Suor Maria Luciana Paciello:

un'offerta d'amore all'Amore

 «Ogni uomo - dice papa Francesco- è una storia d’amore che Dio scrive su questa terra».

Come profumo d’incenso salga a te la mia preghiera” e noi potremmo aggiungere “ e la mia vita”.

Questo versetto del salmo 141 può riassumere la storia d’amore di suor Maria Luciana Paciello, Oblata del Sacro cuore di Gesù, nata a Foggia il 20 aprile 1958 e cresciuta nella parrocchia dedicata ai Santi Guglielmo e Pellegrino.

Esistono persone che brillano di luce propria, sono le cosiddette persone solari. Luciana era una di queste: riflessiva, sorridente, dolce ed energica allo stesso tempo. La gentilezza era una sua dote naturale. Sapeva affrontare la realtà con equilibrio. Viveva la sua vita con pazienza e sapeva aspettare senza farsi prendere dalla tensione.

Il dolore l’aveva visitata in tenera età con la morte della mamma e aveva forgiato il suo carattere e la sua personalità.

Dopo gli studi per il conseguimento del diploma di Assistente Sociale e alcuni anni di lavoro come assistente sociale nel comune di san Marco La Catola, la divina Provvidenza l’ha chiamata a far parte dell’Istituto delle suore Oblate del S. Cuore di Gesù.

Qui, dopo la formazione inziale e il conseguimento del Magistero in Scienze Religiose, presso la Pontificia Università Lateranense, ha svolto un servizio discreto ma prezioso.

Ha ricoperto infatti, grazie alla fiducia che ispirava, parecchi incarichi di responsabilità. E’ stata insegnante di religione, responsabile della casa del clero delle diocesi di Reggio Calabria e di Fano, superiora delle comunità di Grottaferrata e di Roma, maestra delle novizie, segretaria generale e vicaria generale.

Ma Luciana più che una persona stimata e amata è stata soprattutto una "vergine saggia, prudente" che portava l’olio nella sua lampada, l’olio della fede, una fede vissuta, una fede nutrita dalla preghiera, dal colloquio con il Signore, dalla meditazione della Parola di Dio, dall’amicizia con Gesù.

Aveva trovato in Lui la sua “perla preziosa” e la custodiva con amore geloso. Tutto questo l’ha sostenuta nella sua abbastanza lunga malattia, che ha vissuto non solo con dignità, con cristiana rassegnazione e senza mai lamentarsi ma che ha saputo trasformare in olocausto gradito al Signore per la santità dei Sacerdoti, secondo lo spirito della famiglia religiosa di cui faceva parte.

Il tredici gennaio scorso all’età di sessantadue anni e nove mesi, Colui per il Quale è vissuta le ha rivolto l’invito evangelico: “Vieni, serva buona e fedele, entra nella gioia del tuo Signore”.

Signore, noi non ti chiediamo perché ce l’hai tolta ma ti ringraziamo per avercela donata.

Joan Roig Diggle, martire per l’Eucaristia

Joan Roig Diggle, martire per l’Eucaristia, è beato «Sabato a Barcellona Joan Roig Diggle, un laico e martire ucciso all’età di 19 anni durante la guerra civile spagnola, è stato proclamato Beato», ha detto Papa Francesco all’Angelus domenica. Il beato Joan Roig Diggle fu ucciso «in odio alla fede» nel 1936 durante la guerra civile spagnola. «Che il suo esempio susciti in tutti, specialmente nei giovani, il desiderio di vivere al massimo la vocazione cristiana», ha aggiunto il Papa.

Joan nacque a Barcellona il 12 maggio 1917, suo padre si chiamava Ramàn Roig Fuente e sua madre, di origini inglesi, Maud Diggle Puckering. La sua famiglia aveva difficoltà economiche, così Joan ha sempre lavorato per aiutare a coprire le spese mentre stava proseguendo i suoi studi nelle scuole dei Lasalliani e dei Piaristi. Tra i suoi insegnanti c’erano P. Ignacio Casanovas e il beato Francisco Carceller, che sarebbero diventati anche loro martiri. Quando la sua famiglia si trasferì a Masnou, provincia di Barcellona, il giovane si unì alla Federazione dei Giovani Cristiani di Catalogna (FJCC), creata nel 1932 da Albert Bonet e che contava 8.000 membri. Nel nuovo paese nessuno lo conosceva, ma la sua pietà e il suo amore ardente per l’Eucaristia divennero presto evidenti.

Il giovane era noto, infatti, per la sua devozione al Corpo di Gesù in un momento in cui le chiese di Barcellona venivano chiuse, bruciate o distrutte, per questo un sacerdote gli affidò un ciborio contenente il Santissimo Sacramento per distribuire la Santa Comunione ai più bisognosi direttamente nelle loro case in quanto non era possibile partecipare alla Messa. Durante una di queste visite, Joan Roig disse a una famiglia che sapeva che i miliziani rossi stavano cercando di ucciderlo. «Non ho paura di niente, porto il Maestro con me», disse. Quando coloro che attentavano alla la sua vita bussarono alla sua porta, il giovane consumò le ostie che stava sorvegliando per proteggerle da potenziale profanazione.

Poco dopo, una pattuglia dei “Giovani Libertari£ lo catturò e lo portò poi al cimitero di Santa Coloma dove fu ucciso, l’11 settembre 1936, con cinque colpi al cuore e uno alla testa. Le ultime parole del diciannovenne Joan Roig furono: «Che Dio ti perdoni come io ti perdono». Alla beatificazione di Joan Roig il 7 novembre, il cardinale Juan José Omella, arcivescovo di Barcellona, ha detto nell’omelia che il beato era un «ardente difensore della Dottrina Sociale della Chiesa» e che «rende ai giovani di oggi una testimonianza di amore per Cristo e per i suoi fratelli».

P. José Gili Doria, vicario di Masnou, scrisse nel 1936: «Un giorno Joan mi disse: “Di solito dedico almeno due ore al giorno alla vita spirituale: Messa, comunione, meditazione e visita al Santissimo Sacramento; è poco, ma il mio lavoro e l’apostolato non mi permettono di più”». Nel luglio 1936, Joan disse ad alcuni dei suoi colleghi della FJCC che tutti si sarebbero preparati a ricevere il martirio con grazia e coraggio, così come i primi cristiani. Nell’intensa persecuzione che ne seguì, si stima che circa 300 giovani di questa organizzazione siano stati uccisi in Catalogna, tra cui una trentenne sacerdote. Il quartier generale della FJCC è stato bruciato.

La madre di Joan disse che nei giorni della morte suo figlio «stava alleviando i dolori, incoraggiando i timidi, visitando i feriti, cercando ogni giorno negli ospedali tra i morti per scoprire quale dei suoi era stato ucciso». Il cardinale Omella concluse dicendo: «Joan ci insegna che tutti i cristiani sono chiamati a vivere la nostra fede nella comunità. Nessuno costruisce da solo la propria fede, la fede cristiana è essenzialmente comune». 

da "Il Timone"

Suor Santina di Gesù, suora del Sacro Cuore di Ragusa: un semplice fiore di campo con un grande profumo

Nacque a Ragusa il 4 dicembre 1917 da una famiglia dignitosa anche economicamente, in cui la fede cristiana era particolarmente sentita. Ricevette il Battesimo cinque giorni dopo la nascita nella parrocchia di San Giovanni Battista, la futura cattedrale di Ragusa.

Nella più tenera infanzia le morì la madre, Giovanna Spatuzza, dopo una lunga malattia: questa perdita improvvisa la segnò per tutta la vita, portandola a un’inclinazione al pianto e a una certa debolezza di carattere, che grazie alla sua volontà sapeva superare. Ricevette la Cresima il 15 gennaio 1928, mentre per la Prima Comunione lei stessa ammise di non ricordare la data esatta.

Per volere della madre, fu affidata alle cure della nonna paterna, mentre sua sorella Michelina andò a vivere da quella materna. Rimase da lei finché suo padre Giovanni, che si era risposato con Giovanna Moltisanti, non la richiamò con sé. Iniziò per Emanuela quello che lei stessa definì «il periodo più triste e duro della mia vita», mitigato dalla decisione, nel novembre 1932, di ricevere quotidianamente l’Eucaristia, in suffragio dell’anima della madre.

Intanto andò a lezione di taglio e cucito, mentre il padre e la seconda moglie si trasferirono nel paese di Mazzarrone, ma lei non li raggiunse prima del mese di aprile dei suoi sedici anni. La matrigna aveva un carattere difficile, perfino con i propri parenti, e maltrattava la figliastra.

Un giorno in cui le vessazioni della matrigna si erano ripetute più intensamente, Emanuela uscì di casa e si sedette su una pietra per piangere la propria condizione di orfana incompresa. Lei stessa descrisse quel che accadde dopo nella sua autobiografia: al suono serale dell’Ave Maria, sentì come un «raggio di gioia» (sono parole sue) che invadeva il suo cuore.

La colse subito un pensiero: «Chi sa come dev’essere bello in monastero quando suona l’Ave Maria!». Fu allora che l’idea di farsi religiosa, fino ad allora esclusa dai suoi orizzonti, divenne il suo desiderio più grande.

Emanuela dovette però aspettare per mettere in pratica la sua vocazione. Prima la manifestò al suo confessore, poi a una suora assistente dell’Azione Cattolica. Non sentendosi attratta dalla vita claustrale, optò per le Suore del Sacro Cuore di Ragusa, fondate nel 1889 da madre Maria del Sacro Cuore di Gesù, al secolo Maria Schininà (beatificata nel 1990).

La madre generale di allora, suor Caterina Di Pasquale, l’accolse con gioia e l’inviò al Collegio di Maria, un istituto per le figlie dei debitori poveri, come aiutante d’asilo. Il suo periodo di prova, iniziato il 16 ottobre 1935, si concluse tuttavia nella primavera successiva: la superiora di quella casa e le altre suore, infatti, diedero parere negativo al suo ingresso in postulandato, forse per la scarsa educazione che le era stata impartita.

Per non pensare alla delusione ricevuta, Emanuela si gettò nel lavoro di sartoria, mentre intensificava le preghiere, le rinunce e le suppliche alle suore, senza ottenere risultati di rilievo. Un giorno, però, una sua cliente le riferì di essere stata alla Casa madre delle suore, per parlare in favore di una postulante che era stata rimandata in famiglia. Madre Caterina le rispose che non avrebbe più accettato quella ragazza, ma avrebbe invece riaccolto un’altra che, dopo tanti anni, era rimasta fedele alla sua vocazione. Così, il 22 aprile 1938, Emanuela fu nuovamente e definitivamente accolta nella congregazione.

Giovane intelligente e seria, era ricca di volontà, anche se le mancava il diploma elementare perché aveva dovuto interrompere gli studi. Nel corso del noviziato fu deciso che diventasse infermiera: conseguì quindi il diploma d’infermiera dopo un corso frequentato a Palermo. Il 27 maggio 1941 pronunciò i voti temporanei e cambiò nome in suor Santina di Gesù.

Nell’estate del 1943 il fronte alleato della seconda guerra mondiale si spostò in Sicilia, quindi suor Santina venne subito impegnata a portare aiuto come infermiera in vari ospedali di Ragusa, Messina, Siracusa, compito che le rimarrà anche negli anni successivi. Dovunque fu apprezzata e ricordata per i suoi modi delicati, per la dedizione agli ammalati e per la volontà ostinata di alleviarne le sofferenze.

Il 22 aprile 1946 ebbe i primi sintomi di un ascesso perianale che, per le conseguenze sopravvenute ai tentativi di cura, si complicò in un’aracnoidite spinale con paralisi progressiva. Poco più di un anno dopo, il 26 agosto, emise i voti perpetui: «In quel giorno», scrisse, «Lui mi svelò i segreti del vero amore, e come l’amore si nutre solo di sacrificio».

