Tanto mia madre quanto mia sorella mi volevano un gran bene e loro ritenevano che facendo quella vita di Chiesa sarei morta.
Il mio carattere così superbo, autorevole e reciso, sembrava morto in me. Credo che il Signore lo teneva a bada conoscendo la mia debolezza.
Nell’ottobre del medesimo anno caddi malata gravemente, ed il dottore disse in famiglia che malgrado tutte le cure che mi prodigavano, io non avrei vissuto più di tre mesi. La malattia si prolungò e solo nella primavera potetti entrare in convalescenza.
Durante questo tempo fui visitata due o tre volte da p. Ab. Egli mi donò il Teotimo ed i Trattenimenti di S. Francesco di Sales. Il Teotimo lo cominciai a leggere ma non ci capivo niente e lo lasciai, ritenni e lessi i Trattenimenti. Mia madre mi comprò l’Imitazione di G.C. Questi tre libri sono stati sempre nelle mie mani e specialmente l’Imitazione.
Durante la lunga malattia, l’unica mia pena era di non poter ricevere il Signore e essere priva di fargli visite: fuori di questo stavo tranquilla e il mio cuore spesso andava in spirito ai piedi dell’Altare. Non era però tutta virtù questa, perché essendo in famiglia la più benvoluta, le cure ed attenzioni erano molte e quindi non esercitavo una grande virtù, molto più che nel mio cuore non mancavano consolazioni.
Mio Dio, fin dall’infanzia mi avete circondato di amore e non contento disponevate il cuore dei miei cari ad amarmi così particolarmente da non farmi sentire né la privazione dei beni, né il mio stato fisico sì macilento: questi tratti della vostra bontà mi arrivavano al cuore, e solo un amore generoso e senza limiti può riparare l’ingratitudine verso un Dio così buono.
Rimessa in salute ripresi la mia vita primiera e quindi tornai a ricevere ogni giorno il Signore, questo mi si rese più possibile perché vicino a noi s’erano stabilite le Suore di S. Maria dell’Orto e così senza portarmi in Parrocchia mi recavo mattina e sera nella loro Cappella avendo il SS.mo Sacramento. Dopo la malattia la mia preghiera cambiò.
Ai piedi del Sacrnto sentivo che l’anima mia s’intratteneva con una gran fede a parlare con il Signore. Sentivo internamente come una voce che mi penetrava ed io ascoltavo, rispondevo e risolvevo. Questa voce mi parlava spesso sull’amore di Gesù, mi indicava l’esercizio della virtù specie sopra l’obbedienza.
Altre volte sentivo invece dentro il mio cuore che Iddio voleva tutta la mia volontà, ed io risolvevo di nulla negare a Dio, e per solito dopo la Comunione ne facevo al mio Signore un dono totale. Per solito le mie espressioni erano queste: “Gesù mio, ti dono tutta la mia volontà, prendine la chiave e fanne ciò che vuoi”: e nel dire questo, mi ricordo che lo dicevo con tanta verità e convinzione che mi sembrava e ne avevo l’impressione che il Signore accettava e ne diveniva l’assoluto padrone.
Dio mio, questa volontà che con tanto slancio vi davo e che protestavo di non voler riprendere, questa volontà l’ho ripresa per offendervi, per non servirvi! Eppure (ed è questo che più mi fa stupire) Voi sapevate come avrei ripreso il dono che allora vi facevo, l’accettavate e versavate le vostre grazie, il vostro amore nell’anima mia, come se questa vi sarebbe restata sempre fedele! Questo tratto del vostro amore mi confonde e mi strazia il cuore. Mi confonde nel vedere la mia ingratitudine, di fronte a tanta bontà, mi strazia il cuore nel vedere come finora nulla ho fatto per espiare tanta mia sconoscenza.
Mio Dio, io sento che una sola espiazione di amore posso e devo offrirvi. Sì, mio Dio, il mio amore per voi non avrà più limiti e quest’amore distruggerà la mia natura, mi sproprierà di tutto ciò che è in me, mi spingerà alla penitenza e così darò a voi un tributo di espiazione e questa espiazione guidata dall’amore unita ai meriti di Gesù nostro divino riparatore, voglio che ad ogni istante ascenda a voi. Ah, mio Dio! Datemi un cuore grande grande, che sappia amarvi e possa amarvi tutto il tempo che non vi ho amato.
Passò qualche tempo così, quando un giorno trovandomi come il solito avanti il SS.mo Sacrnto, tutto sparì avanti all’anima mia ed il Cuore di Gesù si presentò al mio spirito nella sua bellezza divina. Egli nulla disse al mio cuore, ma mi guardò amorosamente e quello sguardo penetrò nel fondo del mio animo, e l’anima mia intese il bisogno di riposarsi in Dio (questo mi accadde anche qualche altra volta).
Dopo questo io non potevo più né pensare né parlare col Signore nel tempo dell’orazione. Sentivo che l’anima mia stava come riposata in Dio immersa in un dolce silenzio e come in un dormiveglia in cui sentivo che la mia volontà amava Dio.
L’effetto che io risentivo da questo era un gran desiderio di patire e patire tanto, mi sembrava che amare e non patire non poteva andare, e quindi chiedevo a Dio dei patimenti, li chiedevo però senza conoscerli e ne chiedevo tanti. Dico che chiedevo dei patimenti senza conoscerli, perché io non pativo nulla; tentazioni, contrarietà non le avevo e quindi chiedevo senza capire quello che chiedevo. Domandavo al p. Ab. delle mortificazioni esterne e mi fu concesso di non bere mai, neppure a pranzo nei venerdì, di portare tutto il giorno la catenella, e la disciplina a sangue, ed ebbi il permesso di alzarmi la notte. Come più l’anima mia si accostava a Dio tanto più in me cresceva l’amore e il desiderio di sacrificarmi per la salvezza delle anime.
