Don Mauro Gagliardi
6.Obiezioni contrarie alla teologia e alla pratica della riparazione
Dinanzi a simili insegnamenti, è possibile tuttavia opporre delle obiezioni. In modo particolare, possiamo qui affrontarne due. La prima obiezione contro la necessità di offrire riparazione al Cuore di Cristo è stata considerata già da Pio XI nella citata enciclica, che la riassume in questi termini: «come potrà dirsi che Cristo regni beato nel Cielo se può essere consolato da questi atti di riparazione?». Cristo risorto è in Cielo in stato di impassibilità; Egli non soffre più. Questa dottrina ha una evidente base biblica: «Cristo, risorto dai morti, non muore più; la morte non ha più potere su di lui» (Rm 6,9). Se Cristo non patisce più, Egli non può neanche soffrire a causa dei nostri peccati e quindi in che modo potrebbe essere consolato, dato che non può esservi in Lui alcuna sofferenza da consolare? Pio XI risponde che le anime contemplative, meditando e quasi immaginandosi Cristo tutto livido e sanguinante durante la sua Passione, sanno bene che Egli fu ridotto a quello stato per i peccati non solo dei suoi contemporanei, ma anche degli uomini futuri. Di conseguenza, Egli poté anche sperimentare consolazione in quegli atroci momenti, conoscendo con la sua scienza divina e umana la futura riparazione amorosa offerta dai buoni cristiani nell’arco dei secoli. In parole più semplici, offriamo oggi la riparazione perché questa riparazione di oggi fu vista da Cristo durante la Passione e gli arrecò consolazione. In un suo libretto sul Sacro Cuore, Karl Rahner ritenne di doversi esprimere contro la dottrina così esposta da Pio XI, la quale però ha dalla sua un buon fondamento teologico, come pure il consenso di parecchi mistici e anime contemplative.
Papa Ratti aggiunge, poi, un secondo elemento di risposta: la Passione è compiuta nel Capo, ma non ancora nelle membra. Nel suo Corpo Mistico, per dirla con Pascal, «Cristo sarà in agonia fino alla fine del mondo» (Pensieri, 553). È per questo che apparendo a Saulo, identificandosi con la sua Chiesa perseguitata, il Signore – sebbene fosse già risorto – disse: «Io sono Gesù, che tu perseguiti» (At 9,5). Cristo in Cielo non soffre più. Ma Egli misticamente soffre sulla terra nel suo Corpo ecclesiale e questo è un secondo motivo che mostra la necessità della riparazione.
Una seconda obiezione, mossa da un certo numero di teologi recenti e poi divenuta convinzione di diversi sacerdoti e fedeli, ritiene che la pratica della riparazione sia fondata su una teologia, se non erronea, almeno superata. Normalmente chi muove questa obiezione se la prende principalmente con la teologia di sant’Anselmo, colpevole a suo dire di aver presentato un’idea troppo giustizialista di Dio. Senza entrare nei dettagli, l’obiezione in parola sostiene che noi oggi abbiamo una visione più equilibrata e più corretta di Dio. Noi non accettiamo l’idea di un Dio che sta a vigilare su un ordine di giustizia e che richiede una riparazione, per non dire una vendetta, delle offese subite. Questo Dio non sarebbe davvero il Dio cristiano, che è Dio dell’amore e della misericordia. Come spesso accade, questo ragionamento contiene anche degli elementi corretti. È senza dubbio vero che il nostro Dio è Amore. È vero che Egli è misericordioso e che non dovrebbe essere rappresentato come una sorta di ragioniere che tiene conto dell’evasione o meno di ricevute di pagamento. D’altro canto, eliminare dall’immagine di Dio la giustizia, la verità, la santità o la trascendenza; come pure cassare dalla comprensione del suo piano salvifico elementi quali la redenzione, il prezzo del riscatto, il sacrificio, l’espiazione e via di seguito, implicherebbe dover strappare via molte pagine dalla Bibbia. Non va dimenticato che Dio si è rivelato a noi come giusto e misericordioso: né solo giusto, né solo misericordioso. Egli è perfetto in ogni aspetto e non solo in alcuni. A chi, però, sostiene questa obiezione contro la pratica della riparazione, desta particolare fastidio l’idea che la preghiera, l’adorazione eucaristica, la Comunione riparatrice, le penitenze possano valere davanti a Dio come delle opere compensatorie. Costoro affermano che ciò che davvero vale è la carità, ragion per cui più che offrire un’ora santa, bisognerebbe impegnarsi per altre cause, ben più concrete.
A questo punto in particolare aveva prestato attenzione già Pio XII nella citata enciclica Haurietis Aquas, in cui scrive:
Vi sono anche altri, i quali, ritenendo questo culto come troppo vincolato agli atti di penitenza, di riparazione e di quelle virtù che stimano piuttosto «passive», perché prive di appariscenti frutti esteriori, lo giudicano senz’altro meno idoneo a rinvigorire la spiritualità moderna, cui incombe il dovere dell’azione aperta e indefessa per il trionfo della fede cattolica e la strenua difesa dei costumi cristiani, in mezzo ad una società inquinata di indifferentismo religioso, incurante di ogni norma discriminatrice del vero dal falso nel pensiero e nell’azione, ligia ai princìpi del materialismo ateo e del laicismo.
Don Mauro Gagliardi
5.La devozione al Sacro Cuore
La devozione al Sacro Cuore adora quel Cuore trafitto per i peccati degli uomini, quel Cuore che ha amato di perfettissima carità umana Dio e gli altri uomini, quel Cuore che ha deciso di dare la propria vita, aderendo al piano divino, per riparare le colpe altrui, le colpe dei fratelli. La devozione al Sacro Cuore è quindi intimamente legata anche al sacerdozio di Cristo, perché Cristo svolse il suo sacerdozio offrendo un sacrificio che non fu solo esteriore, bensì tanto esteriore quanto interiore. Egli offrì visibilmente il suo corpo sulla croce ed offrì al contempo, in modo invisibile, la sua vita al Padre sull’altare della sua anima umana. Egli fu Vittima, Altare e Sacerdote.
Come detto, tutto ciò riguarda soprattutto Gesù, ma per partecipazione riguarda anche noi. Gesù stesso lo ha detto: «Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (Gv 13,15). Ed ecco perché l’apostolo Giovanni gli fa eco scrivendo: «In questo abbiamo conosciuto l’amore, nel fatto che egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli» (1Gv 3,16). Siccome Cristo ha attuato e mostrato la perfetta carità riparatrice, anche noi dobbiamo praticare la riparazione.
Che cosa dobbiamo riparare, è noto a tutti: i peccati. A chi dobbiamo offrire questa riparazione, è ormai diventato ugualmente evidente. Abbiamo sopra ricordato l’erronea teoria di Origene, secondo la quale Cristo avrebbe pagato il prezzo al diavolo. La Bibbia, i Padri e Dottori hanno invece insegnato che Cristo ha offerto il prezzo del riscatto a Dio. È Dio che viene offeso dai peccati ed è quindi a Dio che va offerta la riparazione. Nel Cristianesimo, questa riparazione offerta a Dio assume la forma di riparazione offerta a Gesù Cristo, cioè a Dio che si è fatto la Vittima innocente che ha voluto sacrificarsi per i colpevoli. Ecco perché, nella devozione al Sacro Cuore di Gesù, la riparazione è un qualcosa che offriamo a Cristo stesso, il cui Cuore è circondato dalle spine, ossia dai dolori causatigli dalle nostre infedeltà e ingratitudini. Nell’enciclica Haurietis Aquas (15.05.1956), dedicata specificamente alla devozione al Sacro Cuore, Pio XII, attribuendo lo sviluppo di questa devozione particolarmente all’opera di santa Margherita Maria Alacoque, scrive che il culto al Cuore di Gesù «ha rivestito le caratteristiche di omaggio di amore e di riparazione, che lo distinguono da tutte le altre forme della pietà cristiana». Gli atti di amore e di riparazione vengono da papa Pacelli considerati quali «elementi essenziali» della devozione al Sacro Cuore.