Il 22 agosto 1948 suor Santina si trovava in Casa madre per un corso di Esercizi spirituali e si sentì di aprire il suo cuore a don Giovanni Raciti, il predicatore. Da allora iniziò un proficuo rapporto di direzione spirituale, anche per lettera, grazie al quale la religiosa uscì da un periodo di aridità interiore.

Col suo permesso, formulò due voti privati: quello di fiducia e abbandono, l’8 dicembre 1950, e quello di vittima per i sacerdoti, il 2 febbraio 1951.

Tra le intuizioni che sentiva di aver ricevuto direttamente dal Signore, registrate nel suo Diario spirituale, suor Santina diede importanza a una in particolare: un‘Opera sacerdotale, dove i sacerdoti potessero vivere in comunità e dedicarsi con maggiore dedizione, arricchiti della comune esperienza, al proprio ministero.

Per caldeggiarne la realizzazione, il 1° novembre 1950, lo stesso giorno in cui fu proclamato il dogma dell’Assunzione, don Raciti espose a papa Pio XII lo «Schema di una proposta per il Clero diocesano».

Nel progetto dell’Opera erano previste alcune Ausiliarie, ovvero consacrate che prestassero assistenza, anche materiale, ai sacerdoti; il direttore spirituale immaginava che la stessa suor Santina dovesse farne parte. Tuttavia, questo causò alcune incomprensioni con la Madre generale, che fece interrompere la direzione da parte di don Raciti.

Dopo tre anni alla clinica San Camillo di Messina, suor Santina passò, il 26 febbraio 1958, all’ospedale Umberto I di Siracusa. Il 9 o il 10 ottobre si accostò alla Confessione da don Francesco Sortino, parroco di Isola di Siracusa, che già conosceva: lo scelse come suo terzo direttore spirituale, dopo il camilliano padre Luigi Chiarello, e fu da lui invitata a scrivere la propria autobiografia.

Intanto, però, la sua malattia peggiorava: nel 1962 venne costretta su una sedia a rotelle. Dovette dunque interrompere il suo lavoro e trasferirsi nell’infermeria della Casa madre di Ragusa.

Vivendo negli anni in cui la Chiesa si preparava al Concilio, divenne partecipe di quest’ansia di rinnovamento che coinvolgeva particolarmente i sacerdoti e le anime consacrate, anche tramite l’intimità spirituale che aveva raggiunto nei suoi colloqui col Signore.

La sofferenza di suor Santina durò sei anni, ma continuava a trasmettere a chi l’assisteva la sua serenità. La parte inferiore del suo corpo era ridotta a pochi lembi di tessuto sopra le ossa, mentre si aprivano piaghe anche sulle spalle.

Il 30 gennaio 1968 fu ricoverata per l’ultima volta presso l’Ospedale Civile di Ragusa. Lucida fino all’ultimo, si spense il 12 maggio 1968, a 51 anni, e venne sepolta nel cimitero di Ragusa.

A fronte della sua fama di santità, monsignor Francesco Pennisi, vescovo di Ragusa, chiese che fossero raccolti tutti gli scritti di suor Santina. La fase diocesana del suo processo di beatificazione si è quindi svolta a Ragusa dal 7 ottobre 1985 al 23 novembre 1989. La convalida dell’inchiesta diocesana è stata convalidata il 29 maggio 1992; la “Positio super virtutibus” è invece stata trasmessa a Roma nel 1999.

Sia i consultori teologi, il 14 marzo 2006, sia i cardinali e vescovi membri della Congregazione vaticana per le Cause dei Santi, il 17 aprile 2007, si sono detti favorevoli al riconoscimento dell’esercizio delle virtù eroiche. Infine, il 6 luglio 2007, papa Benedetto XVI ha autorizzato la promulgazione del decreto con cui suor Santina di Gesù era dichiarata Venerabile.

In precedenza, il 9 ottobre 2006, i suoi resti mortali erano stati traslati nella cappella della Casa madre delle Suore del Sacro Cuore di Ragusa. Dal 12 maggio 2007, trentanovesimo anniversario del suo transito, sono collocati in una delle cappelle della casa di riposo «Maria Schininà» di Ragusa.

Il sito Internet istituzionale delle Suore del Sacro Cuore di Ragusa riporta che, come presunto miracolo per la beatificazione, è stato preso in esame il caso di un sacerdote, padre Salvatore Italia, affetto da insufficienza renale acuta e marcata oliguria. La sua guarigione era avvenuta il 24 novembre 1972 nell’Ospedale Maria Paternò Arezzo di Ragusa, dopo le preghiere rivolte all’allora Serva di Dio Santina di Gesù, che aveva operato lì dal 1944 al 1948.

Il processo diocesano su tale asserito miracolo si è quindi svolto nella diocesi di Ragusa dall’11 marzo 1991 al 16 marzo 1992 ed è stato convalidato il 25 gennaio 2002. Il 28 febbraio 2008 la commissione medica della Congregazione per le Cause dei Santi si è pronunciata favorevolmente circa l’inspiegabilità scientifica dell’accaduto.

Don Francesco Sortino si è fatto interprete delle consegne ricevute da suor Santina, avviando la fondazione dell’Opera Sacerdotale Bethania dagli anni ’60 del secolo scorso. Oggi l’Opera comprende il Villaggio Bethania, il Santuario intitolato a Gesù Sacerdote Misericordia Infinita e un centro per Esercizi spirituali.

Nel complesso operano, a partire dal novembre 1973, le Suore Ausiliarie di Gesù Sacerdote Misericordia Infinita, che si considerano figlie spirituali di suor Santina.

Autore: Antonio Borrelli ed Emilia Flochini

Offerta di Vittima

di

don Dolindo Ruotolo

«Gesù mio, in omaggio del tuo Sacerdozio, in espiazione dei sacrilegi che si commettono e dei disprezzi che tu hai Sacramentato; per darmi a Te senza riserve nel più completo e perfetto abbandono, per chiudermi sempre più nel tuo Cuore, in balìa della tua misericordia, io ti fo voto perpetuo e senza condizioni, di dire, la Messa sempre secondo le tue intenzioni e senza ricevere mai elemosina materiale.

Mi ti offro come vittima di espiazione e di amore, mi abbandono totalmente nelle tue mani. Non sono più mio, Gesù mio, ma solo e tutto tuo! Colmami di amarezze, di strazi, di aridità, acciò io almeno ti faccia sorridere di amore a tanti disprezzi che ricevi dai Sacerdoti che non ti amano.

Conferma col tuo sangue questo mio voto e questa offerta, ed usami misericordia. Amen!

Mio Gesù, suggella questo mio atto col tuo Corpo santissimo, e voglio che esso resti incancellabile per qualunque evento.

Io tuo povero figlio ingrato

Dolindo Ruotolo

Vittima del tuo Cuore e dei tuoi Sacerdoti. Amen».

Maria Bordoni,vittima d'amore

alla scuola della Madre di Dio

Maria Bordoni, nacque ad Arezzo il 13 ottobre 1916 da Rodrigo Bordoni e Orsola Marinucci entrambi nativi di Roma ma stabilitisi in Toscana per motivi di lavoro. Il 5 novembre, domenica, ricevette il santo Battesimo da don Antonio Grimaldi con i nomi di: Maria Antonietta-Elisa, nella Basilica di Santa Maria Maggiore, in Roma, basilica dove i suoi genitori si erano uniti in matrimonio il il 21 ottobre 1915.

Orsola, donna intelligente e ricca di fede, con una profonda devozione mariana, inculcò nel cuore della sua piccina l’amore per la Madre di Dio.

Nel 1918, terminata prima guerra mondiale, la famiglia Bordoni da Arezzo ritornò a Roma. Papà Rodrigo si mise alla ricerca di un impiego e lo trovò abbastanza presto presso l'Azienda delle Tranvie Municipali, in qualità di Capo-Ufficio del deposito di materiale, di stanza a Genazzano, un bel paese che si stende a spina di pesce su un'ampia collina verso la via Casilina. Maria  trascorse così un’infanzia serena all'ombra del Santuario della Vergine del Buon Consiglio.

Era veramente una bella bambina e si faceva benvolere da tutti. La mamma così ce ne parla: "Crescendo, Maria diveniva veramente una bella bambina, carnagione bianca-alabastrina, due occhi neri, grandi, meravigliosi e i capelli neri dai riflessi blu. Non intendo esagerare, ma i suoi occhi meravigliavano tutti coloro che l'avvicinavano, e il suo sguardo colpiva veramente".

Maria, come le altre bambine della sua età, amava giocare con le amichette e con i fratellini. I bambini del vicinato la seguivano e le volevano bene; insieme con ritagli e pezzetti di stoffa confezionavano vestitini alle bambole, coglievano i fiori e poi intrecciavano graziose ghirlande oppure se la mamma le regalava farina e zucchero preparavano gustose merendine, pizzette o piccole ciambelle.

A otto anni Maria si ammalò improvvisamente e in maniera molto grave. Fu guarita miracolosamente all'apparire della Madonna col Bambino che madre e figlia videro nel medesimo istante, un’esperienza straordinaria conservata nel segreto del cuore per molti anni e che segnò fortemente tutta la vita di Maria la quale, da ora in poi si sentì attratta verso le cose del cielo.

Iniziò a frequentare il Catechismo in preparazione alla prima comunione con tanto desiderio di conoscere sempre di più Gesù la cui presenza sentiva nel suo cuore. E il 6 maggio 1927 lo ricevette con grande fervore e gioia.

A scuola fin dall'inizio dimostrò di essere intelligente, ordinata, disciplinata. Ben preso la maestra e i compagni cominciarono ad ammirare la sua capacità artistica. I disegni dell'alunna Bordoni venivano quasi sempre esposti nell'aula e nelle mostre scolastiche. La maestra conserverà una cinquantina dei suoi disegni a matita e a pastello. Anche i suoi componimenti erano molto apprezzati. Ce n’è uno su S. Francesco d'Assisi in cui esprime viva ammirazione per questo santo, il quale nonostante l'opposizione del padre, se n’era ad assistere i lebbrosi: questa scelta rimarrà scolpita profondamente nella memoria di Maria.

Nel giugno del 1930, Maria venne coinvolta nei problemi che sorsero in casa Bordoni, perché papà Rodrigo, nella speranza di un miglioramento economico familiare cambiò lavoro. Si licenziò dalle ferrovie e cercò di investire il ricavato della liquidazione ottenuta in varie forme che si rivelarono fallimentari . Fu un vero disastro!

Non restò che ritornare a Roma dopo dodici anni di permanenza a Genazzano. Maria, ormai quattordicenne, dovette separarsi da quel piccolo mondo, dalle sue amiche, dalla sua cara 'Madonna' del Buon Consiglio e anche dal benessere economico. A Roma andarono ad abitare con i nonni materni. Poi, dopo varie peregrinazioni e disagi, alloggiarono in un appartamento di via Principe Amedeo, nell'area parrocchiale di S.Eusebio all'Esquilino. Qui per aiutarsi a pagare l’affitto, subaffittarono una stanza sacrificandosi al massimo.

Appena  compiuti i 18 anni, Maria per aiutare la famiglia cominciò a lavorare, in qualità di commessa, in una Ditta di abbigliamento in via Carlo Alberto e iniziò anche a frequentare la Parrocchia di Sant'Eusebio dove era parroco, don Domenico Dottarelli, ottimo sacerdote sui 45 anni, ricco di intuizioni dottrinali, che realizzava insieme ai suoi viceparroci una intensa attività pastorale.