Questo desiderio mi cresceva gradatamente nell’animo e pian piano andavo unendo le mie preghiere a quelle del C. di Gesù nell’Eucaristia e ne facevo lui il depositario dandogli tutte le preghiere, penitenze e opere per i poveri peccatori. Io sentivo come una attrazione per sacrificarmi, spropriarmi di tutto per queste anime e quando ricevevo Gesù l’unico mio pensiero erano i peccatori e mi offrivo con semplicità ed amore a Gesù per la conversione di questi e soprattutto gli facevo dono di tutta la mia volontà con atti di abbandono.
Il pensiero di Dio un poco per volta mi si faceva più frequentemente, e certe volte mi sorprendevano degli slanci d’amore così forte che si palesavano anche al di fuori, come anche una volta m’accadde in Chiesa che presa da un amore forte, mi trovai in Sacrestia avanti al p. Ab. che per fortuna si trovò lì e stavo parlandogli di amare Iddio ecc. Dopo mi vergognai tanto.
Intanto internamente mi sentivo un impulso continuo verso l’obbedienza; comprendevo sempre più chiaramente che il sacrificio più accetto a Dio era quello della volontà e quindi chiesi ed ottenni il voto di obbedienza, che mi fu permesso a tempi determinati; dopo qualche altro mese emisi gli altri due voti.
In questo frattempo domandai di essere accettata nella Congregazione delle Zelatrici del Cuore di Gesù. Questa mia domanda fu molto combattuta e discussa causa: I: la vita mondana fatta in Roma; II: che questa vita seguitava non in me nell’apparenza, ma in famiglia. Infatti nonno, che era della stessa indole di mia madre, e lo zio, spesso dava serate e feste da ballo. Il p. Ab. mi permetteva stante la condizione mia di figlia di famiglia, di assistere per un poco di tempo ma non dovevo prendere parte al ballo, ed io restavo un poco e poi con la scusa della salute mi ritiravo in camera e mi mettevo a pregare.
Le Zelatrici naturalmente questo non lo sapevano, erano quindi giustificate le loro opposizioni. Il p. Ab. però spiegò ogni cosa e fui accettata e dopo uno o due mesi mi furono assegnate delle cariche. Con questa aggregazione ebbi più libertà di fare del bene, e permettendomi la nonna di seguire tutte le pratiche della Congregazione, quindi due volte la settimana andavo dagli infermi più poveri e più abbandonati ed oltre ad aiutarli materialmente, nettavo loro la casa e facevo ad essi tutti quei servigi necessari. Altra pratica che a me piaceva tanto era quella di preparare l’inferma per ricevere il S. Viatico o Comunione di devozione. Oltre a preparare l’ammalata si adornava la camera e si nettavano tutti i luoghi dove doveva passare il SS.mo Sacramento. Non era questo soltanto, perché come Zelatrici si doveva andare con torcia accesa in mano, velo nero e medaglia dietro il Sacrnto immediatamente dopo il Sacerdote e dire delle preghiere ad alta voce (allora il Viatico si portava non in privato come ora). Io ero tanto contenta di andare dietro al Signore, di preparargli le anime, che ero sempre una delle prime, qualunque fosse stata l’ora, salvo un ordine contrario della nonna che subito accettavo, e sottomettevo il mio desiderio.
Fu in questo turno di tempo che mi presi l’incarico di rivestire fanciulle, fornendole di due cambi di ogni indumento personale. Lasciandomi la nonna questa libertà (perché anch’essa amava i poveri) questi non partivano mai dalla nostra porta senza averli forniti di ciò che era loro più necessario, o vitto o biancheria.
Intanto passava il tempo. Il p. Ab. ogni tanto mi parlava della vita religiosa, ma io rispondevo, che non sentivo di consacrarmi a Dio negli Istituti esistenti perché sentivo che non erano conformi ai miei sentimenti. Per lo più egli mi rispondeva che io dicevo così perché non conoscevo i monasteri e poi mi faceva delle domande sopra i miei sentimenti ed io semplicemente gli dicevo ciò che sentivo, senza mai supporre che un giorno sarebbe sorto questo Istituto. Oh, ne ero ben lungi!
Un giorno p. Abate mi chiamò e nuovamente mi domandò se volevo farmi religiosa. A questa domanda inaspettata pensai che Iddio questo voleva da me e quindi risposi che avrei fatto ciò che lui voleva. Allora mi parlò delle Sepolte Vive e conchiuse col dirmi: “Avverti i tuoi parenti perché dovrai entrare lì”. Io obbedii.
Ciò che accadde in famiglia non so descriverlo, tutti, eccetto la nonna, si opposero fortemente e crebbe l’opposizione quando seppero che avevo scelto le Sepolte Vive (non dissi in famiglia nulla del p. Ab.).
Lasciai passare tutta quella burrasca, specie di mia madre e la sorella Adele, poi parlai seriamente con la nonna, questa non si oppose, solo mi fece notare che con una salute come la mia (perché seguitavo a stare sempre malaticcia) non era possibile che l’avessi potuto durare in una vita così austera com’era quella scelta, discutemmo un poco, poi fu conchiuso che quando sarebbe giunta l’ora, prima di entrare, sarei con la mamma andata a vedere e conoscere il Monastero. Pian piano gli animi si calmarono perché credettero che col tempo avrei cambiato sentimento.
Dopo questa decisione del p. Ab. sulla mia entrata, non mi preoccupai d’altro e proseguii tranquillamente la mia vita solita.
Una domenica tornai in Chiesa per assistere alla Messa cantata e come il solito mi posi a pregare avanti al Sacrnto.
All’anima mia si manifestò il Signore. Egli stava in uno stato di pena e sul suo volto si vedeva una profonda mestizia, che mi rimase e ancora è impressa nel mio animo. Il suo Cuore era trafitto da una spina e nel fondo del mio animo intesi la voce a me nota che mi chiedeva di consolarlo. Il mio primo slancio fu di offrirmi, nel mentre che l’animo mio si formò una pena tanto profonda, che tuttora in me, nel segreto del mio cuore, forma un martirio di dolore e di amore.
