"La messe è molta
ma gli operai sono pochi;
pregate dunque il Padrone
della messe, perché mandi
operai nella sua messe".
( Mt. 9,37-38 )
Il giorno della festa del Sacro Cuore di Gesù, celebrata il 28 giugno, 14 nuovi sacerdoti sono stati ordinati da monsignor Luigi Moretti, dell’arcidiocesi di Salerno.
Tre di questi sono fratelli, due dei quali gemelli!
Roberto De Angelis ha 34 anni, e i suoi fratelli Carmine e Ferdinando ne hanno 30.
Al quotidiano dell’episcopato italiano, Avvenire, padre Carmine ha riferito: “Ho sempre custodito nel cuore e nella testa il seme che il Signore aveva posto in me. Lo hanno coltivato i miei genitori con il loro stile educativo improntato a una fede autentica e a principi solidi. Quando anche Ferdinando disse di volersi incamminare verso il sacerdozio non fui sorpreso. Lo fummo entrambi, invece, quando capimmo che il fratello maggiore, Roberto voleva diventare prete. Il primo a incamminarsi è stato lui, poi l’anno successivo toccò a me e a Ferdinando”.
“Siamo di un piccolo paese di circa seimila abitanti, Bracigliano, nel quale il 2010 si intraprese l’Adorazione eucaristica perpetua con la speciale intenzione di chiedere che dei giovani rispondessero alla chiamata del Signore. La preghiera traccia il solco e non rimane mai inascoltata e così, con l’insistenza dei fedeli, c’è stato l’exploit. Noi abbiamo solo offerto la disponibilità e Dio ha fatto il resto”.
“Il nostro parroco, padre Emmanuel Vivo, ci ha trasmesso una bella immagine del sacerdozio. Come ha detto il Papa emerito Benedetto XVI, il cristianesimo funziona per attrazione”. Padre Carmine ha anche sottolineato il ruolo di sua madre nel suo percorso vocazionale, riferendo al quotidiano La Stampa che nel breviario di lei, professoressa in pensione, c’era una preghiera che recitava tutti i giorni senza che i cinque figli lo sapessero: “Signore, prendi uno dei miei figli come sacerdote”.
“Siamo una famiglia devota, ma abbiamo scoperto che nostra madre pregava per questa intenzione solo dopo essere entrati in seminario. Nostro Signore ne ha scelti tre per rispondere alla sua preghiera! Mamma poteva aspettarselo da Roberto e da Ferdinando, ma da me, il più ribelle, non se lo aspettava”.
Padre Roberto ha aggiunto che la sua vocazione ha a che vedere con il potere della bellezza: “Ero attratto dalle chiese, dovevo entrarci e mettermi a pregare e la magnificenza delle opere d’arte mi parlava della bellezza che porta a Dio”.
Grazia speciale in un’epoca di meno vocazioni In contrasto con il numero sempre minore di vocazioni sacerdotali in Italia oggi, l’ordinazione di 14 nuovi presbiteri è stata per l’arcidiocesi di Salerno “un evento di grazia che diventa segno di una “rinnovata Pentecoste sacerdotale”. Oltre ai tre fratelli De Angelis, sono stati ordinati Alfonso Basile, Emmanuel Castaldi, Agostino D’Elia, Umberto D’Incecco, Bartolomeo De Filippis, Antonio Del Mese, Emanuele Ferraro, Giovanni Galluzzo, Emmanuel Intartaglia, Raffaele Mazzocca e Giuseppe Roca.
I nuovi sacerdoti si sono formati nel Seminario Metropolitano Giovanni Paolo II. Tutti sottolineano che la loro vocazione è iniziata nella cappella di adorazione permanente del Santissimo Sacramento.
E' necessario credere alla forza della preghiera. Il grande Papa Pio XII diceva che la preghiera è "l'onnipotenza dell'uomo e la debolezza di Dio".
Se vogliamo diventare onnipotenti ed ottenere tanti santi sacerdoti, non ci resta che pregare.
Noi suore Oblate del Sacro Cuore di Gesù introduciamo ogni momento della preghiera comunitaria con la seguente invocazione:
"Sia lodato e ringraziato ogni momento il Santissimo e divinissimo Sacramento.
Noi ti adoriamo nel santo tabernacolo, o Cuore Sacerdotale di Gesù
e ti benediciamo che, per mezzo dei tuoi sacerdoti, ci consacri e ci amministri ogni giorno il Corpo e il Sangue Tuo Santissimo.
Ut electos tuos multiplicare, benedicere, conservare et santificare digneris, te rogamus Cor Iesu"(Perché ti degni di moltiplicare, benedire, conservare e santificare i tuoi Sacerdoti, noi ti preghiamo, o Cuore di Gesù).