Fra le giovani dell'Azione Cattolica Maria si distingueva per la serietà e l’amore alla preghiera. ella però sentiva un grande bisogno di una direzione spirituale. Dopo un intenso periodo di preghiera allo Spirito Santo, scelse don Domenico Dottarelli, come suo Direttore Spirituale, gli affidò la sua anima, gli confidò, tremante e emozionata, il suo desiderio della vita religiosa e gli raccontò 'tutto ciò che le accadeva' da molto tempo. Il parroco la ascoltò attentamente e poi le dette per obbedienza di fare ogni giorno una bella passeggiata di un'ora; le chiese i suoi diari e la invitò a continuare a scrivere tutto ciò che le succedeva. Voleva vederci chiaro.

Maria gli aveva confidato: «Ho bisogno di slanciarmi verso Dio con tutta la mia anima e il mio cuore. Nei momenti di riposo dal lavoro godo di potermi unire a Gesù e tendere tutta l'anima mia verso di Lui. Io sento che soffro tanto perché Lui soffre». Dopo aver riflettuto e pregato a lungo il sacerdote finalmente il 21 gennaio 1936, consentì a Maria di emettere il voto privato di verginità.

Nel 1938 Maria entrò a far parte del gruppo parrocchiale "Anime Sacerdotali", fondata dallo stesso don Dottarelli, per sostenere il lavoro dei sacerdoti in cura d'anime. Lì trovò l'ideale e il tipo di vita che desiderava ardentemente: vivere in unione con Gesù Cristo Sommo ed Eterno Sacerdote.

Il 24 giugno 1938, Maria, nelle mani del suo direttore spirituale, emise il voto di vittima per i sacerdoti e le anime della sua parrocchia, e nel 1939 fece i voti perpetui di castità, povertà e obbedienza. Nel suo diario scrisse: « Finalmente mi sono legata a Gesù per sempre con i tre voti: ora Egli è tutto mio, io sono tutta sua, sono la sua piccola sposa; nessuno più mi potrà separare da Lui. O Amore, Amore infinito di Dio; come potrò lodarTi?... Mi sono legata a Te anche con il voto di “vittima”! Voglio soffrire, offrire senza lamentarmi per la conversione di tante anime, per il sacerdozio, per tutte quelle intenzioni che Tu sai, caro Gesù».

Nella devozione all’Eucaristia e a Gesù Sacerdote, trovava la spiegazione del suo vivere il Sacerdozio Battesimale; e alla luce del Mistero dell'Incarnazione scopriva con la Madre di Dio il segreto della propria oblazione sacerdotale. Chiedeva con viva fiducia e abbandono filiale alla Madre di Dio di poter partecipare al suo Amore per le anime e al suo Dolore per l'indifferenza degli uomini al Sacrificio del Figlio.

Considerava la partecipazione quotidiana alla celebrazione eucaristica l'atto più importante della giornata e della vita, da cui tutto acquista valore ed efficacia e si offriva a Dio, per la sua gloria, per la propria santificazione e per la salvezza del mondo.

Intanto don Dottarelli vegliava su questa figliuola così umile e scopriva pian piano nell'anima che gli si era affidata, l'azione straordinaria della Grazia, confermata dalle esperienze mistiche di Maria . A poco a poco attraverso attente e prudenti osservazioni riuscì a capire non solo le esigenze spirituali della figliuola, ma anche a scoprire la risposta ai suoi bisogni di apostolato e a percepire la guida materna della Madre di Dio.

Nella chiesa parrocchiale di San Eusebio, ai piedi dell'altare della Vergine Addolorata, Maria trascorreva lunghe ore in preghiera insieme alla Madre di Dio per la Chiesa, per la pace nel mondo, per la santità dei sacerdoti e per la conversione dei peccatori. Inoltre il 1° novembre, chiese esplicitamente al suo direttore spirituale di cominciare le opere di carità richiestele dalla Vergine Maria e cioè di avvicinare i piccoli e visitare i malati.

Il parroco confidava alla figliola di non sentirsi naturalmente portato verso i bambini e i malati, come invece chiedeva la Vergine; ma faceva del suo meglio per collaborare alla realizzazione di quel gran disegno. 

Maria parlava continuamente della Madre di Dio, testimoniava la fede nella sua presenza operante nel mondo e, mentre assimilava i desideri della sua celeste Maestra, accoglieva le ripetute predizioni di sofferenza come segni di garanzia e motivo di sostegno morale nel compimento della propria missione.

Il S. Rosario fu la preghiera con cui si pose alla scuola della Madonna: lo recitava, lo meditava, e scopriva che con esso entrava in intimità con la SS.ma Vergine. Ardeva dal desiderio di compiacere con i fatti la volontà della Madre divina, e finalmente fu convinta di compierla quando cominciò ad assistere i bimbi, progettando un asilo parrocchiale e altre opere di assistenza.

Nel 1951, la Provvidenza le fece trovare una casa a Castelgandolfo, dove furono ospitati più di cento bambini orfani e abbandonati. María lavorò a tempo pieno in questo centro insieme alle giovani che, attirate dal suo carisma, si unirono all'Opera chiamata poi “Mater Dei”. In pochi anni, su richiesta del clero italiano, furono aperti 15 centri di attività lavorative in diverse parrocchie. In tal modo i desideri della Madre di Dio sull'Opera furono esauditi.

Il periodo iniziale della “Piccola Opera Mater Dei” fu segnato da incomprensioni innumerevoli, da defezione dei membri, da solitudine, da grandi amarezze, tra le quali, pur soffrendo, Maria sperimentava una grande gioia nel sentirsi sempre più unita alla Croce del Signore. La sua vita personale era attiva, ma in piena e continua unione con Dio.

Sotto la guida illuminata di don Dottarelli scopriva e percorreva la via dell'abbandono a Dio e si sentiva chiamata ad essere "strumento nascosto" per la gloria di Dio e la santificazione delle anime specialmente quelle sacerdotali. La sua vita può essere definita come una vera liturgia di lode. Nel suo diario si legge: “La mia vita sarà un continuo ringraziamento, sempre benedicendo il Signore, in ogni momento, non solo con la mia bocca ma con tutto il mio cuore, con tutta la mia anima, con tutta la mia mente; in ogni azione, anche nelle minime cose, finché sarò su questa terra e poi perfettamente ed eternamente quando entrerò in cielo”. È nelle "piccole cose" che, per Maria Bordoni, la volontà di Dio deve essere scoperta e adempiuta.

La sua personalità religiosa si espresse pure nelle sue spiccate qualità artistiche: disegnava, dipingeva, e la sua arte esprimeva soprattutto una realtà-verità che sentiva profondamente: Maria è la Madre di Dio, la Madre del Verbo incarnato. Il Padre Spirituale fin dall'inizio le chiese di rappresentare col disegno la Madonna, così come lei la vedeva. Si conservano vari disegni della Bordoni che, con l'aiuto della Vergine stessa, come lei affermava, le sono riusciti molto belli ed espressivi.

Aveva una grande venerazione e rispetto per tutti in particolare per i sacerdoti, che spesso venivano a trovarla per ricevere consigli, conforto e aiuto per svolgere il loro ministero sacerdotale.

Maria Bordoni, fedele alla scuola della Madre di Dio, fece consistere l'esercizio virtuoso del Sacerdozio battesimale, nel 'saper soffrire' per amore, in conformità al Volere di Dio e in unione a Gesù sommo Sacerdote. E' proprio vivendo il suo essere cristiana, in Maria, con Maria, per Maria,  ella partecipava al carisma sacerdotale della Madre di Dio che è Madre del Sacerdozio.

I pensieri sacerdotali della Bordoni sono pratici, semplici, persuasivi e riguardano Gesù Sommo Sacerdote: l'Offerente, nostro Modello di vita e il Suo Amore;  e interessano anche la Madre del Verbo Incarnato: Madre, Maestra e Regina; si concretizzano nelle virtù sacerdotali: la fede, l'abbandono a Dio, l'umiltà, la fedeltà, il distacco, la mortificazione, la povertà di spirito; si manifestano nell'efficacia del sacrificio, inteso come perseverante cammino verso la perfezione e la santità.

La Bordoni paragonava questo modo di vivere al "buon lievito di cui parla Gesù, lievito che solleverà la massa uniforme e pesante del mondo, sommerso dall'indifferenza e dal gelo"... e aggiungeva che tale lievito non consiste "nelle aspirazioni del cuore, nelle promesse, nella preghiera e nella contemplazione, ma è là, dove l'anima che si è offerta si incontra con la vita quotidiana, con le circostanze belle o brutte, allegre o tediose, felici o tristi".

Chi si avvicinava a lei si accorgeva che era una persona limpida, tersa; in lei regnavano l'umiltà più genuina, la tenerezza, la comprensione, la pazienza e l'intuizione, il gusto delle cose belle, semplici, vere; in comunità amava vivere uno stile familiare, gioioso.

Il suo carisma sacerdotale traspare dai documenti epistolari e dalle disposizioni che le erano state impartite dall'obbedienza; non riceveva alcun sacerdote o religioso senza che questi fosse autorizzato dal suo Direttore. In varie occasioni si vedeva che la Provvidenza metteva sulla sua strada tanti sacerdoti, che versavano in situazioni gravi e delicate; ognuno deponeva la propria pena nel suo grande cuore conscendo la sua assoluta riservatezza. Qualcuno la considerò: 'tavola di salvataggio'.

La Piccola Opera era chiamata ad accogliere, custodire, diffondere una partecipazione diretta alla missione che la Madre dell'Eterno Sacerdote svolge nel mondo: "L'Opera da Me voluta diverrà grande e sarà sempre più curata e custodita dal Mio Cuore. Non temete ,Figliuoli!".

Il desiderio del cielo fu sempre ardente nello spirito della Bordoni; quando aveva già messo mano alla fondazione della Piccola Opera, una Voce le aveva detto che ella ne avrebbe visto solo gli inizi... e che, alla fine, una malattia l'avrebbe colpita e non si sarebbe più potuta muovere. Inizialmente infatti fu operata per fibromatosi uterina, poi per calcoli alla cistifellea; infine fu colpita da blocco midollare, da Sclerosi Laterale Amiotrofica e infine da degenerazione diffusa cervico-sacro lombare.

Durante la malattia era sempre presente a se stessa e dava molta importanza al valore dell'apostolato della sofferenza; quando perse l'uso della parola, scriveva piccoli messaggi alla comunità e agli amici che la visitavano. Dava esempio di grande pazienza, di sereno abbandono nelle mani di Dio, di attenzione e gratitudine verso le consorelle, specialmente quelle che l'assistevano e non si lamentava mai.

La mattina del 16 gennaio 1978, alle ore 7:45 dopo aver ricevuto l'assoluzione sacramentale e l'Eucaristia sotto le specie del vino, perché non poteva più deglutire, all’improvviso sopraggiunse una crisi cardio-circolatoria e ,mentre le consorelle le si avvicinavano per salutarla, esalò l’ultimo respiro.

Alle esequie, presiedute da mons. Gaetano Bonicelli, Vescovo di Albano e da mons. Dante Bernini, Vescovo di Velletri, concelebrarono una trentina di sacerdoti nella chiesa parrocchiale di S.Tommaso da Villanova di Castel Gandolfo. Tra di essi anche il fratello Mons. Marcello Bordoni, Docente di Cristologia alla Università Pontificia del Laterano.

un Pastore vittima d'amore.

Monsignor Fortunato Maria Farina:

Fortunato Maria Farina nacque l'8 marzo 1881 a Baronissi, in provincia di Salerno, da Francesco ed Enrichetta Amato.

La sua era una famiglia agiata appartenente alla borghesia salernitana già dalla fine del XVIII secolo e proprietaria di numerosi terreni nella piana di Eboli. Il nonno Mattia era stato deputato dal 1865 al 1876 anno in cui fu nominato senatore.  Ebbe un’educazione schiettamente cristiana sotto la guida amorosa della sua santa mamma.