Pio XII si basa sugli insegnamenti del suo immediato predecessore, Pio XI, il quale aveva pubblicato nel 1928 l’enciclica Miserentissimus Redemptor, dedicata all’atto di riparazione al Sacratissimo Cuore di Gesù. Nel documento, papa Ratti invita a compiere un atto di consacrazione dell’umanità al Sacro Cuore, consacrazione che è legata a doppio filo alla riparazione. Nelle parole del Pontefice:
Se non che a tutti questi ossequi, e particolarmente alla tanto fruttuosa consacrazione, che mediante l’istituzione della festa di Cristo Re venne, a dir così, riconfermata, conviene che se ne aggiunga un altro […]: l’atto cioè di espiazione o riparazione, come suol dirsi, da prestarsi al Cuore Sacratissimo di Gesù. Infatti, se nella consacrazione primeggia l’intento di ricambiare l’amore del Creatore con l’amore della creatura, ne segue naturalmente un altro, che dello stesso Amore increato, quando sia o per dimenticanza trascurato o per offesa amareggiato, si debbano risarcire gli oltraggi in qualsiasi modo recatigli; il qual dovere comunemente chiamiamo col nome di riparazione.
Se all’uno e all’altro dovere siamo obbligati per le stesse ragioni, al debito particolarmente della riparazione siamo tenuti da un più potente motivo di giustizia e di amore: di giustizia, per espiare l’offesa recata a Dio con le nostre colpe e ristabilire, con la penitenza, l’ordine violato; di amore, per patire insieme con Cristo paziente e «saturato di obbrobri» e recargli, secondo la nostra pochezza, qualche conforto.
Anche Pio XI cita esplicitamente le rivelazioni del Sacro Cuore a santa Margherita Maria. In particolare, riporta una delle lamentazioni confidate dal Signore alla Santa e indica quali siano le principali pratiche di riparazione:
Nel manifestarsi a Margherita Maria, Cristo, mentre insisteva sull’immensità del proprio amore, al tempo stesso, in atteggiamento addolorato, si lamentò dei tanti e tanto gravi oltraggi a sé fatti dall’ingratitudine degli uomini, con queste parole, che dovrebbero sempre essere scolpite nel cuore delle anime buone né mai cancellarsi dalla memoria: «Ecco — disse — quel Cuore che ha tanto amato gli uomini e li ha ricolmati di tutti i benefìci, ma in cambio del suo amore infinito, anziché trovare gratitudine, incontrò invece dimenticanza, indifferenza, oltraggi, e questi arrecatigli talora anche da anime a lui obbligate con il più stretto debito di speciale amore». E appunto in riparazione di tali colpe Egli, tra molte altre raccomandazioni, fece queste specialmente come a sé graditissime: che i fedeli con tale intento di riparazione si accostassero alla sacra mensa — che si dice appunto «Comunione Riparatrice» — e per un’ora intera praticassero atti e preghiere di riparazione, il che con tutta verità si dice «Ora Santa»: devozioni, queste, che la Chiesa non solo ha approvato, ma ha pure arricchito di copiosi favori spirituali.
A questa breve lista si potrebbero aggiungere altri esempi, attualizzati al mondo odierno. Sono atti di riparazione al Cuore trafitto di Cristo opere come il recupero della prostituta dalla strada, il ricongiungimento di bambini strappati alle loro famiglie a motivo della guerra, l’impegno per guarire i drogati, i ludopatici o gli alcolisti delle loro dipendenze, ma anche i tentativi di rappacificazione di amici, familiari, parrocchiani che per qualche ragione hanno litigato… la lista di simili opere di riparazione potrebbe essere lunghissima.
Ciò che è essenziale, al di là di quale opera concreta venga compiuta, è riprodurre in sé gli stessi sentimenti che ebbe Cristo durante la sua Passione: il voler offrire atti d’amore a Dio per la riparazione dei peccati degli uomini. La necessità di riparazione è conseguenza della gravità del peccato, un elemento oggi poco considerato. Il peccato possiede gravità infinita, perché è offesa a Dio e rifiuto del suo amore. Dio ci ha dato tutto e noi lo ricompensiamo con atti di profonda inimicizia. Alla radice del peccato c’è l’ingratitudine verso Colui che ci ha dato e ci dà ogni cosa buona. Ecco perché il peccato ferisce il Cuore perfettissimo di Cristo e rende necessaria la riparazione consolatrice.
Don Mauro Gagliardi
4. La collaborazione dell’uomo alla riparazione
Fin qui abbiamo considerato ciò che è più fondamentale nel grande mistero della riparazione, vale a dire il fatto che Dio ha riparato il peccato degli uomini nel suo Figlio incarnato. Cristo è il grande Riparatore, Colui che ha restituito ai figli di Adamo la somiglianza con Dio, sfigurata sin dagli esordi della storia, come ricorda Gaudium et Spes. Al n. 13 della Costituzione pastorale leggiamo: «Costituito da Dio in uno stato di giustizia, l’uomo però, tentato dal Maligno, fin dagli inizi della storia abusò della libertà, erigendosi contro Dio e bramando di conseguire il suo fine al di fuori di lui». E al n. 22 si aggiunge che Cristo «è l’uomo perfetto che ha restituito ai figli di Adamo la somiglianza con Dio, resa deforme già subito agli inizi a causa del peccato».
Dobbiamo però ora sviluppare brevemente anche un secondo, fondamentale elemento, vale a dire il fatto che anche noi siamo chiamati a compiere la riparazione dei peccati. Nelle cose della fede cattolica, infatti, vige sempre una sintesi tra Dio e uomo e, quindi, tra azione di grazia divina e libera cooperazione della creatura. È emblematica al riguardo la celebre frase di sant’Agostino: «Chi ti ha formato senza di te, non ti renderà giusto senza di te» (Sermo 169, 11, 13). Dio ci ha creati senza chiederci il consenso, e neanche sarebbe stato possibile, perché non esistevamo. Ma dopo averci creati, Egli chiede la nostra libera adesione alla salvezza che ci dona. Dio ci ha formati senza di noi. Noi ci siamo deformati senza di Lui, anzi contro di Lui. Dio vuole riformarci, vuole ripararci, ma ci chiede di cooperare alla nostra riparazione. Ecco perché qui c’è in gioco un et-et: la riparazione è opera sia di Dio sia dell’uomo. Molto più di Dio che dell’uomo; nonostante ciò, anche l’uomo deve riparare.
Ora, questa riparazione da parte dell’uomo è sia personale sia ecclesiale. Come, da parte di Dio, la riparazione è opera tanto dell’onnipotenza divina quanto dell’umanità di Gesù Cristo, così – da parte nostra – entra in gioco sia l’individuo sia la comunità cristiana. Questa coappartenenza tra individuo e comunità è praticamente onnipresente nella Bibbia in tutta la sua estensione, da Adamo a Cristo. Secondo la Bibbia, Adamo è un individuo, ma rappresenta e contiene in sé tutta la sua discendenza. Lo stesso vale per Noè, Abramo, Davide e via di seguito, fino appunto a Cristo stesso. San Paolo, sviluppando ancora il paragone tra Adamo e Cristo, lo dice esplicitamente: «Come dunque per la caduta di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna, così anche per l’opera giusta di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione, che dà vita. Infatti, come per la disobbedienza di un solo uomo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti» (Rm 5,18-19).
