signore.