Insieme al fratello Mattia, entrò nel 1888, nel collegio "Pontano" alla Conocchia di Napoli tenuto dai gesuiti, dove frequentò gli studi classici ginnasiali e liceali. L'influenza di questo ambiente sulle sue scelte future fu fondamentale. Dopo gli studi liceali, frequentò attivamente il circolo universitario fondato dal barone Luigi De Mattheis, vicepresidente dell'Opera dei congressi e successivamente primo presidente della FUCI (Federazione universitaria cattolica italiana).

Nel 1897 cominciò a delinearsi la sua vocazione al sacerdozio. Due avvenimenti lo persuasero che quella del sacerdozio era la strada da seguire: il XV° congresso cattolico di Milano, del settembre 1897, ed un successivo pellegrinaggio a Lourdes. 

Avrebbe voluto farsi gesuita, ma la sua salute cagionevole non glielo permise. Il 15 agosto 1898, all’età di diciassette anni vestì l’abito talare nella Chiesa parrocchiale di Baronissi ai piedi della Madonna, dalla quale-diceva–era stato abbracciato e liberato dal baratro in cui sarebbe potuto finire. Fu chierico esterno del seminario di Napoli sotto la direzione di un abile sacerdote, mons. Gioacchino Brandi, il quale seppe inculcargli un amore ardente per Gesù Eucaristia, una tenera devozione per la Vergine Maria e una grande stima per il sacerdozio.

Fu ordinato prete il 18 settembre 1904. In quel giorno scrisse nel suo diario: «V’amo, v’amo assai, o mio amato Signore, e d’ora in poi non avrà altra brama questo mio povero cuore se non d’amarvi e di fare quanto è in suo potere affinché siate amato da tutti…io mi offro a voi vittima volontaria per la santificazione del clero, per la salvezza delle anime; vittima senza riserva e senza restrizione di sorta; immolatemi e sacrificatemi come meglio vi aggrada, come a voi meglio piace. le vittime devono essere pure, è vero, io sono invece un immondo e miserabile peccatore. Supplisca la vostra misericordia infinita a tutto quello che manca in me. V’amo assai, o per lo meno, vorrei sapervi amare assai, o mio dolce Signore Gesù, e vorrei saper condurre a voi anime senza numero! Mia carissima e santa Madre Maria, voi lo sapete, a voi devo, dopo Dio, se invece di ardere nell’inferno mi trovo ora sacerdote; a voi subito dopo la mia ordinazione ho affidato la mia vita sacerdotale, siatemi adunque sempre madre, come tale mi foste sempre per il passato, a voi interamente mi affido: non mi abbandonate, copritemi sempre con il vostro manto, fatemi santo».

Dopo l’ordinazione svolse  il suo ministero  principalmente fra Napoli, dove frequentava la facoltà di lettere, e Salerno. Qui nel 1906, costituì il circolo diocesano dell'Unione Apostolica del clero, un’istituzione già fiorente in numerose diocesi del Centronord e che tanto bene ha fatto ai sacerdoti e alla Chiesa ma quasi sconosciuta nel Mezzogiorno.

Nel 1909 fondò il Circolo Giovanile Cattolico Salernitano.

Dimorava abitualmente a Napoli per completare gli studi, ma il sabato e la domenica si recava sempre a Salerno dove guidava le attività spirituali e culturali del circolo. Con il volto sempre ilare e dolce avvicinava i giovani e cercava di guadagnarne il cuore. Al suo fianco essi crescevano con il sorriso sul viso e con la pace nel cuore. Da questo Circolo Giovanile Cattolico Salernitano, nel cui seno fioriva la Congregazione mariana, e guidato con successo per dieci anni dal suo fondatore sono usciti dieci sacerdoti dal 1909 al 1919.

Intanto l'arcivescovo di Salerno, il benedettino Carlo Gregorio Maria Grasso, apprezzandone le doti di uomo e di sacerdote, lo nominò ben presto direttore spirituale del seminario diocesano. Don Fortunato non era nuovo a tale tipo di incarico perché, al momento della nomina, guidava già come direttore spirituale i seminaristi benedettini di Cava dei Tirreni. Nonostante questi impegni, non smise di occuparsi del circolo giovanile di Salerno, dal quale si dovette però distaccare dopo la nomina a Vescovo.

Ma dove trovava la forza per svolgere tutte queste attività? Dalle lunghe ore sia diurne che notturne passate in preghiera davanti a Gesù Sacramentato. Sì, perché don Fortunato era prima di tutto e soprattutto un uomo di preghiera. Le sue intuizioni e le sue iniziative le presentava il Signore e poi le metteva con fiducia nelle mani di Maria, che sapeva essere mani buonissime, perché mani di una mamma. Lì tornava spesso durante il giorno per brevi visite momentanee, per aprire o rileggere certe lettere che gli recavano angustie e preoccupazioni, lì andava a maturare i suoi piani di apostolato.  Quanti hanno avuto la fortuna di conoscerlo più da vicino si sono formati la convinzione profonda che in lui ci fosse una pietà sacerdotale straordinaria e una vita interiore fuori del comune, anzi che “una Presenza misteriosa operava in lui e per mezzo di lui”.

Nonostante le sue ripetute rinunzie, il 21 giugno 1919, all’età di 38 anni, fu eletto Vescovo di Troia e il 10 agosto successivo venne consacrato a Roma dal cardinale De Lai nella chiesa di S. Carlo ai Catinari.

Fece il suo ingresso a Troia il 30 novembre del 1919. La cittadina pugliese lo accolse con grande gioia.

Il neo Vescovo, ricco dell'esperienza di Salerno nel campo giovanile, si diede subito a riorganizzare le fila dell'Azione cattolica, che da qualche anno aveva perso alquanto la propria identità. Dal 24 luglio al 1° agosto 1920, organizzò a Troia la settimana religioso-sociale dei giovani cattolici di Capitanata e fondò successivamente il circolo giovanile "S. Anastasio".

Ebbe, inoltre, molta cura dei suoi sacerdoti e in modo particolare dei seminaristi. Ristrutturò e dotò di rendite più sicure il seminario diocesano, che al suo arrivo aveva trovato in condizioni pietose.

Il 18 dicembre 1924 venne destinato alla diocesi di Foggia, ma non lasciò quella di Troia: la S. Sede aveva infatti deciso di unire in una sola persona le due diocesi senza intaccare la loro reciproca autonomia. Quanto questa nomina fosse stata gradita ai foggiani lo si può dedurre da quanto scrisse il procuratore generale del re a Foggia il 5 dicembre 1925 al ministero di Grazia e Giustizia: « La scelta dell'autorità ecclesiastica non poteva cadere su persona più degna e la sua nomina è stata appresa con viva simpatia dalla parte migliore di questa cittadinanza, che molto si ripromette dal nuovo presule. Ma accanto al plauso incondizionato di Foggia festante, permane irriducibile il dissenso della diocesi di Troia, di cui le vibrate note delle autorità locali, mi danno ancora una volta conferma". Il giovane Vescovo era stato infatti accusato dal Comune di Troia di aver voluto e appoggiato quella decisione che preludeva certamente ad un prossimo inglobamento della loro diocesi in quella di Foggia.

L’assenso dell’Autorità Civile agli atti della Santa Sede, necessario in quegli anni e poi abolito con il Concordato del 1929, tardò a venire e solo il 22 marzo1926 Sua Eccellenza, mons. Fortunato Maria Farina, poté fare il suo ingresso nel capoluogo dauno.

Appena entrato ufficialmente a Foggia, come primo atto dovette affrontare il restauro della Cattedrale, colpita rovinosamente da un fulmine. Quest’opera non solo rese la Cattedrale più bella e più ricca di prima ma diede vita al grande risveglio religioso che Mons. Farina seppe suscitare con la sua attività pastorale.

Anche qui, come a Troia per prima cosa diede nuovo impulso all’Azione cattolica. Organizzò il Congresso Francescano nella ricorrenza del 7° centenario della morte di S. Francesco. Nel 1931, il secondo centenario dell’apparizione della Madonna dei Sette Veli, fu celebrato con grande solennità.

Negli anni trenta promosse e animò col suo zelo e con la collaborazione del suo segretario D. Michele Scotto l’istituzione di due Opere, quella di “S. Pietro Canisio”, finalizzata alla preservazione della Fede cattolica minacciata dalla propaganda protestante, e quella di “S. Francesco Regis”, intesa a promuovere tante coppie, sposate solo civilmente, alla celebrazione del Sacramento del Matrimonio.

In quello stesso anno richiamò a Foggia le Monache Redentoriste, volendo ridare vita all’antica comunità religiosa di Sr. Maria Celeste Crostarosa, anche se non poté vederne realizzato il monastero.

Fu sua grande preoccupazione assicurare l’assistenza religiosa alle zone nuove di Foggia e così fece realizzare la grande Opera S. Michele; restituì ai Frati Minori la Chiesa di Gesù e Maria; affidò ai Padri Cappuccini la chiesa di S. Anna, eretta a Parrocchia. Riedificò su Viale XXIV Maggio l’antica chiesa di S. Maria della Croce, demolita per far sorgere il Palazzo degli Uffici Statali e la elevò a Parrocchia, per assicurare il servizio religioso al quartiere della Stazione.

Affidò il Santuario dell’Incoronata ai Padri di Don Orione con l’impegno di assicurare anche il servizio religioso al vicino Centro Agricolo; a Segezia eresse la chiesa dedicata alla Madonna di Fatima e a S. Marco in Lamis, le Parrocchie di S. Maria delle Grazie, dell’Addolorata, di S. Giuseppe e a Borgo Celano quella della Madonna di Lourdes.

Nel suo lungo ministero pastorale mostrò particolare cura per il Seminario (quello di Troia, dove venivano formati insieme i seminaristi delle due Diocesi). Aveva tanta sensibilità per i seminaristi, che spesso aiutava anche economicamente, persuaso che l’occupazione più santa, più doverosa e più gradita a Dio è appunto l’opera delle vocazioni al Sacerdozio. Numerosi furono i giovani, che attirati dal suo esempio, divennero sacerdoti durante il suo lungo episcopato.

Nel 1937, per munificenza della N.D. Adele Anglisani, fu realizzato il “Piccolo Seminario”, che Mons. Farina affidò alle cure delle Suore Oblate del S. Cuore di Gesù, perché educassero e custodissero con amore i bambini nei quali il Signore poteva aver deposto il seme della vocazione al Sacerdozio.

Durante il suo ministero pastorale, curò anche la realizzazione di opere sociali, come la “Fondazione M. Grazia Barone” e l’Ospedale Psichiatrico “Casa della Divina Provvidenza” in Foggia e l’Opera Pia “Gravina” a S. Marco in Lamis. Durante la guerra fece tutto quello che era in suo potere per aiutare la popolazione e nel periodo post-bellico, organizzò attività assistenziali per i foggiani sinistrati a causa dei bombardamenti e si interessò alla ricostruzione della Città.

Una realizzazione importante nel suo lungo episcopato fu l'istituzione, negli anni Trenta, di un'opera per la santificazione del clero: la Santa Milizia. Per quest’opera oltre che dalla sua alta stima per il Sacerdozio e dal suo amore sincero per i suoi sacerdoti, che ci teneva ad incontrare sempre personalmente e a cui offriva continuamente stimoli per verificarsi sulle loro condizioni spirituali, trasse ispirazione dallo spirito che animava la Madre Teresa Casini (oggi Beata), la quale aveva dato vita all’Istituto delle suore Oblate del Sacro cuore di Gesù, il cui carisma era ed è la preghiera e la riparazione per la santità dei Sacerdoti. Alle figlie di madre Casini infatti affidò la gestione della casa “Santa Milizia” a Troia e la casa del clero di Foggia e per molti anni ci fu una fruttuosa collaborazione tra i sacerdoti che vi abitavano o che capitavano lì spesso e le suore.

Importante fu anche l'istituzione di un seminario comboniano a Troia, inaugurato ufficialmente il 30 maggio 1933, ma operante già dal 1927.