Già nell’Antico Testamento la riparazione era opera sia del singolo sia della comunità. Pensiamo ad esempio
ai quattro canti del Servo di Yahvè, contenuti nel Libro di Isaia: in essi il servo viene considerato sia come un singolo, sia come Israele nel suo insieme. Questa figura misteriosa compie la riparazione dei peccati del popolo nella forma dell’espiazione vicaria, per cui i peccati di tutto il popolo vengono caricati sulle spalle del giusto e la santità del giusto merita la riparazione per tutti.
Si potrebbe pensare che, essendo Cristo il grande Riparatore dell’umanità, non vi sia più nulla da compiere, dato che Egli ha perfettamente adempiuto la redenzione del genere umano. Che Cristo abbia fatto ciò, è fuor di dubbio. Ma, come appena ricordato, il piano di Dio comporta sempre che la creatura razionale sia coinvolta. La grande riparazione la compie Cristo, non noi. Ed Egli l’ha compiuta soprattutto mediante la Passione e la morte in croce. Nonostante questo, san Paolo ha potuto scrivere ai Colossesi una frase straordinaria quale la seguente: «io sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa» (Col 1,24). Sin dall’epoca patristica, i teologi hanno spiegato che in realtà nulla manca ai patimenti di Cristo. La Passione di Cristo è perfetta, perché ha ottenuto il merito per la salvezza di tutti gli uomini e in questo senso nulla vi è da aggiungervi, in quanto tutto «è compiuto» (Gv 19,30).
Ciò che manca non è da parte di Cristo, bensì da parte nostra. Infatti, san Paolo parla di «ciò che manca nella mia carne» ai patimenti di Cristo. I patimenti di Cristo hanno prodotto un immenso tesoro di meriti, un tesoro condiviso da Cristo coi suoi santi, che Cristo chiama a cooperare con Sé nell’amore. Cristo ha compiuto la sua parte perfettamente e senza mancanze, una volta per tutte (cf. Rm 6,10; Eb 7,27). Egli è Salvatore unico e universale, che non ha bisogno di noi per salvarci. Non ha bisogno di noi, ma desidera liberamente associarci alla sua opera. La sua unicità non esclude, bensì include. È unicità che fonda una partecipazione. E così si forma il tesoro dei meriti della redenzione, tesoro che ha origine, causa e compimento in Cristo; ma tesoro che Cristo vuole sia arricchito anche dai meriti dei suoi santi. Per questo, la Chiesa ha la possibilità di concedere delle indulgenze, attingendo al tesoro dei meriti di Cristo e dei santi. Nel Manuale delle indulgenze della Penitenzieria Apostolica (ediz. 2008) si legge:
L’indulgenza è la remissione dinanzi a Dio della pena temporale per i peccati, già rimessi quanto alla colpa, che il fedele, debitamente disposto e a determinate condizioni, acquista per intervento della Chiesa, la quale, come ministra della redenzione, autoritativamente dispensa ed applica il tesoro delle soddisfazioni di Cristo e dei santi (Norma n. 1).
Il grande mistero della riparazione implica, dunque, una sinergia divino-umana: la riparazione compiuta da Dio in Cristo e la riparazione che dobbiamo compiere noi, immergendoci nella grande riparazione già perfettamente adempiuta dal Signore e quasi attingendo ad essa. La spiritualità cristiana, fondata sulla sana teologia, si è ampiamente nutrita di queste verità. La devozione nella quale si avverte più chiaramente il tema della riparazione è quella al Sacratissimo Cuore di Gesù. La base teologica risiede in diversi degli aspetti che abbiamo sopra tratteggiato brevemente. In quanto vero uomo, Gesù ha un vero cuore umano: non solo l’organo cardiaco, ma un cuore umano nel senso della capacità di amare in modo umano, come uomo. Lo ricorda di nuovo Gaudium et Spes 22: «con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo. Ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con intelligenza d’uomo, ha agito con volontà d’uomo, ha amato con cuore d’uomo».
San Tommaso d’Aquino si è soffermato a spiegare bene che l’offerta della vita fatta da Gesù al Padre con la sua volontà umana ha un valore determinante nel mistero della redenzione (cf. ad es. Summa Theol., III 48,3). Vi è, infatti, il sacrificio esteriore, ossia visibile, che nel caso di Gesù fu la morte in croce; e vi è il sacrificio interiore, cioè l’offerta della vita che Gesù fece al Padre per amore. La carità umana che dimora con ogni pienezza nel cuore umano di Cristo, la decisione della sua volontà umana nel dire «non sia fatta la mia, ma la tua volontà» (Lc 22,42), accettando così la Passione e la morte, tutto questo è stato determinante per la riparazione del peccato di Adamo. La redenzione del genere umano è stata frutto di una sinergia tra il volere di Dio e il volere dell’uomo; non però di un uomo qualunque, bensì dell’Uomo-Dio Gesù Cristo.
(Don Mauro Gagliardi)
3.Il modo della riparazione
In che modo Cristo ha compiuto la nostra riparazione? La Scrittura e la Tradizione, anche a questo riguardo, presentano un ampio ventaglio di indicazioni. Sant’Ireneo ci parla della «ricapitolazione», basandosi su san Paolo che propone un raffronto tra il primo e il secondo Adamo. Il Lionese dice che il secondo Adamo, Cristo, è venuto a ricapitolare il primo. Ricapitolare è un termine complesso, in Ireneo, che possiede diverse sfaccettature. Per essere compendiosi, diremo che la ricapitolazione è il riportare, da una parte, l’Adamo originario sulla terra; dall’altra, implica il portare a compimento l’Adamo originario. Anche queste dottrine, prima di essere di Ireneo, provengono da san Paolo. L’Apostolo, infatti, parla di Gesù sia come «secondo uomo» (1Cor 15,47), in rapporto al primo uomo Adamo, sia come «ultimo Adamo» (1Cor 15,45). Gesù è secondo uomo perché con Lui l’Adamo delle origini, l’Adamo prima del peccato, torna per la prima volta sulla terra. Cristo, infatti, è vero uomo, simile a noi in tutto, eccetto il peccato. Gesù è uomo come lo era Adamo in eden, prima che quest’ultimo deformasse la propria somiglianza con Dio. Gesù è l’uomo integro, senza macchia. Per questo, anticipatamente preservò sua Madre ugualmente senza macchia, immacolata, perché da Lei doveva prendere un’umanità senza macchia. Cristo, poi, è anche «ultimo Adamo». L’espressione greca usata da san Paolo è eschatos Adam. Come è noto, l’escatologia è quella branca della teologia che si occupa delle realtà ultime, definitive, che trascendono questo mondo. Quando allora si dice che Gesù è non solo secondo, ma anche ultimo Adamo, vuol dire che non solo Cristo ha riprodotto l’umanità perfetta sulla terra, ma anche che l’ha condotta alla sua pienezza finale, alla vita della risurrezione. Ecco il mistero della ricapitolazione: Cristo ha ricapitolato in Sé la sua creatura per ripararla e condurla al destino ultimo che Dio, nel suo piano di salvezza, voleva per essa.