Invitiamo caldamente tutte le persone di buona volontà ad unirsi a noi nel recitarla il più spesso possibile, nella certezza che il Signore non lascerà deluse le nostre attese.
RIFLESSIONE
DEL MESE DI LUGLIO 2019
IL SACERDOTE: MINISTRO DEL CORPO E DEL SANGUE DI CRISTO
Nel Vangelo secondo Giovanni, al capitolo 19 versetti 31-35 si legge: “Era il giorno della Parasceve e i Giudei, perché i corpi non rimanessero sulla croce durante il sabato – era infatti un giorno solenne quel sabato –, chiesero a Pilato che fossero spezzate loro le gambe e fossero portati via. Vennero dunque i soldati e spezzarono le gambe all'uno e all'altro che erano stati crocifissi insieme con lui. Venuti però da Gesù, vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe, ma uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua. Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera; egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate.”
Gesù ha istituito il Sacerdozio ministeriale durante l'ultima cena, quando, istituita l'Eucaristia, ordinò agli apostoli di ripetere quella sacra azione in sua memoria. In quell'occasione, Gesù comunicò per la prima volta a dei semplici uomini il suo Sacerdozio. Da allora non ha mai lasciato mancare sacerdoti alla sua Chiesa, perché offrissero ai fedeli i meriti e la grazia che Cristo ha guadagnato col suo Sangue.
Ministro, dunque, del Sangue di Cristo: questo è il sacerdote! Quale grandezza si nasconde in un povero uomo! San Padre Pio diceva: "Quando celebro la S. Messa sono sospeso sulla croce con Gesù. Sacerdote, le tue mani trattano il Corpo e il Sangue di Gesù; assolvono i peccati; trasmettono la Grazia conferendo i Sacramenti: quale onore e quale responsabilità!".
S. Caterina da Siena fu chiamata la «Mistica del Sangue», perché il Sangue Prezioso di Gesù era costantemente nel suo pensiero. Le sue numerose lettere hanno inizio tutte nel nome del Prezioso Sangue. Al suo confessore diceva: «Abbiate sempre il Sangue di Gesù davanti agli occhi». Nei Dialoghi scrive: «Quel Sangue è l'unico maestro. Il Sangue di Gesù ci ha nuovamente creati».
Diciamo anche noi con lei: «O Gesù, il mio cuore diventa fuoco, pensando a Te!». «Per lavare i nostri peccati, non c'è che il lavacro del Sangue di Cristo».
S. Francesco, prima ancora di S. Caterina, raccomandava: Dobbiamo venerare e usare reverenza verso i chierici, non tanto per loro stessi, che sono peccatori, ma per l’ufficio e l’amministrazione del santissimo Corpo e Sangue di Cristo, che sacrificano sull’altare e ricevono e amministrano agli altri (cf. Lettera ai fedeli).
In questo mese di luglio, tradizionalmente dedicato al culto del Preziosissimo Sangue di Gesù, siamo invitati a pregare perché i Sacerdoti siano davvero santi, per trattare, il meno indegnamente possibile, il Corpo e il Sangue del Signore.
PREGHIERA
Signore Gesù, santifica tutti i sacerdoti per i meriti della tua Santa Passione, perché possano essere la tua vera immagine pura e santa nel mondo, ovunque e con chiunque. Amen.
Don Tonino D'Ammando
"Un prete senza mezze misure"
Noi suore Oblate del Sacro Cuore di Gesù abbiamo conosciuto don Tonino negli anni settanta.
Alcune di noi si recavano alla parrocchia dei Protomartiri, di cui lui era parroco, per fare il catechismo ai bambini e lui spesso si recava a “Villa Assunta”, una nostra casa non lontana dalla sua parrocchia, insieme ad altri parroci romani, per giornate di riflessione e di fraternità. Abbiamo avuto anche la fortuna di conoscerlo di più e meglio durante le vacanze estive, che lui ogni anno trascorreva con altri sacerdoti, nella nostra casa a Barrea in provincia di L’Aquila.
Di lui possiamo dire che era un uomo sereno, ilare, con la battuta sempre pronta, disponibilissimo, attento agli altri e capace di coglierne lo stato d’animo con un solo sguardo. La sua compagnia era ricercatissima soprattutto da noi novizie o juniores. Ci faceva fare interminabili passeggiate nei boschi e poi, quando si accorgeva che eravamo stanche, ci faceva sedere sull’erba e, tra il serio e il faceto, ci raccontava le sue esperienze di sacerdote e soprattutto ci parlava di Gesù. Vederlo celebrare la santa Messa e ascoltare le sue omelie era qualcosa di molto molto bello: si toccava con mano che don Tonino credeva davvero in quello che stava facendo e dicendo.