Di questo grande Pastore possiamo ammirare la realizzazione di tante opere, ma l’opera veramente grande della sua vita fu la sua costante aspirazione alla santità. Nel suo diario alla data del 29 luglio 1919 leggiamo: «Non posso presumere di farmi santo operando cose grandi e straordinarie, ma con la costante fedeltà nelle piccole cose, compiendo con la maggior perfezione il mio dovere di momento in momento: la caratteristica della mia perfezione sarà la fedeltà nelle piccole cose». La sua offerta come “vittima volontaria per la santificazione del clero, per la salvezza delle anime, vittima senza riserva e senza restrizione di sorta” fatta nel giorno della sua ordinazione sacerdotale si consumava così giorno per giorno nel compimento del suo dovere di pastore innamorato che “respirava Dio e traspirava Dio”. Ebbe però il suo culmine negli ultimi anni della sua vita, che furono contrassegnati da grandi sofferenze, provocate dalla sua salute fisica, ma anche da alcune critiche e contrasti da parte di qualche sacerdote.

Nel suo diario, tra i propositi scritti durante gli Esercizi spirituali, fatti a Roma dal 19 al 28 agosto 1948, si legge: «Fa’ il bene e non curarti se proprio per questo si dice male di te: torna a fare il bene e benedici coloro che ti calunniano. Ma non aspettare che essi si ricredano o ritirino i loro oltraggi. “Patire e morire”. E’ la nostra ricompensa. La prova della maldicenza è una specie di battesimo del fuoco per il cristiano: non si è certi di essere veramente tali senza averla subita. Fare il bene e lasciare che ci si insulti è atteggiamento veramente regale».

La sera del 20 febbraio 1954, a 73 anni di età, 50 di sacerdozio e 34 di episcopato serenamente si addormentò nel Signore.

Le sue spoglie mortali riposano nella Cattedrale di Foggia sotto lo sguardo materno della Madonna dei sette Veli. La sua memoria è in benedizione.

Il Signore ci conceda ancora numerosi sacerdoti come Monsignor Fortunato Maria Farina.

Chi ha mani innocenti e cuore puro.

Chi salirà il monte del Signore?

suor Maria Tranquilla Di Pirro

All’Ufficio Anagrafe del Comune di Pescasseroli e al fonte battesimale della Parrocchia dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, alla neonata dei coniugi Luigi Di Pirro e Benedetta Costrini furono imposti tre nomi: “ANNA TRANQUILLA DONATA”. Era il 20 maggio 1896. Data di nascita e di battesimo.

In famiglia la chiamarono semplicemente: “TRANQUILLA”.

Il “monte Tranquillo” è un monte alto duemila metri, che domina la cittadina abruzzese di Pescasseroli. Dalla sua sommità si possono ammirare i monti circostanti, le belle vallate e i paesi vicini. Un panorama incantevole! Lassù si gode una tranquillità immensa, che distende lo spirito e lo eleva al Creatore dell’universo. Forse per questo dagli antichi venne denominato “Monte Tranquillo”.

Sulla vetta c’è un Santuario dedicato alla “MADONNA DEL MONTE TRANQUILLO”, la cui statua lignea, dal viso bruno, con il Bambino Gesù fra le braccia, è adagiata sul tronco di un albero secolare. Tante generazioni susseguitesi nel tempo non hanno tramandato la storia ma ne hanno tramandato la devozione per le tante grazie ricevute.

Dinanzi al Santuario un ampio piazzale accoglie gli abitanti di Pescasseroli, che fanno festa alla loro Madonna il 21 luglio. D’inverno però la statua viene portata alla Chiesa parrocchiale, quasi a volerla proteggere dal freddo, e per poter continuare a offrirle gli omaggi di devozione senza difficoltà durante i lunghi mesi invernali in cui il “Tranquillo”si ricopre di candida neve, che lo rende stupendo ma difficilmente praticabile.

Tranquilla Di Pirro nacque in una famiglia onesta, laboriosa e religiosa.

Il papà esercitava il mestiere di “arcaro”, cioè era specializzato in lavori di falegnameria ad arco: sia di mobili che di arnesi agricoli. Quando tale genere di lavoro veniva a mancare, si adattava a fare qualsiasi altro lavoro. In tal modo procurava alla sua famiglia un tenore di vita agiato e sereno.

La mamma era casalinga. Il tempo libero dalle faccende domestiche lo impiegava filando la lana per gli indumenti invernali dei propri cari e per eseguire i magnifici e famosi lavori abruzzesi, specie coperte e tappeti, che poi vendeva.

I due coniugi, dopo un anno di matrimonio, furono allietati dalla nascita della primogenita “Maria Carmela Giuliana”, poi dalla piccola “Tranquilla”, seguita da altre sorelle e fratelli.

Il 23 settembre 1896 ci fu un avvenimento importante a Pescasseroli: il Vescovo della Diocesi di Pescina, a cui Pescasseroli appartiene, si recò là per la visita pastorale. A quel tempo viaggiare fra quelle montagne per raggiungere i paesi dislocati fra di esse era difficile, soprattutto nella stagione invernale in cui la neve rendeva difficile ogni movimento. Le distanze erano considerate notevoli per mancanza di mezzi di trasporto celeri ed efficienti, pertanto il Vescovo poteva visitare la sua diocesi non troppo spesso.

I cittadini allora, quando si presentava l’occasione, approfittavano per fare amministrare il Sacramento della Cresima ai loro figli, senza distinzione di età. Nel gruppo dei cresimandi quel giorno c’era Benedetta Di Pirro che aveva la piccola Tranquilla fra le braccia, e la primogenita Maria Carmela Giuliana, di cinque anni, per mano. Tranquilla aveva appena quattro mesi!

La bimba cresceva. Era serena, sorridente, amabile. Riusciva a farsi volere bene da tutti, non solo dai familiari ma anche dai vicini di casa.

Quando ebbe sei anni, Tranquilla iniziò la sua vita di scolara, affrontando il primo duro sacrificio: uscire di casa la mattina presto per frequentare la Scuola Elementare. Fuori faceva tanto freddo e spesso la neve copriva l’acciottolato, che il freddo intenso rendeva ghiacciato. Sarebbe voluta rimanere al calduccio di casa, vicino al focolare, ma la mamma non si lasciava commuovere dalle sue proteste: esigeva che la figlia imparasse ad affrontare le situazioni della vita senza tirarsi indietro di fronte alle difficoltà.

A scuola Tranquilla si distingueva per l’attenzione alle spiegazioni dell’insegnante e per la sua diligenza nei compiti pomeridiani. Una sua compagna di classe afferma: “Tranquilla aveva un carattere pacifico ed era molto buona con tutti”.

Incoraggiata dalla mamma, cominciò a frequentare anche la Parrocchia e si iscrisse al pio Sodalizio delle “Figlie di Maria”. Era assidua, e seguiva con docilità gli insegnamenti del Parroco Don Carlo Quintiliani.

Giuliana, sua sorella maggiore, aveva conosciuto le Suore Oblate del Sacro Cuore di Gesù, le quali nel vicino paese di Barrea gestivano l’Asilo Infantile e il laboratorio per le ragazze e aveva chiesto di entrare a far parte di quell’Istituto. Fu accolta e partì per Roma, il 3 gennaio 1917.

Tranquilla soffrì tanto per questo distacco dalla sorella ma seppe soffrire in silenzio. Continuò a frequentare assiduamente la Parrocchia, imparò a conoscere e ad amare Gesù, a pregare e ad essere sempre attenta ai bisogni degli altri. Il Signore trovò nel suo animo un terreno fertile e vi depose il germe della vocazione religiosa.

Quattro anni dopo la partenza di Giuliana, alla fine di febbraio del 1921, anche Tranquilla lasciò i suoi genitori, la sua famiglia, il suo paese natìo, e partì per Roma, diretta al Castelletto Medici -Viale Aurelio n°2, per diventare religiosa nell’Istituto delle Suore Oblate del Sacro Cuore di Gesù, di cui già faceva parte la sorella Giuliana.

Aveva 25 anni ed era consapevole che dire di sì al Signore significa impegnarsi ad amare tutti i giorni della vita.

Fu accolta maternamente dalla Madre Teresa Casini, Superiora e Fondatrice dell’Istituto, la quale subito intravide in lei un’anima semplice e generosa, capace di diventare un’Oblata secondo i desideri del Cuore di Gesù e da altre otto ragazze che si preparavano a diventare Oblate e, insieme a loro, percorse il suo cammino di postulantato e di noviziato.

Tranquilla consegnò alla Madre i certificati di Battesimo e Cresima richiesti dall’Istituto, e insieme una nota del suo Parroco: “CERTIFICO CHE LA SULLODATA GIOVANE HA TENUTO SEMPRE OTTIMA CONDOTTA, IRREPRENSIBILE SOTTO OGNI RIGUARDO”.

In fede.

Pescasseroli, 24 febbraio 1921

Don Carlo Quintiliani – Parroco

Da parte del Sacerdote questa fu la presentazione sincera della sua giovane parrocchiana alla Famiglia Religiosa, che la riceveva fra i suoi membri.

Quando Tranquilla entrò nell’Istituto, era una bella ragazza bionda, non molto alta, piuttosto rotondetta, con occhi celesti, limpidi, che rispecchiavano il sereno e puro cielo abruzzese, ma il suo colorito rivelava una salute non florida .

La Madre Teresa le voleva molto bene, ed ella le affidò la sua anima, desiderosa di imparare da lei ad amare il Sacro Cuore di Gesù e a diventare vera Oblata, offerta con Gesù al Padre per la santificazione dei Sacerdoti. Di indole mite, calma, umile, corrispondeva e seguiva le direttive della Madre con semplicità, fervore e costanza. Con le consorelle era gentile, gioviale, umile. Avvicinava tutte e stimava tutte, trattando ciascuna con rispetto e carità. Si distingueva, soprattutto, nell’obbedienza, avendo davanti al suo sguardo Gesù che “ per noi si è fatto obbediente fino alla morte e alla morte di croce”. Viveva nella povertà assoluta, accontentandosi di tutto, senza pretese e ponendo la sua fiducia interamente in Dio. Nutriva un grande amore per il silenzio, la preghiera, e soprattutto per l’adorazione al Santissimo Sacramento. Se le fosse stato permesso, avrebbe passato il giorno e la notte ai piedi di Gesù Eucaristia, tanto grande era il suo desiderio di essere vicino all’unico oggetto del suo amore.

In pochissimo tempo raggiunse una profonda vita interiore.

Una delle sue connovizie racconta: “La Maestra delle Novizie a volte ci accompagnava, la mattina presto, a fare delle passeggiate. Un giorno, passando dinanzi al Cimitero, ci fece fermare per una preghiera in suffragio ai defunti. Il cancello era ancora chiuso; ci riunimmo dinanzi al cancello e pregammo. Quando riprendemmo il cammino, Suor M. Tranquilla disse: “Vogliamo fare la conta per sapere chi di noi morirà per prima?” Accettammo. Con nostra sorpresa la sorte cadde proprio su di lei. Ripetemmo la conta altre due volte: il risultato fu lo stesso. Allora ella disse: “Giacché sarò io la prima a morire, mi devo preparare per andare incontro allo Sposo con gioia e gratitudine”.

Il 30 maggio 1923, con una funzione liturgica molto semplice, ma intensa di spiritualità, Suor M. Tranquilla insieme alle altre novizie, emise la sua Professione religiosa per un anno.

Durante il breve tempo della sua vita religiosa, fece lavori casalinghi, i più vari. La Madre aveva l’abitudine di cambiare molto spesso gli incarichi alle novizie, in maniera tale da renderle idonee a disimpegnare ogni ufficio e, nello stesso tempo, studiava le particolari attitudini di ognuna.