La riparazione si attua poi, come detto, come redenzione, riacquisto. La Scrittura dice che Cristo ha riparato pagando il prezzo del nostro riscatto. Un antico autore, Origene, aveva riguardo a questo una teoria molto discutibile. Il Nuovo Testamento dice a chiare lettere che Cristo ha dato il suo sangue, la sua vita, come prezzo del nostro riscatto (cf. 1Pt 1,18-19; 1Cor 6,20; ecc.), ma non dice a chi questo prezzo sia stato pagato. Origene avanzò una teoria che ipotizzava l’esistenza di presunti “diritti del demonio”. Siccome Adamo si è venduto schiavo a Satana, questi avrebbe diritto a essere pagato per liberarlo e così Cristo avrebbe dovuto versare il suo sangue come prezzo pagato al diavolo (cf. Comm. alla Lettera ai Romani, 2,13). Questa teoria fece inorridire san Gregorio di Nazianzo, che la definì una ingiuria (cf. Disc. 45). Ma è stato solo con sant’Anselmo d’Aosta (cf. Cur Deus homo, I 7, II, 19) che si è prodotta un’argomentazione definitiva per scartare questa idea. In realtà, Cristo ha offerto la sua vita non al diavolo, ma al Padre, per noi (cf. Eb 9,14; san Tommaso, Summa Theol., III 48, 4 ad 3). Il suo sangue è stato dato in sacrificio al Padre per espiare le nostre colpe. «È lui [Cristo] che Dio ha stabilito apertamente come strumento di espiazione, per mezzo della fede, nel suo sangue, a manifestazione della sua giustizia per la remissione dei peccati» (Rm 3,25). «È lui la vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo» (1Gv 2,2).
Ecco che sono spuntate così altre due categorie bibliche: sacrificio ed espiazione. L’Antico Testamento pone il principio per il quale il sacrificio ha valore di purificazione dei peccati. Nel Libro del Levitico, Dio dice: «La vita della carne è nel sangue. Perciò vi ho concesso di porlo sull’altare in espiazione per le vostre vite; perché il sangue espia, in quanto è la vita» (Lev 17,11). Questo versetto da solo giustifica gran parte dell’ampio rituale sacrificale di Israele. Ma, per quanto in modo nuovo, anche nel Nuovo Testamento il principio resta in piedi. Leggiamo nella Lettera agli Ebrei che Cristo
entrò una volta per sempre nel santuario, non mediante il sangue di capri e di vitelli, ma in virtù del proprio sangue, ottenendo così una redenzione eterna. Infatti, se il sangue dei capri e dei vitelli e la cenere di una giovenca, sparsa su quelli che sono contaminati, li santificano purificandoli nella carne, quanto più il sangue di Cristo – il quale, mosso dallo Spirito eterno, offrì se stesso senza macchia a Dio – purificherà la nostra coscienza dalle opere di morte, perché serviamo al Dio vivente? (Eb 9,12-14).
E poco più avanti, confermando l’Antico Testamento, la stessa Lettera afferma: «senza spargimento di sangue non esiste perdono» (Eb 9,22).
Il mistero della riparazione della creatura è mistero di espiazione, ossia di purificazione delle macchie del peccato. E queste macchie si lavano via solo col sangue del vero Agnello. Questo viene di nuovo confermato nella grandiosa visione del Libro dell’Apocalisse, in cui Giovanni vede in Cielo una moltitudine immensa, formata da uomini di tutte le etnie e le nazioni, e si chiede chi essi siano. Gli viene risposto: «sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello» (Ap 7,14). Anche questa immagine è paradossale. Queste persone indossano vesti bianchissime, che sono state rese tali immergendole nel sangue! Tutti sanno che una veste, se immersa nel sangue, non ne risulta affatto candida; eppure è proprio ciò che viene detto, perché il sangue di Cristo non macchia, ma lava. Esso ha il potere di togliere le macchie del peccato. L’espiazione nel sangue ripara, è una riparazione, perché riporta la veste battesimale al candore originario. Riparare, infatti, significa rimettere a posto le cose, farle funzionare di nuovo come quando erano nuove.
Ritornando sui titoli cristologici di «secondo» e «ultimo Adamo», è possibile capire ancora un’altra cosa: solo ciò che è stato riportato alla condizione originaria può poi raggiungere la propria perfezione finale. Solo il primo Adamo, l’Adamo integro come è uscito dalle mani di Dio creatore, può diventare anche ultimo Adamo, l’Adamo eternamente salvato in Cielo. L’Adamo caduto nel peccato è un essere frustrato, che non può essere portato a compimento perché non funziona più a perfezione come prima. La riparazione è necessaria affinché l’uomo possa essere salvato.
Queste semplici riflessioni mostrano che la riparazione, come espiazione del peccato, implica sempre il sacrificio, la croce, l’offerta della vita. Di questo sacrificio Cristo ha lasciato il perpetuo memoriale nella Santa Messa. Vi sono poi ancora altre dimensioni della riparazione, come ad esempio la soddisfazione, di cui ha parlato particolarmente sant’Anselmo, senza dimenticare la fondamentale categoria dell’amore, che attraeva molto la riflessione di Abelardo, che però la sviluppava in modo unilaterale, oltre che di san Tommaso d’Aquino, che ha offerto al contrario una mirabile sintesi nel riflettere sul tema della giustizia e della misericordia, come pure del sacrificio interiore ed esteriore. Purtroppo non possiamo in quest’occasione addentrarci nell’approfondimento di questi o altri aspetti.
(Don Mauro Gagliardi)
2.La divina riparazione
Il Nuovo e l’Antico Testamento, pur nella reciproca distinzione, fanno parte di un processo unitario. Già nell’Antico Testamento, Dio operò la riparazione dell’infedeltà degli uomini mediante le alleanze. Uno degli esempi più belli di questa dinamica, composta di infedeltà umane e fedeltà divina, sono i capitoli 11–14 del Libro di Osea. Israele continua a dimostrare ingratitudine verso Dio e Dio, pur minacciando la giusta punizione dei peccati, richiama costantemente il popolo a ritornare a Lui. Anche il cap. 21 di Geremia è meraviglioso: «Ti ho amato di amore eterno, per questo continuo a esserti fedele», dice Dio a Israele (v. 3). E al v. 20: «Non è un figlio carissimo per me Èfraim, il mio bambino prediletto? Ogni volta che lo minaccio, me ne ricordo sempre con affetto. Per questo il mio cuore si commuove per lui e sento per lui profonda tenerezza». Dal v. 31 in avanti, Dio annuncia poi la nuova alleanza riparatrice, quell’alleanza che sarà in futuro stipulata da Gesù: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che è versato per voi» (Lc 22,20).
In sintesi, possiamo dire che Dio è ben disposto – e lo ha fatto! – a riparare ciò che era danneggiato, invece di buttarlo via non appena si è rotto. Se teniamo presente che la parola italiana «salvezza» proviene dal latino salus, che indica la salute, lo stare bene, si comprende anche perché si parli del peccato come malattia, come qualcosa che si oppone allo stare bene, alla salute e del corpo e dell’anima. Non è un caso che sant’Agostino abbia parlato, in diversi luoghi della sua opera, del Christus Medicus, paragonando l’azione salvifica di Gesù a quella svolta da un medico presso il capezzale di un malato, che è il genere umano. Ma in fondo, ben prima dell’Ipponate, era stato Cristo stesso a presentarsi in questo modo. Pensiamo alla parabola del buon samaritano, che versa sulle ferite dello sventurato vino e olio, sostanze che nel mondo antico venivano usate anche a scopo medicinale. I Padri della Chiesa hanno spesso letto questa parabola con riferimento a Adamo, che da Gerusalemme, ossia dalla vicinanza con Dio, dall’eden, era sceso in basso verso Gerico, la terra lontana e arida del peccato, e lì era stato lasciato mezzo morto. Arriva Cristo, buon samaritano, che si carica Adamo sulle spalle, come fa il buon pastore con la pecorella. Questo caricarsi Adamo sulle spalle indica l’incarnazione del Verbo, che ha preso su di Sé la nostra umana natura e anche la nostra debolezza, proprio allo scopo di sanarle. O pensiamo ancora al miracolo con cui Gesù, impastando del fango con la sua saliva, restituisce la vista a un cieco. Per quanto ciò che è in grado di ridare la vista sia l’onnipotenza divina di Cristo e non il fango in sé, se il Signore ha compiuto quel gesto così peculiare è perché voleva dirci qualcosa. Egli si presentava qui sia come il Creatore delle origini che riplasma la vista dell’uomo che Egli plasmò in antico, sia come un medico, perché era prassi comune nell’antichità che il medico preparasse il farmaco e lo somministrasse al paziente. L’olio e il vino con cui disinfettò le ferite dello sventurato picchiato dai briganti indicano, sempre secondo i Padri, i sacramenti della Chiesa, che tra gli altri effetti hanno anche un effetto medicinale, di guarigione.