Il suo ricordo è ancora vivo tra noi. Spesso senza rendercene conto ripetiamo le sue battute, rimaste impresse nella nostra memoria, e siamo grate al Signore per averci donato la gioia di conoscerlo e di volergli bene.
Una sua breve ma simpatica biografia, è stata scritta da Andrea Lonardo e pubblicata il 16 Aprile 2018 su “ROMA SETTE”. Ve la proponiamo.
Don Tonino D’Ammando, parroco dei Protomartiri, in una comunità chiamata alla santità.
La sua vita fu un debito da “saldare”, una gratitudine che mette in movimento e diviene testimonianza Don Tonino ha vissuto per saldare un debito. Una volta raccontò un fatto che può essere preso ad emblema della sua idea di sacerdozio. Ripensava alla borsa di studio che gli permise di formarsi al Capranica e disse: «Avrò reso grazie a chi mi ha offerto la possibilità di studiare solo quando avrò creato anche io una borsa di studio per un nuovo studente».
Ecco cosa era per lui l’essere parroco: esprimere la gratitudine per il dono della fede donandola ad altri, permettendo ad altri, con la propria testimonianza, di diventare cristiani. Chi pensa con gratitudine al proprio passato generalmente ritiene che l’essenziale consista nel rendere grazie a chi ci ha fatto il dono. Per don Tonino l’essenziale era, invece, non trattenere il dono ricevuto, ma generare un dono ulteriore per chi ne fosse ancora privo. Allo stesso modo si dona la vita, perché si è felici di averla ricevuta in dono: un figlio esprime la sua gratitudine ai genitori, non tanto quando dice loro grazie, ma quando diventa a sua volta genitore. Manifesta così di aver a tal punto compreso quanto grande sia il dono della vita ricevuta, da non poter continuare a vivere senza generare a sua volta dei figli.
San Paolo, scrivendo ai Romani prima di visitare per la prima volta l’urbe, dichiara: «Sono in debito verso i Greci come verso i barbari, verso i sapienti come verso gli ignoranti: sono quindi pronto, per quanto sta in me, ad annunciare il Vangelo anche a voi che siete a Roma» (Rm 1,14-15). Per lui il dono di aver ricevuto sulla via di Damasco, l’apparizione di Cristo risorto, era così grande da dover viaggiare per condividere tale incontro con chiunque non conoscesse ancora il Signore. Era un debito. Non un debito fastidioso, come quando si deve pagare un mutuo, bensì la gioiosa consapevolezza di aver ricevuto un tesoro immeritato, un tesoro talmente necessario agli uomini che senza di esso non si potrebbe vivere, perché l’uomo non vive di solo pane. Paolo, una volta visitata Roma, intendeva partire per la Spagna per “saldare” il debito con quelle popolazioni che nemmeno conosceva, ma che mancavano della fede nel Cristo. Ecco la vita di don Tonino: un debito da “saldare”, una gratitudine che mette in movimento e diviene testimonianza, la scoperta di Cristo che deve essere condivisa e donata.
Don Tonino era nato a Castel di Tora in provincia di Rieti nel 1918. Era stato prigioniero in un campo di concentramento degli alleati, nel corso della II guerra mondiale, quando venne catturato in Africa dagli inglesi. Finita la guerra era diventato ingegnere, trovando poi lavoro presso le acciaierie di Terni. La sua vocazione al sacerdozio era maturata lì, mentre da laico esercitava la sua professione. Venne quindi accolto al Collegio Capranica, appunto, sostenuto da benefattori che gli permisero di prepararsi all’ordinazione.
La sua vocazione veniva allora definita “adulta”: divenne sacerdote nel 1957, all’età di 39 anni. Divenne vice-parroco a San Clemente e poi parroco a San Bruno alla Pisana.
Nella vita di una persona ogni momento è significativo e chissà quanti hanno beneficiato dell’incontro con don Tonino in queste prime tappe della sua vita. Ma esiste poi un luogo che ti definisce e che diviene la tua casa, la casa nella quale accogli gli altri. Come il popolo di Israele è identificato da una terra, così la casa di don Tonino è stata la parrocchia dei Protomartiri. Egli vi giunse nel 1968 e vi rimase come parroco fino al 1989 (continuando poi ad abitare lì fino alla morte).
In quegli anni non si pensava nemmeno all’ipotesi di essere trasferiti, una volta divenuti parroci di una grande parrocchia. Don Tonino è stato così parroco dei Protomartiri per 21 anni. Per più di due decenni è stato “padre” di quella comunità. Più che le riunioni che proponeva, più che le catechesi settimanali che organizzava per gli adulti – al mattino, al pomeriggio e alla sera, in maniera che sia chi lavorava, sia i pensionati, avessero uno spazio di formazione-, ciò che lo caratterizzava era l’incontro personale. A qualsiasi ora uno fosse passato in parrocchia, lo avrebbe trovato seduto nel suo studio, in attesa.