Suor M. Tranquilla lavorava con impegno e serietà ma serbava nel cuore una profonda pena, che condivideva soltanto con la Madre Teresa: sua sorella, Suor M. Giuliana, non mostrava di essere un’Oblata fervente, e non corrispondeva ai desideri del Sacro Cuore di Gesù. Ella aveva un bel personale, era robusta, attiva, intelligente, ricamava molto bene, ma aveva un carattere spigoloso. Eccessivamente suscettibile, non trovava nella vita comune il clima adatto alla sua personalità.

Questo faceva stare molto male la povera Tranquilla che avrebbe voluto fare chissà che cosa, purché la sorella diventasse un’Oblata autentica, ma non poteva fare altro che pregare e lo faceva con tutto il cuore.

Erano passati alcuni mesi dalla professione religiosa, quando suor M. Tranquilla cominciò ad avere una tosse secca e stizzosa, che l’assaliva spesso.

La Madre Teresa impensierita, chiamò il medico. La diagnosi fu infausta: la suora aveva contratto il male del secolo, cioè la tubercolosi. La Madre allora la fece partire subito per Grottaferrata, sperando che l’aria, migliore di quella di Roma, potesse giovarle. Andava spesso a farle visita e la malata era molto contenta di rivederla e di aprirle ogni volta il proprio cuore. Da quegli incontri infatti riceveva conforto e incoraggiamento e il soffrire le diventava meno pesante.

Erano gli anni in cui nell’Istituto si cominciava a dar vita ai Collegi dei “Piccoli Amici di Gesù”, il cui scopo era scoprire nei ragazzi ospitati il germe della vocazione al Sacerdozio e innamorarli di Gesù. Lo sviluppo di quest’opera veniva seguito con interesse da tutte le Suore Oblate. Chissà quante volte la Madre Teresa avrà raccomandato a Suor M. Tranquilla di pregare e di offrire al Signore le sue sofferenze per la buona riuscita della nuova Opera!

Infatti, appena tre anni dopo la sua morte, il primo gruppo di ragazzi era già pronto per entrare in Seminario a Frascati. Erano in otto. Di questi, quattro raggiunsero il Sacerdozio: Don Cosimo Petino, Don Arturo Lovelli, Don Fausto Marini, Don Armando Trisinni.

Possiamo pensare che le preghiere e le sofferenze di Suor M. Tranquilla abbiano contribuito ad ottenere ad essi la grazia della fedeltà alla vocazione, e a dare coraggio all’Istituto per continuare con fiducia l’attività iniziata a bene della Chiesa.

Nel gennaio 1924 Suor M. Tranquilla, costatando che la sua vita terrena volgeva al termine, chiese ed ottenne dalla Madre Teresa di poter emettere la Professione religiosa perpetua. Le fu accordato. Il suo letto allora divenne simbolicamente un altare dove una giovane vita si immolava e si spegneva in olocausto allo Sposo Divino.

La sua gioia fu completa.

Il 23 gennaio 1924 Suor M. Tranquilla, circondata dall’affetto e dalle preghiere delle sue consorelle, con la serenità con cui era vissuta andò incontro al suo Signore. E fu veramente la prima di quel del gruppo di novizie a raggiungere la Patria Celeste.

Non aveva ancora compiuto 28 anni!

Nella cartella di Suor M. Tranquilla, conservata nella Segreteria Generale dell’Istituto, c’è una sua fotografia, in formato cartolina, sul retro della quale, dopo la sua morte, la Madre Teresa scrisse: “Mia cara figlia, Ora che stai vicino al Cuore di Gesù, che tu tanto amavi e per Suo amore hai sempre saputo soffrire in silenzio e con gioia, prega per me e per tua sorella, affinché vincendo se stessa, faccia trionfare l’amore verso il suo Dio. La Madre “

Tutto solo per Gesù :

Venerabile Bruno Marchesini

In occasione della festa della Madonna della Fiducia, il 24 febbraio 2001, nella sua visita al Seminario Romano Maggiore, san Giovanni Paolo II, invitò tutti i seminaristi alla santità, additando come esempio il seminarista Bruno Marchesini, da poco dichiarato Venerabile.

Chi era questo giovane, che poteva diventare modello per altri giovani che si stavano preparando al Sacerdozio?

E’ presto detto: un santo.

Egli aveva detto a se stesso: “Voglio essere santo, presto santo, grande santo!“ Ma chi è un santo?

Un giorno Gesù ebbe a dire: «Non chi dice "Signore, Signore", ma chi fa la volontà del Padre mio, che è nei cieli, costui è per me fratello, sorella e madre». E Bruno Marchesini è stato uno che ha saputo fare la volontà del Padre che è nei cieli.

Era nato a Bagno di Piano, piccolo borgo in provincia di Bologna, l’8 agosto 1915, da una famiglia povera di beni ma ricca di bene e di virtù. Aveva imparato presto che l’amore è sinonimo di sacrificio e di dedizione agli altri. Quando era ancora bambino, il card. Mario Nasalli Rocca, arcivescovo della sua diocesi, andò in visita pastorale nella sua parrocchia, notando questo ragazzino così sveglio, gli domandò: «Vuoi farti prete?». La risposta fu immediata e ripetuta: «Sì, sì!».

Iniziò allora il suo percorso di formazione al Seminario diocesano di Bologna, dove la Provvidenza gli fece incontrare come padre spirituale mons. Cesare Sarti, sacerdote virtuoso e illuminato, che lo aiutò a capire che, se si vuole davvero conoscere Gesù, bisogna pregare molto.

Bruno seguiva con gioia e impegno i suggerimenti di mons. Sarti e pregava con tutto lo slancio del suo cuore di adolescente.

Dopo gli studi ginnasiali, nei quali si rivelò brillante, gli venne assegnato, per concorso, un posto nel Seminario Romano Minore dove avrebbe compiuto gli studi liceali e poi sarebbe potuto passare al Seminario Maggiore per i due anni di Filosofia e i primi due anni di Teologia.

I suoi compagni di Seminario, di cui uno ancora vivente (mons. Salvatore Paisano), lo ricordano come un giovane allegro, sereno, amabile, sempre attento agli altri e, pur essendo dotato e ricco di calda umanità, molto umile. Lo si vedeva spesso in cappella in ginocchio davanti a Gesù Eucaristia. Nella sua vita, ancora così giovane, si vedeva un indirizzo unico: la conformità a Gesù, Sacerdote e Ostia.

Nel suo diario Bruno scriveva: «Gesù, fammi presto sacerdote santo, oppure chiamami a te»; «Gesù, se mi vuoi sacerdote, lo voglio anch’io; se mi vuoi prendere a te prima, sia tutto secondo la tua volontà». Il suo motto era: «Tutto, sempre e solo per Gesù».

Negli anni in cui studiò Teologia, dopo la partecipazione alla Santa Messa e la preghiera comunitaria e personale, lo studio diventò l’impegno più importante della sua giornata: voleva conoscere Dio, Gesù, il Vangelo per poter poi vivere il suo Sacerdozio solo per la gloria di Dio e la salvezza delle anime.

Sarebbe diventato un sacerdote meraviglioso, ma il Signore la pensava diversamente.

Nella Notte  del Natale 1937, Bruno aveva fatto a Gesù l’offerta della sua giovinezza: «Gesù – così aveva scritto nel suo diario – prendimi, piuttosto che permettere alla mia anima di macchiarsi con la minima colpa volontaria. Rendimi sacerdote santo, oppure chiamami a te. Dammi il martirio del cuore e quello del corpo: o meglio, dammeli tutti e due».

Il Signore lo prese in parola.

Nel maggio 1938 lo colpì una grave forma di meningite. Rientrò in famiglia, dove si fece di tutto per strapparlo alla morte. Mentre tutti trepidavano per la sua vita, Bruno rimaneva calmo e lieto; si preoccupava soltanto di mantenere la parola data a Gesù e di soffrire per Lui e con Lui.

Quando i familiari si resero conto che le cose erano davvero a un punto di non ritorno, avvisarono mons. Pier Carlo Landucci, suo direttore spirituale al Seminario Romano. Egli arrivò subito e, vedendo che Bruno era proprio alla fine, lo preparò al grande passo amministrandogli gli ultimi sacramenti: la Confessione, l’Eucaristia e l’Unzione degli infermi e poi gli disse: «Prega per i tuoi compagni, affinché diventino sacerdoti santi».

Bruno si illuminò di uno splendido sorriso e con una voce, che era poco più che un sussurro, rispose: «Sì, padre, santi e bravi». Poi mons. Landucci gli propose di offrire la sua vita in olocausto: «affinché il Signore renda il Seminario Romano un giardino di santità e di sapienza sacerdotale». Egli accettò con gioia la proposta e si offrì al Signore per i suoi compagni.

Negli ultimi istanti della sua vita sulle sue labbra c’era un’unica invocazione: «Mater mea, fiducia mea».

E la Madonna della Fiducia, che lui aveva tanto amata e venerata nel Seminario Romano, gli aprì le porte del cielo a soli ventitré anni il giorno 29 luglio 1938.

Il Signore ci conceda tante anime così generose, che splendano come luci sulla nostra via e ci guidino al cielo.

con Gesù sul Calvario

Vittima d'immolazione

Un antico adagio recita: “Fa più rumore un albero che cade anziché una foresta che cresce”. E’ proprio vero!

Al giorno d’oggi i mezzi di comunicazione sociale, pescando spesso e volentieri nel torbido del passato e del presente, rivelano un malcelato gusto nel mettere alla gogna il più possibile la figura del sacerdote. Puntano il dito contro i sacerdoti pedofili, contro i sacerdoti omosessuali, contro i sacerdoti carrieristi, contro i sacerdoti avari, contro i sacerdoti strani, contro i sacerdoti…purché sia contro e non si accorgono quasi mai di quanti sacerdoti santi vivono quotidianamente la loro dedizione al Signore e ai fratelli per amore, con amore e senza mettersi in mostra.

E’ di uno di quest’ultimi che oggi vogliamo mettere in risalto la figura: don Antonio Loi.

Antonio nacque il 6 dicembre 1936 da Salvatore Loi e Greca Furcas a Decimoputzu, un piccolo paese in provincia di Cagliari. Fu battezzato l’8 dicembre, festa dell’Immacolata Concezione di Maria, dal Sac. Emanuele Meloni, e gli fu imposto il nome di Antonio Giuseppe Salvatore.

Da ragazzo frequentò la scuola elementare del paese, situata dirimpetto alla Chiesa Parrocchiale, dove ogni tanto si recava per fare qualche visita a Gesù Sacramentato.

Ricevette la sua Prima Comunione il 10 maggio 1945. Nello stesso anno, il 1° dicembre, ricevette la Santa Cresima dalle mani di monsignor Piovella, Arcivescovo di Cagliari. Dopo la Prima Comunione Antonio chiese al Parroco don Deidda di poter entrare a far parte del gruppo dei chierichetti. Fu accolto con piacere e ben presto si distinse per zelo e compostezza, divenendo un esempio per il resto dei ragazzi. Per attrarre anche altri ragazzi un po’ refrattari alla Chiesa prometteva loro una partita a calcio, una volta terminato il servizio all’altare.

Quando frequentava la quarta classe elementare sentì il desiderio di farsi sacerdote. Egli stesso racconta «Quando frequentavo la scuola elementare sentii proprio il desiderio di diventare Sacerdote. Ogni giorno allora sentivo il desiderio di andare in Chiesa per qualche minuto, assistevo alla Messa prima di andare a scuola. Questo venne appreso dalla maestra e dagli scolari che in seguito mi deridevano. Ma io sentivo questo desiderio e non ascoltai mai le loro derisioni».