Il grande mistero della salvezza in Cristo può essere espresso attraverso molte categorie: redenzione, espiazione, sacrificio, soddisfazione, penitenza, ecc. Questa pluralità si giustifica per il fatto che i misteri divini possiedono una straordinaria ricchezza di significato, che non può essere veicolata mediante un solo concetto. L’unico e indivisibile mistero della salvezza viene rivelato e attuato da Dio in molti modi, uno dei quali è la riparazione. Approfondiamo ulteriormente questo aspetto, riprendendo l’immagine già proposta del vaso rotto. Nell’esempio sopra addotto, si parlava di un vaso che si era rovinato durante la fase di lavorazione, con l’argilla ancora fresca. In casi simili, è facile distruggere la forma sul tornio e ricominciare da capo a modellarla. Ma cosa fare di vasi che si rompono o si scheggiano dopo la cottura, quando il materiale è ormai indurito e non più riplasmabile? Dio, nella sua infinita sapienza, ha trovato un modo per riparare anche questi.
Possiamo qui richiamare una tecnica di riparazione del vasellame originaria del Giappone, chiamata kintsugi o kintsukuroi (“riparare con l’oro”). In Giappone, quando un vaso si rompe, se è di valore, viene riparato con degli inserti d’oro perché si pensa che un vaso rotto, riparato in questo modo, possa essere ancora più bello di prima. I vasi possono essere prodotti anche in serie, risultando così tutti uguali, mentre lesioni e spaccature prodotte da cadute o altro sono tutte uniche e irripetibili. In un certo senso, un vaso rotto è più unico e inimitabile di un vaso integro. Dietro questa tecnica del kintsugi c’è una filosofia di vita tipicamente nipponica. Noi occidentali – a meno che non veniamo evangelizzati – per antica cultura tendiamo a ritenere la sofferenza qualcosa di inutile. Non solo la riteniamo fastidiosa; soprattutto siamo portati a pensare che essa non produca nulla di positivo nella nostra vita. Anche i difetti fisici, o le ferite, noi occidentali cerchiamo di nasconderli o mascherarli il più possibile. Per i Giapponesi, al contrario, il dolore non è una dimensione inutile, come difetti e ferite non sono qualcosa di cui vergognarsi. Tanto le ferite del corpo quanto quelle dell’anima vanno esibite senza imbarazzo. Esse contribuiscono all’unicità e alla bellezza della persona, soggetto unico e irripetibile. Questa forma d’arte vuole insegnare che da una ferita risanata, dalla lenta e accurata riparazione conseguente a una rottura, può rinascere una forma di bellezza e di perfezione superiore, lasciando così intendere che i segni impressi dalla vita sulla nostra pelle e nella nostra mente hanno un valore e un significato, e che è da essi, dalla loro accettazione e dalla loro rimarginazione, che prendono il via i processi di rigenerazione e di rinascita interiore, che ci rendono persone nuove e compiute.
Ricordiamo che il corpo glorificato di Cristo reca impresse per sempre le stimmate gloriose. Non sono più le stimmate dolorose, sanguinanti. Sono state risanate nella risurrezione. Santa Faustina Kowalska vide prorompere raggi di luce dalla piaga aperta del costato. Sono piaghe luminose, come le riparazioni in oro dei vasi giapponesi. E queste ferite d’amore rendono il corpo risorto di Cristo ancora più bello. Coloro che si salvano vedranno per sempre questo corpo e queste ferite gloriose e ricorderanno nell’amore senza fine ciò che il Verbo volle patire per loro. Gli angeli e i santi contempleranno in eterno i segni della riparazione.
Anche nel mondo naturale ci sono esempi simili. Pensiamo alla perla. Essa si forma nell’ostrica a seguito di un male, ad esempio quando il mollusco subisce un danneggiamento, oppure viene penetrato da un parassita. In questi casi l’ostrica, per difendersi da una possibile infezione, secerne il nacre (madreperla) in modo ciclico, motivo per cui la perla viene lentamente formata a strati e assume la caratteristica forma sferica. La perla è frutto della riparazione naturale di un danno subito. Si potrebbero aggiungere altri esempi.
Per amor di chiarezza, è bene dire che tutto ciò non intende in alcun modo negare che il male sia male e che rimanga sempre tale. Il male non è bene, come il peccato non è virtù. Ciò che si vuol dire è che, in un mondo decaduto dall’originale splendore, è di fatto impossibile non venire a contatto con il male, la malattia, il dolore, l’imperfezione. Tutte queste forze – che sono e saranno sempre male e quindi non possono essere da noi scelte volontariamente, essendo piuttosto subite – in misura maggiore o minore toccano, feriscono tutti gli uomini. Ma sta qui la grandezza di Dio, che non permetterebbe il male se non avesse già un rimedio, una cura. Se Dio permette che il parassita penetri nell’ostrica, il che è male, lo fa solo perché sa che ne verrà fuori la perla. Se Dio permette il male e il peccato, è perché con la sua onnipotente Provvidenza Egli saprà trarre da tale male un bene ancora più grande.
Viene in mente l’espressione paradossale del Preconio pasquale, che riferendosi al peccato di Adamo, canta Felix culpa – felice colpa! Una colpa, ovviamente, non può in alcun modo essere qualcosa di bello, un evento felice. Ma per comprendere il paradosso basta leggere la frase nel suo contesto:
O certe necessarium Adae peccatum,
quod Christi morte deletum est!
O felix culpa,
quae talem ac tantum meruit habere Redemptorem!
Davvero era necessario il peccato di Adamo,
che è stato distrutto con la morte di Cristo.
Felice colpa,
che meritò di avere un così grande Redentore!
In breve, se Adamo non avesse peccato, non avremmo avuto il Redentore, perché non ci sarebbe stato nessuno da riscattare. Redimere vuol dire ricomprare. Ma se Adamo non si fosse venduto schiavo del peccato e di Satana, Cristo non sarebbe venuto a pagare il prezzo del nostro riscatto, cioè il suo sangue prezioso. Ecco perché il peccato di Adamo è e resta tale: è peccato, è male. E, in quanto tale, non può essere qualcosa di buono. Ma se pensiamo che a causa di esso è venuto Cristo Redentore a riparare, a ripararci, allora persino quel peccato è una felix culpa.
(Don Mauro Gagliardi)
Il concetto di riparare/riparazione è oggi ritenuto superato. In passato, in casa propria o presso un laboratorio, si riparava quasi tutto: scarpe, vestiti, elettrodomestici… Adesso non si ripara quasi più nulla; si butta e si sostituisce. È penetrata l’idea che ciò che è rotto è irrecuperabile. Fanno eccezione poche cose costose come l’auto, la barca, o l’appartamento: queste cose si riparano ancora, ma ormai anche grandi elettrodomestici come una TV o una lavatrice spesso non si riparano più, perché conviene più cambiarli che farli riparare.