Ascoltare, consigliare, confessare. Questa è stata la vita di don Tonino. Una vita semplice nella quale, più che da gesti particolari, il segno è stato lasciato dalla continuità. Esserci e continuare a ripetere i gesti che valgono: incontrare ogni persona della parrocchia che avesse avuto desiderio di un incontro. Attendere i parrocchiani, ma anche andare a trovarli, bussando alle porte delle loro case. Don Tonino conosceva ogni appartamento del quartiere, avendo più volte percorse le strade per la benedizione delle case e, al contempo, era il primo ad essere chiamato ogni volta che qualcuno si ammalava. Padre perché fedelmente presente. Padre perché sempre lì. Padre perché in attesa. Sempre e comunque.
L’altro pilastro della sua vita era la celebrazione domenicale. Don Tonino aveva una peculiare modalità di predicare. Scriveva a macchina l’omelia, tutta incentrata su di un’immagine di vita legata al vangelo. Poi la ciclostilava, imprimendola sulla cera, come allora si usava quando ancora non c’erano fotocopiatrici, computer e stampanti. Infine, dopo la proclamazione del Vangelo, la distribuiva e la leggeva. Quei fogli entravano nelle case, venivano conservati, creavano una memoria e un legame di anno in anno. Anche nei funerali egli era abituato ad annunciare il vangelo alla stessa maniera. Fino dal mattino componeva l’omelia e lo si trovava poi, pochi minuti prima della celebrazione, nella stanza del ciclostile a moltiplicare le copie. Quei fogli scritti per amore dei defunti della parrocchia e per sostenere i durissimi momenti dei parenti e degli amici erano come una carezza, nella quale don Tonino metteva a luce i suoi sentimenti verso chi aveva contribuito all’edificazione della comunità. Alcuni di essi sono stati scelti e pubblicati insieme, come un florilegio di quel modo di guidare una comunità e accompagnarla nella gioia e nel dolore, in un volume intitolato “Dall’alto del campanile. Lettere di don Tonino D’Ammando”.
In una sua omelia, scritta per il 35° del suo sacerdozio e per il 25° della parrocchia dei Protomartiri, scriveva di aver salito a fatica, perché ormai vecchio, i 174 scalini del campanile, con lo stesso animo con cui si era recato, lassù, in alto, quando la parrocchia era ancora in costruzione ed egli appena nominato parroco, per vedere in unico sguardo il popolo che gli era stato affidato: «Ci sono otto o novemila persone per le quali ho messo a disposizione il mio sacerdozio, che non è mio, ma vostro, appartiene a voi, perché era destinato a voi. Il cuore si deve dilatare sempre più, deve diventare di una paternità più vasta, più capace, più comprensiva, più misericordiosa, più tenera». Ed aggiungeva, lui che si era legato al movimento Pro sanctitate, quasi precorrendo l’Esortazione Apostolica Gaudete et Exsultate: «Ma voi sapete che significa fare il prete? Fare il prete vuol dire aiutare ogni persona a essere in pari con il battesimo, a vivere in grazia di Dio, a fare Chiesa, ad andare verso gli altri, verso tutti. Se il prete non fa questo, perde tempo. Se il prete non aiuta le persone a essere un po’ più buone, cioè a farsi sante, perde tempo, sciupa il tempo, spreca il tempo. Perché questa è la vocazione di ogni uomo: Dio ci chiama a essere santi. Non solo a essere buoni, ma a essere santi, a essere pieni e perfetti nell’amore. Non alle mezze misure, non ad accontentarsi, non al pressappoco, non al quasi, ma alla misura completa».
Come è triste constatare che gli occhi di tanta gente sono fissi soltanto su quei sacerdoti che non vivono il loro sacerdozio come dovrebbero e non su tanti sacerdoti santi, che il Signore ci dona e che passano nella loro vita senza essere nemmeno notati! Chiediamo al Signore di donarci sempre sacerdoti che, nel loro nascondimento e nella loro umiltà, siano "luce del mondo e sale della terra"
DON GABRIELE ZUCCARINI
"come lampada che arde e risplende"
Il 10 giugno 2019, nella cappella del Centro di Spiritualità Sacerdotale in via del Casaletto, 128-Roma, si sono svolti i funerali di don Gabriele Zuccarini.