Il tempo che questo durò non lo ricordo, perché tutti i miei sensi erano riconcentrati in quest’oggetto di amore e questo amore lo vedevo addolorato.
Quando Gesù si ritirò dalla vista dell’anima mia io mi riscossi e le persone sortirono dalla Chiesa, la Messa era terminata, ed io pure sortii.
Il mio pensiero era occupato dalla pena e mestizia del Cuor di Gesù.
Mia madre si avvide della mia preoccupazione, mi sgridò ma il mio pensiero non si poteva distogliere da ciò che mi era accaduto e che mi dava tanta pena.
Nel pomeriggio tornai in Chiesa e passai tutto il dopopranzo ai piedi del Sacrnto. Io sentivo una pena così profonda che non trovavo altro modo di lenirla che con tornare replicate volte a offrirmi a patire tanto tanto per consolare il Cuor di Gesù. Altre offerte non facevo ma mi offrivo tutta intera e con tutto il cuore pregavo il Divin Redentore di ridurmi come Lui voleva purché al suo Cuore fosse tolta quella spina.
Passai tutto il tempo in questo stato di offerta e di pena, né mi accorsi dell’ora tarda e della venuta di mia sorella.
L’indomani ne parlai al p. Ab., questi nulla mi disse, mi concesse le penitenze che gli domandai per offrirle al Cuore di Gesù e prima di darmi la benedizione mi disse di riferirgli sempre con semplicità tutto. Ed io obbedii perché temevo di essere illusa; questo per me era un vero timore. Passò alcun tempo dopo questo fatto, quando una sera stando come al solito avanti il SS.mo all’anima mia si presentò nuovamente il Signore come la prima volta. La voce non si fece sentire nel mio cuore, ma Egli mi guardò, il suo sguardo mesto e addolorato penetrò nel più intimo del mio spirito.
Queste viste mi producevano l’effetto di segregarmi sempre più dalle creature, sentivo il bisogno di starmene con Dio, raccolta in Lui in un continuo atto di sacrificarmi per consolare il Cuore traf. di Gesù.
Un giorno il p. Ab. mi domandò (all’improvviso) quale era la causa della spina che trafiggeva il C. di G. ed io gli risposi di non saperlo, allora mi ordinò di domandarlo al Signore e detto questo mi lasciò subito.
Passò altro tempo senza più nulla accadermi, e io seguitavo a pregare e a far penitenza. Un giorno il Signore si manifestò nuovamente all’anima mia, e mostrandomi il suo trafitto Cuore mi richiese di prendere parte alle sue pene e di consolarlo. Restai tanto impressionata della grande mestizia del suo volto che non mi ricordai di fargli la domanda voluta dal p. Ab. e mentre offrivo il cuore a patire e gli donavo tutta la mia vita pur di poterlo consolare, mi sovvenne dell’ordine ricevuto e domandai al Signore la causa della spina, ed Egli mi rispose: “Questa spina è conficcata nel mio cuore da quei Sacerdoti che dimentichi del loro carattere offendono, con le loro infedeltà, il mio Celeste Padre”.
Indi dopo un poco soggiunse: “Il Sacerdote mi è caro come la pupilla degli occhi, esso è parte delle mie viscere ed è come il canale per cui passano le grazie per le anime; le sue infedeltà mi trafiggono in modo particolare, perché si riverberano sopra le anime”.
Tutto questo passò dentro di me in un modo che non so spiegare, perché l’anima mia vedeva, udiva, ma io non parlavo né pensavo, tutta io ero concentrata in Dio. L’animo mio questa volta rimase come annientato dal dolore e dall’apprendere una cosa che mai avrei supposto avendo sempre avuto, e come ancora l’ho, un vero sentimento di stima e di rispetto per il Sacerdote; e quindi questo mi sorprese e addolorò.
L’indomani ne parlai al p. Ab. Egli mi tranquillizzò sul timore che avevo di essere ingannata, mi accordò delle penitenze che gli richiesi e subito mi lasciò.
Ricordo che nella festività dell’Ascensione di N.S. mi commovevo tanto e quando si stava al punto: “Viri Galilei”, non potevo più proseguire, mi sentivo stringere il cuore e piangevo, poi naturalmente me ne vergognavo. La causa di questo era la pena che sentivo per gli Apostoli che rimasero senza il loro divin Maestro e pensavo come mi sarei trovata io se il Signore si nascondeva e mi lasciava sola come gli Apostoli.
In genere l’Ufficio mi raccoglieva, sentimento che sento nuovamente anche adesso nella recita dell’Ufficio del Cuore di Gesù, della Madonna e nella recita dei 7 Salmi. Quanto pagherei poterlo capire bene!
Io avevo abbracciata quella vita per puro spirito di obbedienza che mi aveva detto: essere volontà di Dio: quindi da mia parte misi tutto l’impegno a conoscere bene le regole, adattare il mio spirito a queste e a tutte le piccole osservanze e costumanze della comunità.
Con questo non intendo dire che non facevo mancanze il mio carattere reciso, autorevole, spesso mi faceva sdrucciolare, la mia vivezza naturale era causa di mancanze di silenzio e distrazione alle monache nel loro raccoglimento, quindi avevo molto da lavorare, e ancora debbo lavorare su me! Con l’entrare in religione le penitenze per me finirono e mi adattai alla vita comune.
La notte ci alzavamo alle 12,30 ant., vi era un’ora in cui si recitava il Mattutino, stando sempre in piedi e senza appoggio, indi si faceva una lunga disciplina (in comune e la discip. era di ferro), poi un’ora di meditazione. Confesso che per lo più dormivo in quest’ora, si stava all’oscuro perché restava accesa la sola lampada del Sacrnto, ed io sia per questo come anche perché mi sentivo sfinita dalla stanchezza, pian piano mi addormentavo. La mattina dopo la recita di “Prima” e sino terminata la S. Messa allora pregavo.
Nell’orazione l’anima mia si trovava come quando stavo fuori. Il Cuor di Gesù si manifestava all’anima mia ed io sentivo che mi domandava anime.