Questa concezione non può non esercitare un influsso anche sulla nostra visione della fede. Forse ci siamo convinti che anche nelle cose dello spirito, in materia religiosa, riparare non è possibile, o non conviene. Viene in mente Ireneo di Lione, il quale disse che, quando Adamo rovinò se stesso e noi con lui, il Verbo avrebbe potuto distruggere (noi diremmo buttare in discarica) la prima plasmazione (termine tecnico con cui Ireneo indica la creazione dell’uomo: cf. Adv. III 3,3) e rifarne una nuova con cui cominciare daccapo, ma invece Dio decise di rifare la prima plasmazione, diremmo noi di aggiustarla, di ripararla, piuttosto che gettarla via (cf. Adv. III 21,10; V 14,2).
Siccome san Paolo paragona l’essere umano a un vaso di argilla («portiamo questo tesoro in vasi di creta»: 2Cor 7,4) e dato che Genesi (cf. 2,7) descrive la creazione dell’uomo proprio come la plasmazione dell’argilla, Dio avrebbe potuto prendere Adamo, che era simile ad un vaso che si era sformato, e avrebbe potuto schiacciarlo con le mani sul tornio, ricominciando da capo col rifare un vaso del tutto nuovo. Invece a Dio è piaciuto riparare il vaso deformato, piuttosto che distruggerlo. Questo perché in Dio non c’è pentimento. Quando Dio stabilisce un piano, Egli è capace di realizzarlo, con i dovuti interventi correttivi, anche quando la creatura vi si oppone. Potremmo dire che il versetto biblico fondamentale a sostegno della teologia della riparazione sia questo: «I doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili!» (Rm 11,29). Nel suo contesto, questo versetto si riferisce al popolo di Israele. San Paolo spiega che la non accettazione di Gesù da parte della maggioranza degli ebrei non implica una condanna irreversibile nei loro confronti, perché non bisogna dimenticare che essi erano il popolo eletto e amato da Dio nell’Antico Testamento. L’elezione e l’amore di Dio, nonostante le infedeltà di Israele, non sono stati annullati. Israele non solo era amato in passato, ma continua ad essere amato. Su Israele Dio non solo aveva un piano, ma – come ha sottolineato da privato teologo Joseph Ratzinger (cf., da ultimo, il cap. III di Che cos’è il cristianesimo) – in modo misterioso Dio continua ad avere un piano. Questo perché Dio chiamò gli israeliti e fece loro dei doni; e «i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili!». Non a caso, un documento pubblicato nel 2015 da parte del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, documento che tratta delle relazioni ebraico-cattoliche a 50 anni dalla Dichiarazione Nostra Ætate del Concilio Vaticano II, si intitola proprio così: «I doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili!».
Ora, ciò che san Paolo dice in Rm 11 riguardo a Israele, l’insieme del Nuovo Testamento e la dottrina cattolica lo dicono a maggior ragione dell’umanità in genere. Se Dio all’inizio creò Adamo, lo fece non certo per necessità, come se a Dio mancasse qualcosa, bensì – come spiega ancora Ireneo (cf. Adv. IV 14,1) – per avere qualcuno su cui effondere i suoi benefici. Dio ha creato gli uomini per farne i destinatari della sua grazia di salvezza, perché Egli «vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità» (1Tm 2,4). In concreto non tutti si salvano, ma ciò non toglie il fatto che Dio non ci ha creato perché perissimo eternamente, anche se questo può purtroppo succedere. Ed ecco perché, attraverso Ezechiele, il Signore dice: «Com’è vero che io vivo – oracolo del Signore Dio – io non godo della morte del malvagio, ma che il malvagio si converta dalla sua malvagità e viva. Convertitevi dalla vostra condotta perversa! Perché volete perire, o casa d’Israele?» (Ez 33,11). E nel Nuovo Testamento, riallacciandosi al profeta, Cristo stesso inizia a predicare nella stessa direzione, esortandoci: «Convertitevi» (Mc 1,15).
Divino Salvatore Gesù, veniamo, in spirito di fede, di riparazione e di amore, a lamentare ai Tuoi piedi le nostre infedeltà e quelle dei poveri peccatori che sono nostri fratelli e sorelle; degnati di accettare il piccolo tributo delle nostre consolazioni, che Ti chiediamo per il Cuore compassionevole di Maria, Tua Madre, e per San Giovanni, Tuo discepolo prediletto.
Dalla dimenticanza e dall’ingratitudine degli uomini
vogliamo consolarTi, o Signore!
Dalla Sua negligenza nei confronti del santo Tabernacolo
vogliamo consolarTi, Signore!
Per i crimini dei peccatori
vogliamo consolarTi, Signore!
Dall’odio degli empi
vogliamo consolarTi, Signore!
Dalle bestemmie che vengono vomitate contro di Te
vogliamo consolarTi, Signore!
Dagli insulti fatti alla Tua Divinità
vogliamo consolarTi, Signore!
Per i sacrilegi con cui viene profanato il Tuo Sacramento d’amore,
vogliamo consolarTi, Signore!
Per l’immodestia e l’irriverenza commesse alla Tua adorabile presenza,
vogliamo consolarTi, Signore!
Dei tradimenti di cui sei l’adorabile vittima,
vogliamo consolarTi, Signore!
Dalla freddezza della maggior parte dei Tuoi figli,
vogliamo consolarTi, Signore!
Per le infedeltà di coloro che si dicono Tuoi amici e in modo particolare i sacerdoti e i religiosi,
vogliamo consolarTi, Signore!
Per la nostra resistenza alle Tue grazie,
vogliamo consolarTi, Signore!
Per le nostre infedeltà,
vogliamo consolarTi, Signore!
Per l’incomprensibile durezza dei nostri cuori
vogliamo consolarTi, Signore!
Per il nostro lungo ritardo nell’amarti
vogliamo consolarTi, Signore!
Per la nostra codardia nel Tuo santo servizio
vogliamo consolarTi, Signore!
Per la profanazione del giorno sacro della domenica
vogliamo consolarTi, Signore!
Dall’amara tristezza in cui vi immerge la perdita delle anime,
vogliamo consolarTi, Signore!
Dalla Tua lunga attesa alla porta del nostro cuore,
vogliamo consolarTi, Signore!
Sacro Cuore di Gesù, abbi pietà di noi e dei Tuoi figli sulla terra.
Cuore Immacolato di Maria, prega per noi che ricorriamo a Te.
Preghiamo.
O Dio tre volte santo, io Ti adoro, Ti amo, Ti benedico attraverso il Sacro Cuore di Gesù nel Santissimo Sacramento dell’Altare, e Ti offro, attraverso le mani della Vergine Immacolata, tutte le Ostie Sante che sono sui nostri altari e nei nostri tabernacoli, come sacrificio di espiazione, riparazione e ammenda per tutti i sacrilegi, le profanazioni, l’empietà, le bestemmie e i crimini che Ti offendono in tutto l’universo. Amen
O Gesù,
inondami del tuo Spirito e della tua vita.
Penetra in me e impossessati del mio essere,
così pienamente, che la mia vita
sia soltanto un'irradiazione della tua.
Aiutami a spargere
il profumo di te, ovunque vada.
Che io cerchi e veda non più me,
ma soltanto te.
Fa' che io ti lodi, nel modo
che a te più piace,
effondendo la tua luce
su quanti mi circondano.
Che io predichi te senza parlare,
non con la parola, ma col mio esempio,
con la forza che trascina,
con l'amore che il mio cuore
nutre per te. Amen.
"I fratelli sacerdoti, al pari di Maria e Giuseppe, hanno ogni giorno Gesù tra le loro mani... siano sale della terra, facciano risplendere dinanzi agli uomini le loro buone opere affinché questi Glorifichino Dio, muoiano a tutto ciò che non è Gesù, poiché "se il chicco di grano non muore resta solo; se viceversa muore produce molto frutto".
Ricordino i fratelli sacerdoti che si fa bene agli altri nella misura di ciò che si ha dentro di sé, quanto a spirito interiore ed a Virtù.