Chi era don Gabriele Zuccarini? Senza paura di esagerare possiamo rispondere con quanto dice Gesù nei riguardi di Giovanni Battista “Giovanni era la lampada che arde e risplende”. (Gv 5,33-36) Don Gabriele è stato davvero “una lampada che arde e risplende”, non di luce propria, ma di quella luce che si attinge all’amicizia sincera con Gesù Eucaristia e alla sofferenza accettata con serenità e offerta con amore e per amore.
Egli era nato a Orte in provincia di Viterbo il 30 ottobre 1942.
Fin da piccolo aveva sentito la vocazione alla vita monastica, ma, a causa di varie vicende familiari, era stato costretto a rimandare la realizzazione del suo desiderio.
Aveva allora cercato e trovato lavoro presso le Ferrovie dello Stato; questo però non lo distoglieva dall’alimentare segretamente la fiamma che gli riscaldava il cuore.
Appena la situazione familiare prese una piega di normalità, egli, pur essendo già adulto, anziché il monastero scelse di entrare in Seminario. Fu accettato e dopo gli studi di filosofia e teologia fu ordinato Sacerdote il 3 dicembre del 1983, all’età di quarantun’anni.
A Roma fu viceparroco nella parrocchia di San Gaspare del Bufalo e parroco della Parrocchia San Luigi Gonzaga dal 1998 al 2009. Fu sacerdote apprezzato e ricercato ma soprattutto vero pastore.
Un sacerdote suo collaboratore, assai parco di complimenti, ebbe a dire di lui: “Era un uomo dolcissimo ma fermo e la sua forza era la preghiera”.
Quando il terribile morbo di Parkinson bussò alla sua porta, don Gabriele lo accolse con la sua abituale serenità e quando si rese conto che non poteva più esercitare il suo ministero, perché le forze non glielo consentivano, con il cuore a pezzi ma con invidiabile dignità lasciò la parrocchia.
“Beh, addirittura santo adesso! E’ un po’ troppo!”. Così rispose don Gabriele durante la messa di congedo nella parrocchia di san Luigi Gonzaga al saluto affettuoso e molto elogiativo del suo vice parroco. Lasciamo a lui la parola: “Era molto umile, con uno sguardo di bonomia sulla debolezza umana; talvolta gli brillava negli occhi uno spiritello allegro. Uomo sempre alla presenza del Signore, anche fisicamente, visto che il suo posto preferito era davanti all’altare a pregare con la corona in mano. Era un uomo più di contemplazione che di azione. E tuttavia tutti sapevano di poterlo avere sempre a disposizione, soprattutto i bisognosi e i penitenti. Ottimo confessore misericordioso, accogliente e rasserenante. Qualcuno gli diceva, scherzando, che era troppo buono con i peccatori.
I poveri bussavano continuamente alla sua porta, fino a sfinirlo. Era un uomo di carità concreta, parco di parole e distaccato dai beni. Le sue omelie erano sempre molto spirituali. Aveva un amore particolare per lo Spirito Santo e frequentava la comunità di Santa Anastasia al Palatino.
Il suo ritorno alla patria celeste è avvenuto significativamente alla vigilia di Pentecoste. Con i laici aveva un rapporto di fiducia e di collaborazione.
Quando la malattia ha avuto la meglio, dopo aver lasciato la parrocchia, si è ritirato presso la Fraternità Sacerdotale di via del Casaletto, 128- Roma.”
Qui i confratelli Sacerdoti e le Suore Oblate del Sacro Cuore di Gesù hanno avuto modo di apprezzare la grandezza e la forza di quest’uomo di Dio.
Racconta una delle suore: “ E’ arrivato da noi quando il male era già a uno stadio avanzato. Aveva infatti difficoltà a deambulare, a coordinare i movimenti e a parlare. Tenendo conto di tutte queste sue difficoltà e della delicatezza e riservatezza del suo carattere, noi suore lo consideravamo come uno di casa, lo facevamo stare con noi per tutta la giornata e affettuosamente lo avevamo soprannominato “il novizio”, cosa per la quale lui rideva di cuore. Era contento di poter condividere con noi il tempo della preghiera, del lavoro e della ricreazione, durante la quale ci divertivamo a prenderlo in giro. Lui, a volte, nonostante l’afasia a causa della quale soffriva tanto, rispondeva con qualche battuta umoristica, che ci faceva ridere.
Finché ha potuto celebrare l’Eucaristia ogni giorno era molto felice. Poi ha cominciato a non reggersi più in piedi. Gli altri Sacerdoti lo aiutavano a concelebrare la domenica ma dopo qualche tempo non è stato più possibile a causa dei frequenti svenimenti di cui era vittima. Tutto questo certamente lo rattristava ma non l’ha mai esternato. Sul suo viso c’era un sorriso costante.