Il mio pensiero andava spesso alla richiesta che il Cuor di Gesù mi aveva fatto riguardo ai Sacerdoti, e domandavo di tanto in tanto al Signore come avrei potuto consolarlo, accontentarlo. Un giorno pregavo a questo scopo e la solita voce interna mi disse: “Cercami 12 vittime, che si offrano con me”. Quando venne il p. Ab. gli manifestai ciò che avevo inteso, ma non mi dette risposta. Dopo pochi giorni tornò al parlatorio insieme a Monsignor Contieri, Vescovo di Gaeta e mi ordinò di aprirgli il mio cuore, io obbedii parlandogli delle 12 vittime richieste. Sentivo che parlavano fra loro, ma io non capivo perché la grata era coperta con drappi quindi non si vedeva, né si sentiva che alzando la voce. Passati alcuni giorni p. Ab. tornò e mi disse di aver trovato le 12 vittime computando anche me; io mi sottomisi in mancanza di altra. Fu conchiuso che il giorno della festa del Cuor di Gesù, 12 giugno (se non sbaglio), si sarebbe fatta l’offerta. L’offerta la feci col mio sangue.
Il p. Abate il giorno stabilito venne al Monastero, celebrò la S. Messa ed offrì le 12 vittime. Quando il p. Ab. salì all’altare, il cielo da sereno si oscurò e si scatenò un forte temporale che durò tutto il tempo della S. Messa e cessò appena questa finì. Caddero vari fulmini intorno al Monastero ed il Coro tremava come se dovesse rovinare; eppure il Monastero era antico e colossale per la grandezza. Le Suore furono tutte spaventate, io poco o nulla mi accorsi, il mio pensiero stava occupato nel sacrificio della Messa e nelle offerte.
Intanto nell’anima mia accadevano di tanto in tanto degli sprazzi di luce che mi facevano intravedere un nuovo Istituto dedicato al Cuore di Gesù; alle volte questa luce era più chiara, ne capivo lo spirito ma temendo illusione riferivo tutto alla maestra la quale saggiamente mi esortava a tutto disprezzare come tentazione del demonio.
Il mio cuore come ho detto, era penato per il Cuore di Gesù e quindi affrettavo col desiderio la mia vestizione. Io pensavo che dopo le prove del noviziato avrei potuto stringermi con i voti al Signore ed offrirgli l’olocausto della mia libertà, della mia vita e dei miei sentimenti e così consolare il Cuore di Gesù trafitto, e quando venne il tempo feci subito la domanda nelle forme volute dal monastero e fui accettata.
Ero entrata negli Esercizi allorché p. Ab. mi fece chiamare in confessionale e mi disse che qui in Roma vi era una certa Maria Rosaria che voleva aprire un’opera in onore del Cuore di Gesù come sentivo io, e soggiunse che avrebbe domandato al Cardinal Vicario il permesso di farmi sortire, desiderando che io facessi parte di quest’Opera. Dopo che p. Abate terminò di parlare gli risposi che ero contenta di ciò che mi aveva detto riguardo alle intenzioni di Maria Rosaria e dissi: “Beate le prime pietre” alludendo alla necessità assoluta che avevano, essendo le prime, di santificarsi e la fortuna in cui si sarebbero trovate di patire, cosa indispensabile ad ogni principio d’Opera, indi soggiunsi risoluta: “Io però resto qui perché qui Iddio mi vuole!”. Il p. Ab. non rispose, e poi andò via dicendo: “Basta, vedremo”. La vigilia della vestizione tornò in confessionale, mi disse che potevo pure prendere il S. Abito, perché, avendo parlato con il Cardinale, questi gli aveva risposto: “La Teresa sta bene dove sta, se Iddio la vuole per quest’opera penserà Egli a farla sortire”. Io rimasi tranquilla e mi disposi a vestirmi per l’indomani. Il p. Ab. venne a fare il discorso di occasione e per conseguenza assistette anche alla funzione che fu fatta da Mgr Accoramboni.
In questa occasione il P.Ab. mi fece il sonetto che qui trascrivo.
Sorgi, t’affretta, al talamo
il Re del ciel t’invita:
una novella vita dischiude innanzi a te!
Sorgi, non odi il placido suon di sua cara voce?
Sorgi, ver Lui veloce,
muovi, ti affretta, il piè!
Vieni, sì vieni, ascoltalo;
nell’amor suo ti dice:
Vieni con me, felice la vita tua sarà.
Te sua diletta ed unica,
te sua sorella e sposa,
ti chiama, oh avventurosa
arra di sua bontà!
Oh! Te felice!
Ai palpiti del casto e santo amore
apri, sorella, il cuore, godi il celeste amor.
Non ti spaventi l’orrido serto di acute spine,
che cinge le divine tempia del tuo Signor!
Ah! non temer s’Ei mostrati
l’insanguinata croce,
e su quel letto atroce t’invita a riposar...
E spine e croci intrepido
Gesù per te sostenne,
l’uomo del duol divenne per insegnarti amor.
Son queste il don che all’anime
offre al suo Cuor dilette,
che alle sue nozze ha elette,
che vuole unir con sé!
Stringi al tuo cuor nell’umile saio
che il mondo irride nelle sue gioie infide
quel don con ferma fé.
V’è chi sostien la debole natura:
un Dio tuo Sposo;
e di conforto ascoso t’inebria e fa gioir.
Gesù la destra porgeti,
e se vacilli stanca,
pietoso la sua manca soccorre al tuo patir.
A te sua sposa Ei amabile
apre il trafitto Cuore;
in esso il tuo dolore t’invita a riversar.
Entra in quel Cuore, e il gemito cessa,
e una fiamma ardente
t’invaderà possente e ti farà bear.
Ah, che in quel Cuor si cangiano le spine in un sorriso,
la croce in paradiso, il duolo in voluttà!
Entro quel Cuor che palpita
sempre di nuovo affetto,
conoscerai il diletto
che a sposo il ciel ti dié.
Felice te, che scegliere
le nozze dell’Agnello
sapesti in quest’ostello,
guidata dalla fé.