Il prete è un Ostensorio, suo compito è di mostrare Gesù. Egli deve sparire e lasciare che si veda solo Gesù..."
(Beato Charles de Foucauld)
Sacratissimo e amorevolissimo Cuore di Gesù,
sei nascosto nella Santa Eucaristia e batti ancora per noi.
Ora come allora dici: “Con desiderio ho desiderato”.
Ti adoro con tutto il mio amore e il mio stupore,
con affetto fervente, con la mia volontà più sottomessa e più decisa.
Prendi per un po’ la tua dimora in me.
Fa’ battere il mio cuore con il Tuo!
Purificalo da tutto ciò che è terreno,
da tutto ciò che è orgoglioso e sensuale,
da ogni perversità, da ogni disordine,
da tutto ciò che è insensibile.
Riempilo di Te, perché né gli eventi della giornata né le circostanze del momento possano avere il potere di incrinarlo, ma nel Tuo Amore e nel timore di Te il mio cuore possa avere la pace.
Amen.
(Preghiera del Beato cardinale John Henry Newman)
Dal libro di Giobbe
Rispondendo Giobbe prese a dire:
«Oh, se le mie parole si scrivessero,
se si fissassero in un libro,
fossero impresse con stilo di ferro e con piombo,
per sempre s’incidessero sulla roccia!
Io so che il mio redentore è vivo
e che, ultimo, si ergerà sulla polvere!
Dopo che questa mia pelle sarà strappata via,
senza la mia carne, vedrò Dio.
Io lo vedrò, io stesso,
i miei occhi lo contempleranno e non un altro». (Gb 19, 1.23-27)
Salmo 26
RIT: Sono certo di contemplare la bontà del Signore
nella terra dei viventi.
Il Signore è mia luce e mia salvezza,
di chi avrò paura?
Il Signore è difesa della mia vita,
di chi avrò timore?
RIT: Sono certo di contemplare la bontà del Signore
nella terra dei viventi.
Una cosa ho chiesto al Signore, questa sola io cerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita,
per gustare la dolcezza del Signore
ed ammirare il suo santuario.
RIT: Sono certo di contemplare la bontà del Signore
nella terra dei viventi.
Ascolta, Signore, la mia voce.
Io grido: abbi pietà di me! Rispondimi.
Il tuo volto, Signore, io cerco.
Non nascondermi il tuo volto.
RIT: Sono certo di contemplare la bontà del Signore
nella terra dei viventi.
Sono certo di contemplare la bontà del Signore
nella terra dei viventi.
Spera nel Signore, sii forte,
si rinfranchi il tuo cuore e spera nel Signore.
RIT: Sono certo di contemplare la bontà del Signore
nella terra dei viventi.
Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Gesù disse alla folla:
«Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me: colui che viene a me, io non lo caccerò fuori, perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato.
E questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno.
Questa infatti è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno». (Gv 6, 37-40)
CORONCINA
Sacro Cuore di Gesù, tu hai promesso: “Io sarò con voi fino alla fine del mondo”, e per questo hai istituito l’adorabile sacramento dell’Eucaristia, e qui ti offri vittima d’amore al Padre per i peccatori e specialmente per i tuoi più cari, i Sacerdoti. Ti preghiamo per tutti i Sacerdoti defunti: dimentica le loro ingratitudini, perdona le loro colpe, i loro sacrilegi e la loro indifferenza, immergili nell’oceano di fuoco della tua inesauribile misericordia e ammettili a godere la luce del tuo volto. Amen
1 Pater, Ave, gloria e 10 l’eterno riposo
Sacratissimo Cuore di Gesù: abisso di ogni virtù, tesoro inesauribile delle divine misericordie e fonte di ogni consolazione, con grande fiducia ti preghiamo per tutti i Sacerdoti defunti, in maniera particolare per il Sacerdote che ci ha battezzato, per i Sacerdoti che ci hanno amministrato la tua misericordia lungo il corso della nostra vita, per i Sacerdoti per il cui ministero abbiamo potuto nutrirci del Tuo Corpo e del Tuo Sangue, per i Sacerdoti che ci hanno uniti in matrimonio, per i Sacerdoti che hanno accompagnato i nostri defunti alla porta del tuo regno: fa’ che per la tua Passione e la tua Croce godano della beatitudine eterna. Amen
1 Pater, Ave, gloria e 10 l’eterno riposo
Amorosissimo Cuore di Gesù, generoso verso tutti quelli che ti invocano, fonte di vita e di santità, tesoro infinito della divinità, fornace ardentissima del divino amore, tu solo sei il nostro rifugio, tu la sede del nostro riposo, tu il nostro tutto. Ti preghiamo per tutti i Sacerdoti defunti ma in modo particolare per i Sacerdoti che ci hanno insegnato a conoscerti e ad amarti, per i Sacerdoti che ci hanno guidato nelle nostre scelte, per i Sacerdoti che ci hanno confortato nei momenti dolorosi ridandoci speranza e fiducia nel Tuo amore senza limiti. Dona ad essi il riposo eterno. Amen
1 Pater, Ave, gloria e 10 l’eterno riposo
Cuore sacerdotale di Gesù, sempre vivo per intercedere a nostro favore, ti preghiamo per tutti i Sacerdoti defunti e particolarmente per quelli che sono stati calunniati, ostracizzati, incarcerati, torturati, uccisi solo perché ti appartenevano. Essi hanno partecipato intimamente alla tua passione fa’ che partecipino alla tua gloria. Amen
1 Pater, Ave, gloria e 10 l’eterno riposo
Gesù, Misericordia infinita, Tu che nel Getsemani hai sperimentato la paura di fronte alla morte, fino a sudare sangue, ti preghiamo per tutti i Sacerdoti moribondi: aiutali a passare da questo mondo alla luce della tua dimora con la serenità di chi, pur essendo cosciente della propria miseria, attende soltanto di vedere il volto mite e festante del suo Salvatore e Redentore. Maria, la madre della misericordia, li accompagni al trono dell’Altissimo. Amen
1 Pater, Ave, gloria e 10 l’eterno riposo
LITANIE PER I FEDELI DEFUNTI
DEL PURGATORIO
Signore, pietà
Cristo, pietà
Signore, pietà
Cristo, ascoltaci!
Cristo, esaudiscici!
Padre Celeste, che sei Dio, abbi pietà dei Sacerdoti defunti
Figlio, redentore del mondo, che sei Dio, abbi pietà dei Sacerdoti defunti.
Spirito Santo, che sei Dio, abbi pietà dei Sacerdoti defunti.
Santa Trinità, unico Dio, abbi pietà dei Sacerdoti defunti.
Santa Maria, prega per loro!
Santa Madre di Dio, prega per loro!
Santa Vergine delle Vergini, prega per loro!
Madre di Misericordia, prega per loro!
Porta del Cielo, prega per loro!
Consolatrice degli Afflitti prega per loro!
Santi angeli ed arcangeli, pregate per loro!
San Michele Arcangelo! prega per loro!
Santi patriarchi e profeti, pregate per loro!
San Giovanni Battista, prega per loro!
San Giuseppe, prega per loro!
Santi apostoli ed evangelisti, pregate per loro!
Santi discepoli del Signore, pregate per loro!
Santi innocenti, pregate per loro!
Santi martiri, pregate per loro!
Santi vescovi e santi fedeli, pregate per loro!
Santi dottori della Chiesa, pregate per loro!
Santi sacerdoti e diaconi, pregate per loro!
Santi monaci ed eremiti, pregate per loro!
Sante vergini e vedove , pregate per loro!
Santi e Sante di Dio, pregate per loro!