Manifestò questa sua aspirazione in famiglia e i genitori appoggiarono la decisione di Antonio e assieme al Parroco si presentarono al Seminario di Cagliari. Qui il ragazzo non venne accettato, perché non aveva sostenuto l’esame di ammissione alla scuola media e gli fu detto di ritornare l’anno successivo. La delusione di Antonio fu cocente! Non riusciva a darsi pace. Un giorno un caro amico di famiglia, Annio Caboni, che lo conosceva da quando era piccolino, capì che qualcosa lo turbava e, saputone il motivo, ne parlò ad suo amico: monsignor Melis, che allora era rettore del Seminario di Iglesias. Dopo il colloquio con monsignor Melis fu deciso che Antonio avrebbe iniziato il seminario a Iglesias, anche senza l’esame di ammissione, e nel frattempo si sarebbe preparato per sostenerlo; cosa che fece con l'aiuto della sorella di Annio Caboni. Il sorriso allora ricomparve sul viso di Antonio.

Nell’ottobre del 1952 divenne Rettore del Seminario di Iglesias Padre Nicola Abbo. Sotto l’influsso di questo grande innamorato della Madonna, Antonio consolidò la sua devozione alla Madre di Dio.

Il tempo della scuola media e del ginnasio trascorse sereno per il giovane, che procedeva lieto nel cammino verso il Sacerdozio. Nell’ottobre del 1954 fu mandato per gli studi di teologia al Seminario Maggiore di Cuglieri, intitolato al Sacro Cuore di Gesù, la direzione del quale era affidata ai Padri Gesuiti.

Il tempo in seminario scorreva velocemente, ritmato dai vari impegni. Antonio da subito si ambientò e si applicò con serietà allo studio in cui riportò ottimi risultati. Venne notato anche per la sua bella voce. Le lunghe passeggiate per il piccolo paese e lo sport rivestivano un ruolo importante nella vita del seminario, perché servivano da distensione nelle ore pomeridiane; ma c’erano anche giorni in cui si organizzavano e si disputavano le “olimpiadi”. In quella occasione i seminaristi si sfidavano con grandi gare su vari sport. Antonio praticava lo sport con passione. I compagni ne parlano ancora con entusiasmo. Nel 1957 riportò il massimo nelle gare di salto in alto (m.1,60). Nel salto in lungo però Efisio Spettu riuscì a batterlo segnando m. 5,42 mentre lui aveva segnato m. 5,40. Fu l'unica volta che perse il record.

«Seguire Cristo e formare agli stessi sentimenti del Suo Cuore» era il riassunto della formazione Cuglieritana. Avere quello stesso cuore, povero, umile, casto, che si dona, che è sofferente per il disprezzo e il rifiuto da parte degli uomini, era la meta di tutto l’iter seminaristico. Quel Gesù che mostrava il Suo Cuore, stava conquistando il cuore di Antonio.

Il Signore, che è un artista e sa bene come fare i suoi capolavori, preparava tutto l’occorrente per rendere la vita di questo giovane un capolavoro del Suo Amore e del Suo Cuore.

Nel 1957 sua sorella Anna entrò a fa parte delle Suore del Sacro Cuore, a Vische Canavese in provincia di Torino, fondate dalla Venerabile Luisa Margherita Claret de la Touche, il cui carisma speciale è la preghiera per la santificazione Sacerdotale. Dopo le grandi apparizioni a Santa Margherita Maria Alacoque, in cui Gesù mostrava il Suo Cuore incoronato di spine e chiedeva riparazione per i peccati del genere umano, a fine ‘800 Luisa Margherita Claret de la Touche ebbe delle apparizioni in cui Gesù,  presentando il Suo Cuore oltraggiato dall’infedeltà dei sacerdoti,  chiedeva riparazione.

Antonio rimase affascinato dal carisma di questa Congregazione, come testimoniato dai racconti della sorella Anna, e varie volte visitò il monastero di Vische rimanendone profondamente colpito.

Nel 1957, per la festa dell'Immacolata, si consacrò all'Amore Infinito. Nel diario ha scritto: "Mi consacravo totalmente a Gesù Amore Infinito rinunciando completamente a me stesso per Gesù". E Gesù gradì subito quell’offerta fatta in espiazione dei peccati dei sacerdoti.

Mentre frequentava il quarto anno di teologia ed era prossimo all'ordinazione sacerdotale, iniziarono strani malesseri: mal di testa improvvisi, dolori lancinanti per tutto il corpo, una stanchezza che lo prostrava, al punto che il suo corpo, che prima riusciva a fare lunghi e alti salti, sembrava non riuscire più a fare tutti i passi della giornata. Ma Antonio, fedele alla sua consacrazione, cercò per quanto possibile di nascondere ai suoi compagni e ai suoi superiori il malessere che avanzava e sopportò tutto nel silenzio come offerta piccolissima a quel Cuore, che soffre proprio a causa di quelli che Gli sono più cari.

Tacendo e offrendo, continuò gli studi e il cammino seminaristico.

Dal 1961 in poi la malattia, un terribile linfogranuloma, che fu il suo calvario, lo aggredì implacabile. Tra cure in ospedale e ritorni a casa, percorreva una “via crucis” lenta e dolorosa. I suoi dolori erano atroci e il male piano piano gli toglieva le forze e la vita. Ma non aveva fatto i conti con Antonio che offriva ogni cosa al Signore per consolarlo delle offese che riceveva dai sacerdoti.

Intorno a lui iniziò una vera e propria maratona di preghiera per ottenergli la guarigione. In una lettera del 13 giugno 1961, indirizzata al suo Vescovo monsignor Pirastru, egli scrisse: «Sono nelle mani della Madonna, il Signore sa quel che fa e fa tutto perché ci ama».

La sua più grande preoccupazione era constatare di non avere più le forze per completare gli studi e  diventare presto sacerdote. Per poter essere ordinato sacerdote senza aver completato il curriculum necessario, occorreva una dispensa particolare del Santo Padre. Così, il 16 luglio 1963, Mons. Pirastru, suo Vescovo, che gli voleva davvero molto bene, inoltrò la richiesta alla Congregazione romana competente.

Intanto il suo vecchio parroco don Cherchi si diede da fare per organizzargli un viaggio a Lourdes, nella speranza che la Vergine Maria potesse guarire quel suo figlio diletto. Antonio fece questo pellegrinaggio non con il desiderio della guarigione, ma con l’intento di portare ai piedi della grotta di Massabielle il suo unico grande desiderio: «diventare sacerdote».

La Vergine di Lourdes non gli tolse i suoi mali ma gli concesse quello che il suo cuore davvero desiderava. Infatti il 22 settembre 1963 nella cappella del Seminario di Iglesias, Antonio veniva ordinato sacerdote da Mons. Pirastru, che nell’omelia, gli affidò un incarico “tutto per lui”: “Sarà questa la tua missione sacerdotale: vittima di immolazione con Gesù sul Calvario: per essere appunto salvatore di anime: salvatore della tua anima, salvatore di tante anime sacerdotali, che avranno bisogno della tua passione sacerdotale, per essere totalmente di Gesù. Tu ben lo sai, don Antonio, che vi sono tanti che sono lontani dal Cuore Sacratissimo di Gesù: anime sacerdotali! E allora ecco qui la tua missione: offriti, come io stesso ti ho offerto stamattina nella Messa, vittima di amore con Gesù, per la salvezza di tante anime sacerdotali”.

Gli facevano corona tanti sacerdoti, che piangevano non solo per la commozione della cerimonia, ma al pensiero delle sue sofferenze e del suo sacerdozio che si prevedeva molto breve.

Il 4 maggio 1964 fu un giorno di grande grazia per il novello sacerdote. In occasione di un ricovero a Roma, Antonio fu ricevuto in udienza dal Santo Padre Paolo VI. Così descrisse quell’incontro: «Mattinata commoventissima. Il Signore mi ha concesso una grazia speciale: un’udienza quasi privata con il Santo Padre. Commosso fino al pianto, mi ha detto di stare sempre tranquillo che il Signore può far tutto e sa quel che fa e se mi vorrà nel campo apostolico farà tutto Lui. Se la Sua volontà è diversa, accettare tutto con gioia serenità e amore».

La sofferenza dei familiari e di quanti gli volevano bene era grande. Tutti pregavano per ottenere un miracolo, tanto che per una seconda volta, nonostante le difficoltà a causa del suo male fu portato a Lourdes, dal 6 al 15 luglio 1964, accompagnato da Pinuccio Schirra, in qualità di capo barelliere, il quale annotò: «Lo portammo barellato e nella serenità e rassegnazione viveva il dramma della sua incurabile malattia. Volevamo confortarlo con le nostre parole, ma il conforto lo ricevemmo noi».

Nel cuore del novello sacerdote, per la seconda volta a Lourdes c’era il solo desiderio di ringraziare la Madonna, per averlo ascoltato. Era diventato sacerdote! E quale modo migliore per ringraziare il Signore se non quella di celebrare alla Grotta proprio dove qualche anno prima aveva chiesto di diventare sacerdote?

Il decorso della malattia non si arrestò. Gli ultimi giorni furono terribili. Così, affinandosi nell’offerta, egli veniva compiendo la sua singolare missione: consolare il Cuore di Cristo oltraggiato dai suoi sacerdoti.

Il 29 maggio 1965, al mattino don Antonio chiamò attorno al letto i suoi cari: “Ora me ne vado a casa mia… da Gesù… non piangete. Il Signore vi ricompenserà. Vogliatevi bene. Amate la Madonna. Per tutti prego e tutti benedico”. Gli fu amministrata l’Unzione degli infermi. Riprese a parlare e, presentando la statuina della Madonna, che aveva vicino, disse: “Tenetela cara. Io sono qui, con Lei… Per la pace nel mondo, per il Papa, per il mio Vescovo. Regina dell’universo, attira a Te tutte le anime, fa’ capire che sulla terra solo Gesù è tutto”.

Chiamò per ben 5 volte la mamma e l’ultima volta le chiese di rimanere accanto a lui, perché quando Gesù morì, vicino a lui c’era la sua mamma.

A mezzogiorno, esclamò: “Su cantiamo insieme, cantiamo il Te Deum. Cantate con me”. E sul suo letto di morte, Antonio, distrutto dal tumore a 28 anni, intonò il cantico della lode. I presenti, tra tante lacrime, cantarono con lui. Continuò ancora per poco a parlare e a pregare. Poi benedisse ancora una volta tutti. Infine, esclamò: “Arrivederci tutti in Paradiso. Che nessuno manchi. Aiutatemi: ora me ne vado a casa mia”. Intanto quellic che erano vicino al suo letto recitavano il Rosario. Al “gloria” dell’ultimo mistero glorioso don Antonio andò incontro al suo Dio, che aveva tanto amato e dal Quale era stato amato infinitamente di più.

Erano le ore 17:00 del 29 maggio 1965, sabato dopo l’Ascensione di Gesù al cielo.

Dal sacrificio alla gloria:

suor Maria Carmela D'Amico

Carmela nasce a Barrea (AQ) il 1° maggio 1900. Dal tempo pasquale in cui vede la luce, assorbe la gioia interiore, e dalla vita semplice e pacifica del paese natio, fra i monti d’Abruzzo, la semplicità e la bontà.

Nella sua famiglia, che l’accoglie con tantissima gioia, ella è la quarta di sei figli. E’ una famiglia allegra ma numerosa, alla quale, purtroppo, il lavoro paterno di pastore riesce ad assicurare un tenore di vita che rasenta la povertà.

La mamma, donna intelligente e volitiva è in grado risparmiare “anche l’aria che respira”, come si dice in paese, e riesce così a far andare avanti la barca.

Battezzata lo stesso giorno della nascita, secondo la consuetudine locale, nella Parrocchia di S. Tommaso Apostolo, la bimba è circondata dalle premure non solo della mamma ma anche della sorella maggiore, “Almerinda”, che ha sette anni più di lei.