Questo fu letto da mia sorella in tempo del rinfresco. Con la vestizione incominciai ad operar meglio e cercai di essere sempre più fedele a Dio, per così prepararmi alla vestizione religiosa e col sacrificio totale di me stessa e di tutti i miei più intimi sentimenti e aspirazioni dell’anima.
Intanto la mia salute deperiva sempre più, ed ogni giorno lentamente mi indebolivo, fino a non poter più mangiare e la debolezza crebbe tanto che ero costretta, per camminare, a sorreggermi. Avendo dovuto le Sepolte Vive cedere una parte del monastero ad alcune monache Agostiniane chiamate “le Vergini”, queste fecero sapere, all’insaputa delle Sepolte Vive, lo stato di mia salute, a mia madre: non ci volle altro perché la mammà reclamò un consulto e la Madre abbadessa dovette contentarla.
Il giorno stabilito vennero i dottori con mia madre e la diagnosi fu: febbre intermittente serotina, terreno preparato alla tisi. Mia madre mi reclamava in casa per curarmi e la Madre abbadessa, radunato il Capitolo, insistette per la mia uscita.
Non sto a descrivere la mia pena; invano supplicai le Capitolari di tenermi offrendomi a vivere del tutto separata dalla Comunità purché non ritornassi nel mondo, ma Iddio si serviva di questo per i suoi fini, ed io pensai di sottomettermi a questa divina disposizione.
La mia uscita fu in giorno di venerdì alle tre pomeridiane. Ricordo che nel togliermi l’abito intesi come se qualche cosa si staccasse dall’animo mio, lo baciai per l’ultima volta e piegato lo posi sul mio letticciuolo, indi indossai gli abiti secolari e mi posi in ginocchio ringraziato il Signore e lasciato effondere il mio cuore in Dio, ora tornavo a ringraziarlo e lasciavo che l’anima mia assaporasse il sacrificio che Iddio mi richiedeva e l’unii all’agonia di Gesù in croce.
Mia madre e mio nonno stavano in legno attendendomi, essi giubilarono mentre il mio cuore era oppresso, ma rassegnato.
Tornata in casa non erano trascorsi 15 giorni che io mi ero del tutto rimessa. La mia grande debolezza e sfinimento fisico sparirono. Ripresi la mia vita primiera di preghiera e penitenza, e trascorsi 3 mesi in famiglia. Intanto le idee dell’Istituto novello si fecero in questo tempo più chiare nel mio intelletto, erano più ordinate e lo spirito interno di esso lo vedevo netto.
Il p. Abate mi ordinò di scrivere ogni cosa, ed io come sempre obbedii. Intanto il Signore stava preparandomi una nuova uscita di casa, come in appresso vedremo.
Nota: Il nome delle 12 vittime furono: Mgr Contieri Vescovo di Orvieto – P. Abate – Don Teodoro Merluzzi, Maestro dei Novizi basiliani – Fra Silvestro – Don Romano, attuale Abate dei Monaci – la maestra delle novizie delle Sepolte Vive – Caterina Magarelli e Teresa Grossi Gondi – Suor M. Stanislaa, religiosa di S. M. dell’Orto – una Suora Orsolina – Lucia Tiberi – Teresa Casini.
Quando tornai in casa, la mia famiglia si era stabilita in Frascati alla nostra casa paterna. Essendo morta la nonna, nonno Rayner con lo zio Arturo (che mai si erano occupati dei beni e amministrazione avendone avuto l’incarico la nonna attissima a questo) non vollero avere seccature e pensieri, quindi vendettero tutto e la casa in Grottaferrata fu presa dalle Figlie del Sacro Cuore (Fondatrice la Verzeri) ritrovandola adatta per Collegio. Realizzato così il danaro, la famiglia, come ho detto, si stabilì in Frascati ed io rimasi tre mesi presso di loro.
In questo tempo frequentai la Parrocchia di S. Rocco, perché più vicina e più abbandonata. Ricordo che questa chiesa era tutto sudiciume e sfasciume. Presi l’assunto di rendere più decente la Cappella dedicata al Cuore di Gesù, e la fornii di tutto il necessario, e anche di un quadro più conveniente, del C. di Gesù, e detti ciò che era necessario per mantenere la lampada accesa giornalmente.
In questa Chiesa così povera e dove quasi nessuno ci andava passavo le ore avanti a Gesù Sacrnto e gli facevo amorosa compagnia, e l’anima mia s’internava sempre più nelle pene del Cuor di Gesù. Fu in questa Chiesa che ebbi la prima idea di corrispondere alle richieste che il Signore più di una volta aveva fatto all’anima mia di portargli anime (come mi sembra di avere già scritto) ed allora compresi che avrei potuto realizzare il desiderio espresso dal Signore riguardo ai Sacerdoti con riunire attorno a Gesù Sacrnto un piccolo numero di anime viventi per scopo di offrirsi insieme a Lui vittima eucaristica in sacrificio di espiazione per quei sacerdoti che con le loro colpe offendono la giustizia del Divin suo Padre.
Nella mia mente non balenò l’idea di formare un Istituto e molto meno di stare a capo di questo, il mio pensiero era di contentare le richieste del Cuore trafitto di Gesù, ed in attesa che il Signore suscitasse un Sacerdote che volesse compiere ciò che Egli richiedeva, io intanto unita ad altre anime, nel nostro poco, avremmo cercato di consolarlo ed offrirgli i nostri cuori per deporre in essi il suo amore sofferente.
Questa fu la mia idea netta, chiara; sentivo pena per il Cuore di Gesù e benché ben comprendessi che Egli nel suo stato glorioso ora non può più soffrire, con tutto ciò dal mio animo non si scancellavano né si scancellano le sue richieste, i suoi lamenti. Quando cominciarono, poi, ad attorniarmi delle giovanette (come poi dirò) nel mio animo vi era sempre l’idea che questo Istituto fosse diocesano perché mi sembrava che con questo si sarebbe meglio potuto corrispondere ai disegni del Signore.