Ti prego, o Signore, da tutto ciò che è doloroso, liberali!
dalla Tua ira, liberali!
dal rigore della Tua Giustizia, liberali!
dal tarlo roditore della loro coscienza, liberali!
dalla loro profonda tristezza, liberali!
dal loro durissimo carcere, liberali!
dal tormento delle fiamme, liberali!
dallo strazio del desiderio mai appagato, liberali!
da tutte le pene, liberali!
Per la Tua meravigliosa Incarnazione, liberali, o Signore!
Per la Tua Santa Natività, liberali, o Signore!
Per il Tuo Santo Nome, liberali, o Signore!
Per il Tuo Battesimo ed il Tuo Digiuno, liberali, o Signore!
Per la Tua profondissima Umiltà, liberali, o Signore!
Per la Tua Ubbidienza totale, liberali, o Signore!
Per la Tua estrema Povertà, liberali, o Signore!
Per la Tua Pazienza e Tenerezza, liberali, o Signore!
Per il Tuo Amore incommensurabile, liberali, o Signore!
Per le Tue atroci Sofferenze, liberali, o Signore!
Per il Tuo mortale Sudore di Sangue, liberali, o Signore!
Per la Tua Cattura, liberali, o Signore!
Per la Tua dolorosa Flagellazione, liberali, o Signore!
Per la Tua umiliante Incoronazione, liberali, o Signore!
Per la Tua vergognosa Spoliazione, liberali, o Signore!
Per la Tua ingiusta Condanna, liberali, o Signore!
Per la Tua estenuante Salita al Calvario, liberali, o Signore!
Per la Tua spaventosa Crocefissione, liberali, o Signore!
Per il Tuo Abbandono nella agonia, liberali, o Signore!
Per la Tua santissima Morte sacrificale, liberali, o Signore!
Per le Tue Cinque Sante Piaghe, liberali, o Signore!
Per il Tuo Cuore trafitto, liberali, o Signore!
Per la Tua gloriosa Risurrezione, liberali, o Signore!
Per la Tua mirabile Ascensione, liberali, o Signore!
Per la Venuta dello Spirito Santo, liberali, o Signore!
Per i meriti e l'Intercessione della Tua Santa Madre, liberali, o Signore!
Per i meriti e l'Intercessione di tutti i Tuoi Santi, liberali, o Signore!
Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo,
abbi pietà di noi
Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo,
ascoltaci o Signore!
Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo,
dona a noi la pace
Preghiamo:
O Dio, Signore della vita e della morte, mostra la Tua infinita Misericordia ai Sacerdoti che credettero e sperarono in Te. Concedi loro la totale remissione delle loro colpe e sollievo dalle loro pene. Per questo noi Ti preghiamo, per intercessione della Beata Vergine Maria e per Cristo Nostro Signore. Amen.
RIFLESSIONE DI NOVEMBRE 2024
Un antico proverbio latino recita: «Verba movent, exempla trahunt» che tradotto in italiano suona così: «Le parole incitano, gli esempi trascinano».
Il mese di novembre inizia in onore dei Santi, uomini e donne esemplari che ci hanno preceduto, che hanno dato la vita a Cristo, che si sono messi al servizio dei fratelli e che ora risplendono come astri nel cielo per illuminare la nostra strada. Tra di essi splende luminosa la figura di un Sacerdote umile e famoso allo stesso tempo: don Giacomo Alberione, la cui memoria liturgica ricorre il 26 novembre.
Chi era don Alberione? Don Giacomo Alberione, fondatore della Famiglia Paolina, fu uno dei più creativi apostoli del XX secolo. Nato a San Lorenzo di Fossano (Cuneo) il 4 aprile 1884, ricevette il Battesimo il giorno successivo. A 16 anni venne accolto nel Seminario di Alba dove conobbe il canonico Francesco Chiesa, il quale gli sarà padre, guida, amico e consigliere per 46 anni.
Seminarista esemplare, sempre disponibile all’aiuto degli altri, Giacomo è un giovane che ama la preghiera. Per la notte del 31 dicembre 1899, nel passaggio dal XIX al XX secolo, era stata programmata per tutta la Chiesa un’ora di adorazione da farsi dopo la Messa della mezzanotte, pregando secondo le intenzioni del papa Leone XIII. Il nostro seminarista non si limitò a un’ora, ma rimase in ginocchio nel duomo di Alba per quattro ore. In questo tempo una “particolare luce” gli venne dall'Ostia, e da quel momento si sentì “profondamente obbligato a far qualcosa per il Signore e per gli uomini del nuovo secolo”: “obbligato a servire la Chiesa” con i mezzi nuovi offerti dall’ingegno umano. Da lì, dal tabernacolo, è scaturita la sua opera di patriarca e di uomo dell’era tecnologica. «Questo inesausto sognatore ai piedi del tabernacolo», fu definito da mons. Luciano Gherardi, liturgista e poeta bolognese.
Nel 1907 fu ordinato Sacerdote. Seguirono alcuni anni di cura d’anime. Dapprima venne inviato come viceparroco a Narzole, poi come padre spirituale del seminario. Qui pregava molto, studiava, si occupava di catechesi. E finalmente il Signore lo orientò verso la nuova forma di apostolato attraverso i mezzi della comunicazione sociale, apostolato per mezzo del quale, seguendo il modello di san Paolo, potrà «portare gli uomini a Dio e Dio agli uomini».
Grande sognatore, don Alberione è anche uomo concreto e grande organizzatore. Di lui il papa san Paolo VI diceva: “Eccolo umile, silenzioso, instancabile, sempre vigile, sempre raccolto nei suoi pensieri che corrono dalla preghiera all’opera. Secondo la formula tradizionale ‘ora et labora’, sempre intento a scrutare ‘i segni dei tempi’, cioè le più geniali forme di arrivare alle anime. Il nostro don Alberione ha dato alla Chiesa nuovi strumenti per esprimersi, nuovi mezzi per dare vigore e ampiezza al suo apostolato”. Infatti, dalla sua preghiera, dal suo cuore e dal suo impegno è nata la grande famiglia paolina:
--- nel 1915, con il contributo di Teresa Merlo, egli dà inizio alla Congregazione delle Figlie di San Paolo, cui si aggiunge il ramo maschile;
--- l’anno successivo, prende vita la seconda Congregazione femminile: le Pie Discepole del Divin Maestro, per l’apostolato eucaristico, sacerdotale, liturgico che Egli affida alla giovane Suor M. Scolastica Rivata;
--- nell’ottobre 1938, Don Alberione fonda la terza Congregazione femminile: le Suore di Gesù Buon Pastore o «Pastorelle», destinate all’apostolato pastorale diretto in aiuto ai Pastori;
--- tra il 1957 e il 1960, fonda la quarta Congregazione femminile, l’Istituto Regina Apostolorum per le vocazioni e dà inizio a quattro Istituti di vita secolare consacrata: San Gabriele Arcangelo, Maria Santissima Annunziata, Gesù Sacerdote e Santa Famiglia.
Dieci istituzioni (inclusi i Cooperatori Paolini), unite tra loro dallo stesso ideale di santità e di apostolato: l’annuncio di Cristo «Via, Verità e Vita» nel mondo, mediante gli strumenti della comunicazione sociale.
Nell’udienza generale di mercoledì 29 agosto 2012, il Santo Padre Benedetto XVI diceva: “La preghiera non è tempo perso, non è rubare spazio alle attività, anche a quelle apostoliche, ma è esattamente il contrario: solo se siamo capaci di avere una vita di preghiera fedele, costante, fiduciosa, sarà Dio stesso a darci capacità e forza per vivere in modo felice e sereno, superare le difficoltà e testimoniarlo con coraggio”.
Preghiamo, affinché l’esempio del beato don Giacomo Alberione sproni ogni Sacerdote a dare, nella propria vita, il primato alla preghiera; e il Signore gli donerà la gioia di un apostolato fecondo.