Un giorno, inciampando in un piede della poltroncina sulla quale stava sempre seduto, fece una brutta caduta, che gli procurò la lussazione dell’anca. Da quel momento il letto divenne l’altare del suo sacrificio, un sacrificio certamente gradito al Signore per l’amabilità e la serenità con cui veniva offerto.
Dal giorno otto giugno 2019, vigilia della festa di Pentecoste, la sua vita è custodita nello scrigno della Vita.
La sua testimonianza è stata, è, e sarà per chi lo ha conosciuto, molto più eloquente di qualsiasi parola”.
Nel nostro tempo in cui il Sacerdozio viene attaccato, denigrato, svalutato e additato come sinonimo di ogni sconcezza, figure luminose come quella di don Gabriele sono indispensabili per dimostrare al mondo che, se nella Chiesa di Dio c’è quella “sporcizia” tanto reclamizzata ed enfatizzata, c’è anche la bellezza e la santità silenziosa, nota soltanto a Dio e a chi ha gli occhi in fronte capaci di vedere il bene.
Chiediamo con insistenza e fiducia al Signore che ci doni tanti don Gabriele.
Dopo la morte di don Gabriele, tra le sue cose, abbiamo trovato il bigliettino di un suo parrocchiano :
"A don Gabriele, sacerdote e uomo che mi ha dato concreto esempio di Fede e Carità. A Lui la mia sentita gratitudine e l'augurio che possa dare ancora esempio di amore a tutti. Un giorno ci ritroveremo in Cielo alla Festa del Signore".
Felice Sensi
Don Enrico Videsott:
"il padre Pio delle Dolomiti"
Don Enrico Videsott nasce a Mantana-San Lorenzo di Sebato (BZ) il 3 luglio 1912 da umile famiglia.
Ancora ragazzo è costretto a lavorare per aiutare il bilancio familiare e conduce le capre al pascolo. Questo tipo di lavoro gli offre la possibilità di godere di tanto verde e di immergersi in quel prezioso silenzio in cui la preghiera sale spontanea dal cuore. E lui prega, prega soprattutto la Madonna recitando innumerevoli Rosari.
Un giorno gli capita di assistere alla prima Messa di un sacerdote appena ordinato; ne è come affascinato e gli nasce dentro il desiderio di consacrare a Dio tutta la sua vita. A causa della povertà della sua famiglia però non può frequentare la scuola. Un giorno ne parla con padre cappuccino, il quale, rendendosi conto di avere di fronte un ragazzo serio e determinato, lo aiuta a intraprendere gli studi, nei quali si rivela bravissimo, e gli spiana la via per il Seminario. Qui, oltre ad imparare il latino, il greco, la filosofia, e la teologia, impara a mettere al centro della sua vita Gesù, il Signore, che va conosciuto, amato, adorato, servito, imitato e annunciato ai fratelli.
Viene ordinato sacerdote a 24 anni, il 29 giugno 1937. Per lui il giorno della sua ordinazione resterà sempre il più bello della vita. Sarà sacerdote e basta: è questo che vuole con tutto il cuore e che chiede alla Madonna insieme al dono di una parola giusta per ogni persona che incontrerà e per ogni situazione che si troverà a vivere.
Nello stesso anno viene inviato come cappellano nella parrocchia di Vallarga (Vandoies). Dopo un anno viene trasferito a Malles in Val Venosta, nel 1939, è cappellano a Pieve di Marebbe in Val Badia e dal 1941 al 1943 a Brunico.
Durante la seconda Guerra mondiale, per la sua coraggiosa opposizione al nazismo, corre il rischio di essere arrestato e deportato al lager di Dachau, in Germania. Allora il Vescovo, per metterlo al sicuro lo trasferisce a Cortina d’Ampezzo, in una parrocchia ai margini della Diocesi.
Dal 1948 è a Pieve di Livinallongo, poi a Mezza-Selva e infine parroco a La Valle in Val Badia, dove rimarrà 35 anni, sino alla fine della sua vita.
Per vivere in pienezza il suo Sacerdozio prende come modelli Sacerdoti santi, che hanno vissuto soltanto per Dio e per le anime da salvare: san Giovanni M. Vianney, il famoso e santo Curato d’Ars; S. Giuseppe Cafasso, che ha dedicato la sua vita ad un'intensa opera pastorale verso tutti bisognosi, condividendo finanche le ore estreme con i condannati a morte e chiamato perciò “il prete della forca” ed infine P. Pio da Pietrelcina, il mistico stigmatizzato che vive a san Giovanni Rotondo.