Questa fu la mia idea netta, chiara; sentivo pena per il Cuore di Gesù e benché ben comprendessi che Egli nel suo stato glorioso ora non può più soffrire, con tutto ciò dal mio animo non si scancellavano né si scancellano le sue richieste, i suoi lamenti. Quando cominciarono, poi, ad attorniarmi delle giovanette (come poi dirò) nel mio animo vi era sempre l’idea che questo Istituto fosse diocesano perché mi sembrava che con questo si sarebbe meglio potuto corrispondere ai disegni del Signore.
In quindici giorni mi rimisi in salute, la febbre non tornò più e così fui in grado di sortire. Mio primo pensiero fu di andare in Grottaferrata dal p. Ab.
Un giorno, questi mi disse di andare in Roma a parlare con Maria Rosaria, di cui, già, come ho detto, me ne aveva parlato dalle Sepolte Vive; mi ordinò quindi di mettermi d’accordo con questa, di conoscere le idee, il fine dell’opera che voleva fare, infine di venire al chiaro di tutto, indi tornare da lui e riferirgli ogni cosa.
Parlai di questo a mia madre, la quale si oppose dichiarando di non voler permettere che tornassi a rovinarmi la salute ecc. infine poi si calmò ed ottenni di andare in Roma insieme a Teresa Canestri ed una donna anziana, per accompagno.
Giunta in Roma andai a S. Lorenzo in Damaso, ove Maria Rosaria abitava sulle soffitte della canonica, e mi abboccai con essa. Sul principio non voleva parlare, ma infine mi palesò le sue idee, ed eccone un breve riassunto.
Essa desiderava fare un Istituto in onore del Cuore di Gesù, questo doveva essere di clausura stretta, le Aggregate avrebbero assunto il nome di “Vere amanti del Cuore di Gesù”. Il fine principale di esso era di aprire scuole di perfezione, perché diceva che questa nella Chiesa cattolica mancava, quindi le Aggregate avrebbero dovuto studiare la “perfezione cristiana”, rendendosi versate in questa materia, ecc.
Questa scuola sarebbe stata accessibile ad ogni ceto di persone, ma specialmente ai Sacerdoti... Confesso che questa cosa suscitò nel mio cuore un sentimento di contrarietà, perché non è forse la Chiesa cattolica cattedra di perfezione? E non era forse presunzione, assumersi, noi donne, un compito affidato da Dio alla Chiesa? Comunque sia, compresi che le idee erano ben differenti e non concordavano con quelle che sentivo io. Ne parlai con tutto ciò al P. Abate, questi pur convenendo a tutto mi rispose: “Tutto va bene, ma tu devi entrare, va’ e soffri qualunque cosa purché si cominci”. Io obbedii e nel giorno stabilito (non ricordo la data) entrai.
Come avevo preveduto così fu, vi erano delle vere stranezze, ma passai sopra, e presi la risoluzione di occuparmi di consolare il Cuore trafitto di Gesù con sottomettere in tutto il mio proprio giudizio morendo così a me stessa, con osservare in quel che potevo le regole e mantenere in me l’osservanza delle piccole cose (debbo però dire che in complesso non si raccapezzava niente). La mia entrata fu preceduta da una giovane, Teresa Canestri, che fin da fuori mi era compagna negli esercizi di pietà e nelle opere di carità (questa poi entrò nell’Istituto e fu una delle sei prime). Dopo che fui entrata da Maria Rosaria, spesso m’intrattenevo a parlare da sola con Teresa, proseguendo così il lavoro da me cominciato fuori sopra l’anima sua.
Un giorno, durante l’adorazione, o in tempo della S. Messa, non ricordo bene, conobbi che questo mio agire con Teresa non era giusto, né piaceva al Signore che mi voleva morta in tutto, compresi che in questo modo ritenevo in me il mio giudizio giudicandomi capace di aiutare Teresa, bello spirito; capii che questo era superbia, e dietro questo risolsi senza più di troncare ed infatti scrissi subito un biglietto a Teresa concepito così: “Io capisco che il Signore non è contento di questo parlare fra noi a solo, quindi io tronco ogni relazione; cerca di essere buona e facciamoci sante”.
Detti a Teresa questo biglietto, e poi non mi occupai più di nessuno, e pensai invece a morire in tutte le occasioni a me stessa.
Iddio permise, certo per mio bene, che la Poveretta del Cuor di Gesù (così voleva essere chiamata Maria Rosaria, e così ora la nominerò) sospettasse di me: temendo che volessi sopraffarla con introdurre nelle altre le mie idee.
Confesso che non ci pensavo affatto e mai lo feci, non solo, ma alla stessa Teresa, stando fuori, non gliene avevo mai parlato chiaro.
Comunque sia, Iddio permise che la Poveretta sospettasse, e da questo sospetto derivò la proibizione di volgere per qualsiasi ragione la parola a chicchessia delle giovani e quindi, se stavo con una di queste a fare qualche ufficio di casa, mi ordinò di cantare sempre, e nel tempo della ricreazione parlare in generale a tutte, di più di fare la buffona per far ridere, ecc.
La mia superbia ed il mio orgoglio ed anche il mio carattere si ribellava, ma il pensiero di Dio unito alla sua grazia mi fece accettare in apparenza contenta di quest’ordine e superai tutto e cominciai subito ad atteggiarmi a fare ciò che da me si voleva.
Quanto più la Poveretta queste e simili imposizioni mi faceva, alle quali esattamente mi adattavo, tanto più mi sentivo concentrata nel Signore, e quando mi era concesso di pregare, stavo molto bene con Dio.
L’opera andava intanto così avanti con questi principi i quali mi parevano che non erano atti a formare le anime.