Il 7 agosto 1908 l’infanzia serena di Carmela viene scossa profondamente dalla morte quasi improvvisa della mamma. La bambina ha appena otto anni. Dopo di lei vi sono due fratellini: uno di sei anni- Salvatore - e l’altro di due –Alfredo; fra Almerinda e Carmela vi sono altri due fratelli: Mariano e Antonio.

Il peso della cura familiare ricade su Almerinda, ma anche Carmela si presta a fare piccoli lavori domestici, animata da buona volontà e cosciente di doversi impegnare per colmare il vuoto lasciato dalla mamma.

Quando Carmela ha undici anni, Almerinda si preoccupa di farle ricevere il Sacramento della Cresima: è il 15 ottobre 1911, giorno in cui l’Abate di Montecassino, D. Eugenio Diamare, si reca a Barrea per adempiere i suoi compiti Pastorali. (Barrea in quel tempo apparteneva alla Diocesi di Montecassino, ora appartiene a quella di Sulmona).

Durante la preparazione alla Cresima ella avverte una particolare chiamata del Signore alla vita religiosa e decide di donarsi tutta Colui, che l’ha amata fino a morire per lei. E’ troppo giovane però per prendere una decisione del genere e, secondo il prudente consiglio della sorella, condiviso in pieno dal padre, deve attendere di avere almeno 15 anni.

L’attesa è lunga per il suo cuore, ma lei sa essere giudiziosa e paziente; si raccomanda caldamente alla Madonna, perché l'aiuti a realizzare il suo sogno. e la Madonna la aiuta proprio come sanno fare le mamme.

Finalmente il 29 novembre 1915, può partire per Roma, diretta al Viale Aurelio N.2. Qui vive una comunità di Suore, che lei ha conosciuto a Barrea: le Suore Oblate del Sacro Cuore di Gesù, il cui Istituto è stato fondata dalla Madre M. Teresa Casini.

Il distacco dalla sorella Almerinda, che le ha fatto da mamma, è dolorosissimo. Si stringono in un abbraccio, che sembra non finire più e le lacrime scendono copiose fino a Roma, dove la Madre Teresa, che ben conosce la sua storia di orfana le dà il “benvenuta” con un abbraccio  così affettuoso, che la fa sentire subito in famiglia.

Suor M. Agnese Bifaro, futura Superiora Generale dell'istituto, narra:

“Carmela entrò in Religione a quindici anni. Era semplice come una bambina, ma intelligentissima, dinamica, di buon senso e sano criterio. Aveva un’anima trasparente nella quale la Madre poteva notare le grazie singolari, di cui il Signore la ricolmava, oltre ad averla dotata di un carattere docile e amabile. Appena entrata in convento, si affidò alla Madre Teresa dicendole: “Madre io sono venuta soltanto per farmi santa. Per favore insegnami come si fa e non preoccuparti se dovrò soffrire; sai, alla sofferenza io sono abituata”.

La Madre Teresa trovò in lei buona stoffa per farne un’Oblata secondo i desideri del Cuore Trafitto di Gesù.

Io ero giovane come lei e la guardavo con ammirazione. Mi sono rimasti impressi nell’anima il suo spirito di raccoglimento e la premura nell’osservare la Regola con una scrupolosità, che sembrava esagerazione. Pregava sempre e dappertutto, ma la sua passione era Gesù Sacramentato, per il Quale la Madre Teresa le aveva messo in cuore un tenero amore.

Carmela vestì l’abito religioso l’8 dicembre 1916 e all’Altare venne chiamata : “Suor Maria Carmela”.

Almerinda partecipò alla cerimonia della vestizione, non solo per fare le veci della mamma defunta ma anche per soddisfare il proprio desiderio di rivedere la sorella che, tutto sommato, le era stata anche figlia e assicurarsi che fosse davvero felice. Durante la cerimonia, così commovente, questa giovane nel fiore dei suoi  ventitré anni sentì in sé il fascino della consacrazione a Dio e secondò volentieri il pensiero di seguire l’esempio di Suor M. Carmela, appena gli impegni familiari glielo avessero consentito. Infatti tornò a Barrea, custodendo nel cuore quel sogno, e due anni dopo, il 20 luglio 1917, poté anch’ella essere ammessa nella piccola schiera delle Suore Oblate del Sacro Cuore di Gesù.

Durante il Noviziato Suor M. Carmela fu colpita da un’eruzione cutanea sul dorso delle mani e sull’avambraccio: l’erisipela. A quel tempo l'erisipela era una malattia estremamente grave, con un tasso di mortalità molto alto. La terapia oggi si basa principalmente sulla somministrazione di antibiotici, ma a quel tempo questo farmaco era ancora sconosciuto, per cui la malattia fu dolorosa e lunga.

La giovane fu costretta a lasciare la comunità, per essere ricoverata ai Monti di Creta, dove già da allora esisteva una modesta Casa di Cura per le malattie della pelle ed era diretta dal famoso Padre Sala, il quale aveva il brevetto di alcune pomate che, si diceva, operassero miracoli.

Monti di Creta, allora, era una deserta campagna; non vi arrivava nessun mezzo di comunicazione, e la Suora che andava a farle visita, doveva percorrere un lungo tratto a piedi. Suor M. Carmela era sempre in attesa che arrivasse Suor M. Palmira; appena la vedeva le correva incontro e il senso di solitudine che provava, spariva come d’incanto. In quell’Istituto dermopatico ella lasciò un buon ricordo di sé, e, fino a poco tempo fa, erano ancora esposte due sue fotografie: la prima con le mani ulcerate, e la seconda con le mani tornate normali.

La giovane novizia, una volta guarita tornò nella sua comunità, per la quale nutriva lo stesso affetto che per la famiglia di sangue e riprese la sua vita scandita da preghiera e lavoro. Sempre raccolta alla presenza di Dio, col suo buon esempio, che non poteva passare inosservato, gettava sprazzi di luce su chi le viveva accanto. Non desiderava altro che consolare il Cuore Trafitto di Gesù con la preghiera, l’adorazione e la contemplazione del Mistero della Presenza reale di Cristo nel Sacramento della Eucaristia. Il suo fervore si manifestava anche all’esterno. Non parlava mai di sé, né in bene, né in male e si riteneva l’ultima della Comunità, senza dirlo.

La sua obbedienza non conosceva altro limite che il peccato e tuttavia spesse volte questa virtù le costava lacrime cocenti, che sapeva nascondere dietro un dolce sorriso. Ma le virtù che maggiormente risaltavano in Suor M. Carmela erano la semplicità; la dolcezza; la docilità e la carità. Amava tutte le Consorelle, nessuna esclusa; nessuna ha mai ricevuto una sgarbatezza; ed il suo sorriso era un segno dell’affetto del cuore, che sentiva per tutte.

Suor M. Carmela emise la sua prima Professione religiosa per un anno l’8 dicembre 1917. Ad essa fecero seguito le altre professioni annue, secondo le norme della Chiesa.

La Madre Teresa intanto si era resa conto di avere a che fare con una persona con attitudini per la direzione dell’Istituto. Cominciò allora ad affidarle dei piccoli incarichi, per farle acquisire il senso di responsabilità.

In primis le affidò un gruppetto di aspiranti alla vita religiosa. Voleva però che le educasse e le formasse come desiderava lei e sotto la sua guida. Per Suor M. Carmela questo era un lavoro arduo: la Madre era esigente e, per riuscire nel suo intento, non le risparmiava le osservazioni e, se necessario, anche i rimproveri. In quel periodo, tante volte l’ho incontrata con gli occhi pieni di lacrime, mentre si sforzava di sorridere. Pur volendo molto bene alla Madre, quelle reprimende urtavano la sua sensibilità e, mantenersi serena, le costava fatica e sofferenza; tutto però diventava materia di offerta al Signore per la santificazione dei Sacerdoti. Intanto, quando si verificava qualche episodio che la faceva soffrire, prima che finisse il giorno, andava dalla Madre Teresa e le chiedeva scusa, con umiltà e sottomissione. Allora la Madre la incoraggiava a non arrendersi di fronte alle prove, che, le diceva, l’avrebbero formata alla virtù necessaria per un’Oblata.

Poco tempo dopo le fu affidato l’incarico di vice economa, e, contemporaneamente, di dispensiera e spenditrice. Fu un periodo di prova ancora più duro. Quante volte dovette andare a piedi dal Castelletto Medici al mercato di San Cosimato (percorso non breve) e tornare sempre a piedi con le borse piene e pesanti! Per un periodo di tempo, quasi ogni giorno, andava fino alle Catacombe di San Callisto, dai Padri Trappisti, che, gentilmente ci fornivano qualche litro di latte genuino per due Suore ed una bambina colpite dal tifo. Per raggiungere il monastero dei Trappisti e far ritorno a casa, era costretta a fare molta strada a piedi, perché i mezzi di trasporto allora, oltre ad essere cari erano anche pochi, specialmente in quelle zone. Era d’estate: il caldo, il sudore, la stanchezza la sfinivano; partiva la mattina e tornava a casa dopo mezzogiorno! Mai un lamento, mai una pretesa... sul suo volto era sempre stampato un bel sorriso. Aveva Gesù nel cuore e voleva consolarlo ad ogni costo, perciò offriva tutto a Lui e qualsiasi sacrificio le sembrava troppo piccolo.

Con la Professione perpetua emessa il 2 febbraio 1923, Suor M. Carmela vide coronato il suo desiderio di consacrazione totale e perenne al Signore: era ormai Oblata per sempre.

Tutto sembrava procedere tranquillamente, ma un giorno avvertì uno strano malessere. Pensò che fosse qualcosa di passeggero e non vi prestò troppa attenzione. Dopo poco tempo il malessere si presentò di nuovo e la spossatezza che lo accompagnava aumentava sempre più. Si decise allora a confidare la cosa alla Madre Teresa, la quale immediatamente la fece visitare da più di un dottore. Fu fatto anche un consulto medico e, con grandissimo dispiacere, le fu diagnosticato il male di cui si temeva: la tubercolosi.

Lei lo seppe subito.

Di ritorno in comunità le fu chiesto cosa avessero detto i Dottori e lei, con la solita semplicità e col solito sorriso, rispose: “Ho due buchi al polmone”. Fu come se avesse detto: ”Ho due buchi alle calze”. Tale era stata la disinvoltura con la quale aveva parlato del suo grave male.

Stette per  un po’ di tempo a Roma per i controlli e le cure, ma, visto che il male avanzava, fu mandata a Grottaferrata, perché si sperava che l’aria, migliore di quella di Roma, potesse aiutarla.

La povertà della Comunità era tanta! Tuttavia, anche a costo di fare debiti, fu migliorata la qualità del cibo per la malata. Lei però non chiedeva nulla di particolare; non si lamentava, soltanto pregava e offriva.

Man mano che le venivano a mancare le forze, nasceva però nel suo cuore un grande desiderio: rivedere per l’ultima volta Almerinda, la persona più cara che aveva al mondo, e che, essendo da qualche tempo diventata anche lei suora Oblata del Sacro Cuore di Gesù, abitava in un’altra comunità.

Era sul punto di chiedere questo favore, quando le si affacciò alla mente di offrire al Signore quest’ultimo sacrificio, che tanto le costava. Ne chiese il permesso alla Madre Teresa, la quale glielo concesse con le lacrime agli occhi,dicendo alle altre suore: “Questa figlia ha davvero un cuore grande!”.

Prima di morire, con la voce che era poco più di un sussurro, suor Maria Carmela disse alle sorelle che erano intorno al suo letto a pregare: “Oh! come si vedono differenti le cose in punto di morte! Non lasciatevi scoraggiare da niente e da nessuno: amate, amate, amate!”.

Moriva una santa! Una santa per davvero!”.

La vita di Suor Maria Carmela D’Amico è tutta pervasa di gioia pasquale: nasce alla vita terrena il 1° maggio 1900, pochi giorni dopo la Pasqua; nasce alla vita del cielo il 22 aprile 1924, un martedì dopo la Pasqua.

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