Il suo libro più caro è il Vangelo, ma ce n’è un altro che lo attira moltissimo: "La Passione di Gesù" della Beata Caterina Emmerich. Dalla lettura appassionata di questi due libri acquista la consapevolezza che, per portare le anime a Dio, il sacerdote deve vivere di Gesù Crocifisso e che non sono le grandi imprese a fare il sacerdote ma egli è tale solo se adora Dio, si immola per la sua gloria e si dedica giorno e notte alla salvezza dei fratelli. Per questo don Enrico non risparmia se stesso. Celebra la S. Messa con molta devozione, confessa lunghe ore, amministra con venerazione i Sacramenti, predica, prega e benedice. Tutto il resto per lui è inutile. Moltissima gente lo cerca, perché egli sa ascoltare e guidare verso la Verità, cioè verso Cristo. Si interessa di tutti e di ciascuno. Don Enrico è un sacerdote realizzato e felice. Questo attira tante anime a Gesù.
Negli anni dopo il Concilio Vaticano II soffia come dice il Card. Charles Journet, "un vento di follia". Don Enrico non si lascia trasportare da esso. Egli continua a credere che, nonostante tutto quel che si dice, al centro della vita sacerdotale devono esserci il Sacrificio della Messa, il sacrificio di se stessi unito a quello di Gesù, la preghiera e l’abbandono alla Divina Volontà. Queste sue convinzioni fanno sì che egli non abbia altri interessi al di fuori di Dio, di Gesù Cristo, della Madonna e di tutti coloro che ricorrono a lui per essere aiutati e confortati nelle loro angustie.
Tutti lo ricercano non come uomo brillante, ma come uomo di Dio.
Celebri sono le sue benedizioni, che ottengono spesso miracoli, soprattutto a livello spirituale: tanti sono quelli che cambiano vita dopo essere stati oggetto della sua preghiera, dopo aver seguito i suoi consigli e ricevuto la sua benedizione. E’ chiamato “Il parroco delle benedizioni”, perché dice: «La benedizione di Dio è una irradiazione della santità di Dio. Quando benedice il sacerdote, benedice Gesù».
Dopo una vita spesa con immenso amore al servizio di Dio e dei fratelli, il giorno dell’Immacolata, 8 dicembre 1999, all’improvviso ha un arresto cardiaco. Sembra morto, ma dopo alcuni minuti il suo cuore riprende a battere, e lui, in piena coscienza, riceve l’Unzione degli infermi e il Viatico.
All’una e trenta del 9 dicembre 1999, don Enrico va incontro al suo Signore tanto amato.
Oggi la gente lamenta la mancanza di sacerdoti di questa tempra, ma dimentica il comando di Gesù: “Pregate il Padrone della messe, perché mandi operai nella sua messe”. E’ tanto necessaria questa preghiera, perché in un tempo come il nostro, in cui non c’è più niente che dia davvero senso alla vita, abbiamo bisogno di sacerdoti santi che ci ricordino che questa vita è solo un preludio a quella eterna e ci indichino la via del cielo. Come ha fatto don Enrico.
Jozsef cardinale Mindszenty
martire per la difesa del suo popolo
Mindzent è un villaggio di campagna nella pianura ungherese.
Il 29 marzo 1892, da Janos Pehn e Borbàla Kovacs, viticultori, nacque Jozsef: era bello, sano, robusto e i suoi genitori erano fieri di lui. Aveva cinque fratelli, ma solo due sorelle sopravvissero all'infanzia. Ogni giorno, al tramonto, si raccoglievano tutti, genitori e figli, a pregare la Madonna con il Rosario.
Fattosi grandicello, la mamma gli insegnò a servire la Santa Messa. Presso l’altare, durante la celebrazione eucaristica, egli percepiva sempre più chiaro che non c’è nulla di più bello e grande al mondo che offrire a Dio il Sacrificio di Gesù e annunciare il Vangelo ai fratelli. Così, affascinato dall’Eucarestia, decise che sarebbe diventato sacerdote.
Nel 1903, entrò nel Seminario tenuto dai Padri Premostratensi a Szombately. Superate le difficoltà iniziali, fu presto tra i primi della classe. Leggeva moltissimo: storia, letteratura, filosofia, teologia. Ottenuta la “maturità” con ottimo in tutte le materie, cominciò gli studi teologici nel Seminario della sua diocesi. Era giovane, ma aveva la statura di un capo. Durante gli studi di teologia, si appassionò ancora di più a Cristo: seguirlo e amarlo per farlo conoscere e amare dai fratelli era per lui l’avventura più grande che potesse toccare a un uomo sulla terra.
Il 12 giugno 1915, solennità del Sacro Cuore di Gesù, mentre già era in corso la prima guerra mondiale, Jozsef Pehn diventò sacerdote di Cristo.