Iddio permise che la Poveretta, e credo a scopo di bene, parlasse di me in modo che il Cardinale e Mgr Guidi entrarono in sospetto, quindi ordini sopra ordini, divieti e raccomandazioni. Di tutto questo, la mia superbia, il mio carattere reciso che avrebbe voluto parlar chiaro, infine in una parola tutta la mia natura e le passioni si ribellarono dentro di me, ma Iddio mi aiutò con la sua grazia e quindi lasciai che le passioni si cozzassero fra loro e risolsi di non scusarmi, né apportai ragioni, decisi di lasciar correre come Iddio aveva disposto, mi sottomisi, e vedendomi da tutti i superiori in sospetto, mi raccolsi meglio nel Signore.
Dire le consolazioni che in quel turno di tempo Iddio versò nell’anima mia non saprei. Io in mezzo alle pene ero felice, felice anche nelle mie buffonate. Mio Dio, quanto siete stato buono! In questo tempo il p. Abate venne più di una volta a parlare con me, e con Teresa.
La Poveretta non aveva piacere che al p. Abate si fosse riferito ciò che dentro passava; ed io credetti bene di attenermi al suo desiderio, e quando avevo parlato dell’anima mia, sul resto tacevo e ricoprivo.
Il p. Abate però venne a conoscere qualche cosa per parte di Teresa, ed egli si risentì con Mgr Guidi, non solo, ma parlò anche al Cardinal Vicario.
Anche di questo Iddio permise che si pensasse avere io parlato, e sotto questa persuasione un giorno la Poveretta mi chiamò e mi parlò sullo stato in cui si trovava allora l’anima mia paragonandola ad un alto albero, pieno di belli e frondosi rami, ma che le radici, il tronco, le frutta erano magagnate da un verme ecc. e sopra quest’argomento si prolungò più di un’ora facendomi un quadro ben poco lusinghiero dell’anima mia. Io ascoltai sempre in silenzio e cercai uniformarmi col mio giudizio a quel che mi diceva, e tanto cominciai a ritenerlo per vero, che nell’anima mia si successero una infinità di timori, di angustie e caddi in una pena tanto grande che cominciai a piangere proprio di cuore, allora la Poveretta mi lasciò dicendomi di rientrare bene in me stessa e considerassi il misero mio stato. Questa cosa pose l’anima mia in apprensione ed in angustie, né potevo dirlo a nessuno dal momento che anche Mgr Guidi (che era anche nostro confessore) era prevenuto, quindi solo il Signore era consapevole della pena che avevo nel mio cuore e solo avanti a lui sfogavo il mio dolore. Mio Dio, quanto in quel tempo voi mi avete amato!
Con quelle pene, angustie e con tutti i sospetti che mi circondavano, Voi volevate distaccare il mio cuore da tutto e specialmente dalla stima delle creature, e dalla stima occulta di me stessa. Voi mio Dio lasciavate che i vostri servi, che pur vi amavano mi avessero così tribolata l’anima. Questi tratti della vostra bontà, che scorgo nelle vostre amabili e sante disposizioni, benché allora per me dolorose, mi rapiscono il cuore e mi ricoprono di confusione nel vedere in me tanta ingratitudine ed in voi tanto amore! Ah mio Dio! Datemi un cuor grande, un cuor nuovo che sappia amarvi tanto da rimediare le mie passate ingratitudini.
Si era, dall’entrata, stabilita la recita dell’Ufficio grande della Madonna, e quindi Monsignore mi dette l’incarico di insegnare alle altre il modo di recitarlo, ma la Poveretta non volle e quindi mi sottomisi al suo volere.
Fu anche stabilita l’adorazione notturna e diurna, il giorno dovevamo farla sopra la porta della Cappella, sedendosi sopra uno sgabelletto sulla porta che stava aperta, e siccome questa porta stava nella camera comune di lavoro, così non si poteva pregare, ed era una gran pena.
Di tanti in tanti giorni ci veniva concesso di fare in Cappella l’adorazione.
La notte non tutte facevano l’adorazione, quindi due giovani di buona volontà ed io ci dividemmo le ore; ed oltre a questo dovevamo alzarci alle due antimeridiane per la recita del Mattutino, che ben spesso si era costrette ripeterlo stante l’incapacità di recitarlo, perciò le ore di riposo erano ben poche e interrotte più volte. Non so dire il sonno che avevo, mi sentivo con la testa pesante e stanca, e spesso (tanto io quanto le altre due) dopo fatta un poco di adorazione dicevamo al Signore: “Ora qui alla vostra presenza mi addormo un poco perché non mi reggo più dritta, e Voi, Gesù mio, giunta l’ora, svegliatemi”: presa questa licenza mi addormivo.
Credo che il Signore compativa la nostra debolezza umana, e tanto alle altre quanto a me, all’ora stabilita ci chiamava. Un giorno ci venne l’ordine di andare del tutto scalze con i piedi nudi per terra. Quella casa, sita nel ghetto, era umida e piena di bagarozzi (e spesso se li trovavano indosso e a letto), il mio proprio giudizio si ribellò a quest’ordine, quindi sia per la grande ripugnanza che provavo di andare così a piedi scalzi, sia per altre ragioni, che mi venivano, sentivo una ripugnanza indescrivibile a sottomettermi. Tutto questo passava dentro di me, ma il Signore sempre buono mi fece comprendere, non ricordo se fu il tempo della Messa o dopo la Comunione, che dovevo sottomettere il mio giudizio e le mie ragioni umane, allora soppressi ogni sentimento e fui la prima ad accettare e mettere in pratica l’ordine ricevuto.
Mio Dio! Che natura ribelle era la mia e lo sarebbe tuttora se voi con la vostra grazia non mi sosteneste. Quanta pazienza, mio Dio, e tutto questo è per l’amore che mi portate. Mio Dio, come potrò corrispondervi?
Non mi dilungo più sopra questi particolari che del resto più o meno si assomigliano. Intanto cercavo di togliere da me quello che mi sembrava non poter piacere al Signore. Per natura sono sempre stata, ed ancora lo sono, molto delicata di stomaco; una tal cosa mi parve necessario superarla, quindi lambivo gli sputi della Poveretta che essendo tisica sputava ovunque, senza pensare alle conseguenze (però non lo faceva per cattiveria), facevo delle croci ovunque sentivo che il mio stomaco si ribellava ecc., di queste e simili non solo in quel tempo facevo, ma tuttora lo fo, quando mi sembra necessario reprimere la eccessiva delicatezza naturale; malgrado tutto questo, la mia ripugnanza naturale non mi è ancora riuscito a superare.
Passarono in questo modo sette mesi, allorché fu decisa la vestizione dai Superiori. Questa per me fu causa di un nuovo sacrificio.
Il mio primo giudizio mi diceva che era una pazzia vestire quelle anime non formate e sentivo tutta la gravezza di un passo simile e quindi mi ripugnava fortemente.
Venne il p. Abate a cui palesai le mie difficoltà, questi mi rispose: “Vestiti”; e soggiunse nuovamente; “Soffri e sacrificati purché l’opera vada avanti”.
Io mi sottomisi, ma al mio giudizio sembrava che era inutile far andare avanti un’opera in quel modo, senza una base e senza spirito.
Compresi però che questa era tutta riflessione umana prodotta dal mio giudizio e quindi questo doveva assolutamente andare giù anche in quello che mi sembrava giusto e ragionevole, e quindi tutto sacrificare tagliando ogni riflessione, offrendo tutto al Cuore di Gesù che desideravo tanto di consolare.
La Poveretta espresse, in questa occasione, il desiderio che qualcuna di noi avesse, nella vestizione, assunto il nome della sua mamma, cioè Filomena: nessuno volle prenderlo, e quando a mia volta Monsignore mi domandò che nome volevo prendere, risposi semplicemente: Suor Filomena; le altre presero questa mia decisione come una delle solite mie stravaganze, ci risero perciò sopra, ed io lasciai correre. La mia decisione però proveniva da un pensiero più soprannaturale. Intanto si avvicinava il giorno della vestizione e veramente mi straziava il cuore nel vedere la leggerezza con cui si faceva questo passo e la vanità nell’affinamento che si cercava dare agli abiti; quindi non so dire le pene del mio cuore e quanto era grande il sacrificio che dovevo fare. Andai un giorno ai piedi di Gesù Sacramentato e lì rinnovai la volontà risoluta e sottomessa ad indossare l’abito religioso, di volere sacrificarmi ecc., come voleva il p. Abate.
Passai dei giorni con l’agonia nel cuore.
Venne la mattina della vestizione, e ricordo che benché esternamente mi mostravo tranquilla e contenta (nessuno aveva mai trapelato la mia ripugnanza), nel mio cuore però vi era la morte e mi sosteneva il solo pensiero dell’obbedienza e feci in questa occasione il primo atto di assoluto abbandono in Dio, scritto col mio sangue. Nell’indossare l’abito tutta l’amarezza di quell’atto l’intesi fino nell’intimo, rinnovai l’atto di assoluto abbandono in Dio accettando tutte le pene che il mio essere soffriva, tutto questo lo ricordo come fosse ora.
Con la vestizione la mia posizione si fece più scabrosa, sentivo il bisogno di vivere più conforme lo spirito religioso, e questo mancava; di più si parlava di farci fare i voti dopo sei mesi e sentivo che non avrei coscienziosamente potuto emetterli e quindi lavoravo su me stessa, primo a sottomettere tutti i miei sentimenti, vedute ecc. e in secondo luogo mi esercitavo in continui atti di fede, di abbandono ecc. Intanto caddi malata e dovetti sottopormi ad una piccola operazione; la tosse infine divenne tanto insistente che Monsignore ordinò alla Poveretta di farmi mettere in letto.
Teresa Canestri cadde anch’essa malata e poco dopo la Poveretta. Quando entrai in convalescenza, Monsignor Guidi mi ordinò di presiedere la Comunità e mantenerla in ordine durante la malattia della Poveretta ma ben poco potevo fare.
La Poveretta dal suo letto aveva dato contrordini e contraddiceva in tutto; infine mi destinò a stare vicino ad essa e curarla, sicché per non far venire di peggio mi applicai intorno alla Poveretta, sorvegliando alla meglio le altre, dico alla meglio, perché non mi lasciava un momento libera, dovendo mangiare anche con l’inferma.
Teresa Canestri tornò in Grottaferrata in sua casa, ed il p. Abate venuto al chiaro di tutto, mi mandò l’ordine di sortire subito ed andare in Grottaferrata.
Con tutta la volontà che avevo di obbedire, questa volta non mi riuscì perché Monsignore a cui domandai il permesso di scrivere al p. Abate, per avvertirlo del giorno della mia sortita, non volle darmelo se prima non l’avessi chiesto alla Poveretta, mi sottomisi, ma questa s’inquietò tanto e decisamente mi proibì di scrivere che non ardii più parlarne, ed allora andai ai piedi di Gesù Sacrnto e gli dissi: “Gesù mio, io rimetto tutto nelle vostre mani, io resto perché non mi si dà il permesso di sortire, ebbene io non ne parlerò più, mi rimetto a voi, solo conoscerò la vostra volontà quando Monsignore spontaneamente e senza la mia provocazione mi dirà; È volontà di Dio che sorti, e allora lo farò subito. Dissi questo al Signore perché non capivo più quale era la volontà di Dio.
Fatto questo atto deposi ogni mia sollecitudine e tornai tranquillamente ad assistere la Poveretta. Intanto mia madre venne a sapere (forse dal p. Abate o dalla Canestri) che io dovevo sortire, non volle altro, venne subito per riprendermi.
Io cercai calmarla e ottenni di restare un altro poco.
La Poveretta morì alle nove della sera il giorno della festa di tutti i Santi, Gli apprestai tutti gli uffici necessari in quella circostanza dopo di che andai a riposarmi. In questa circostanza le altre non vollero prestarsi. Non so descrivere lo stato del mio animo. L’indomani sino a tre giorni vi fu un concorso di popolo a visitare le spoglie della Poveretta, vennero anche vari Sacerdoti, tutti si inginocchiavano e facevano toccare le corone, fazzoletti ecc. sul suo corpo.