Dopo la guerra e il crollo dell'Impero asburgico, presero il potere in Ungheria i comunisti di Béla Kun. Nel 1919 Mindszenty, in quanto sacerdote, fu arrestato.
Ma la dittatura dei “rossi” finì presto, e Don Jozsef, fu liberato e appena ventottenne, fu nominato parroco di Zalaegerszeg.
Il 1° ottobre 1919, iniziò il suo apostolato in un territorio di sedicimila anime. Il problema più grave gli parve quello dell’istruzione. Il giovane parroco promosse la scuola e la catechesi intensa, offrendo luce e verità alle associazioni laicali, e inserendo Gesù tra le persone di cultura. Comprendeva che i tempi nuovi avrebbero richiesto credenti colti e forti nella fede. Fece costruire chiese, case parrocchiali e scuole, ponendo in primo piano l’evangelizzazione, la preghiera, l’adorazione a Gesù Eucaristico, la devozione alla Madonna.
Nel 1941 cambiò cognome prendendolo dalla città natale.
Il 3 marzo 1944 fu nominato vescovo di Veszprém; venne consacrato il 25 marzo dello stesso anno nella cattedrale di Strigonio dal cardinale Jusztinián Serédi.
Durante il secondo conflitto mondiale, Mindszenty fu arrestato la seconda volta dagli occupanti nazisti, che non gradivano la sua azione in difesa della popolazione, ebrei compresi.
Finita la guerra, arrivò l’Armata Rossa e si andò di male in peggio
. Mindszenty, nominato primate d’Ungheria, nel 1946 fu creato cardinale da Pio XII. Nell’imporgli la berretta cardinalizia di colore rosso, Papa Pacelli gli disse: «Tu sarai il primo a sopportare il martirio simboleggiato da questo colore rosso».
Tradizionalmente, in Ungheria, il principe-primate aveva il compito di incoronare i re e di fare le loro veci in caso di necessità: aveva quindi funzioni spirituali e civili, che esercitava a servizio della patria. Mindszenty, pur nel mutare dei tempi, era ben conscio di questo ruolo e si adoperò con ogni mezzo per assolvere i propri doveri. Soprattutto volle ricordare a tutti che l’Ungheria era stata consacrata alla Madonna dal santo re Stefano, diventando così Regnum Marianum, terra di Maria: gli ungheresi non dovevano dimenticare quel patto, ma anzi ravvivarlo.
Per i comunisti allora Mindszenty fu un simbolo da abbattere. La sera del 26 dicembre 1948 fu prelevato in episcopio dalla polizia ed arrestato. Sottoposto a torture ed umiliazioni, fu picchiato per giorni, drogato e costretto ad ascoltare oscenità: il tutto per spingerlo a confessare di aver commesso reati contro il regime. Dopo un processo-farsa, l'anno successivo fu condannato all'ergastolo. Pio XII protestò pubblicamente e a gran voce per denunciare quello scempio ma senza esito. Mindszenty trascorse così otto anni, durante i quali non poté leggere testi sacri ed ebbe il divieto di inginocchiarsi; le guardie ricevettero l'ordine di interromperlo se cominciava a recitare preghiere. Spesso gli portavano carne il venerdì, in modo da non farlo mangiare. Pesto e sanguinante, lo minacciavano di farlo comparire davanti alla sua anziana mamma in quello stato. Si ammalò di tubercolosi, a causa del duro regime carcerario. Sfinito fisicamente, sottoscrisse l'accusa di cospirazione tesa a rovesciare il governo, ma ebbe la lucidità di porre in calce la sigla C.F. (coactus feci, ossia "firmai perché costretto"). Quello che i comunisti hanno commesso contro questo pastore è stato davvero terribile.
Nell’ottobre del 1956, durante la rivolta d’Ungheria, il cardinale fu liberato dagli insorti. Ma i carri armati sovietici riportarono ben presto il buio in terra magiara.
Pio XII, al proposito, scrisse due memorabili encicliche con cui chiedeva preghiere pubbliche per il popolo ungherese e per condannare i luttuosi avvenimenti in Ungheria. Mindszenty dovette rifugiarsi nell’ambasciata americana di Budapest, dove rimase recluso per quindici anni, senza poter uscire nemmeno per il funerale della mamma.
Negli anni sessanta la posizione della Santa Sede verso i regimi comunisti subì un mutamento. Fu inaugurata una politica conciliante. Responsabile del dialogo con i Paesi del Blocco dell'Est fu il cardinale Agostino Casaroli. Mindszenty si oppose nettamente a questa politica. Incontrò più volte il cardinale Casaroli, che pur considerando l'atteggiamento di Mindszenty un pesante ostacolo per la riuscita della sua Ostpolitik, non poté non ammirare la grandezza morale, spirituale e la forza d'animo e disopportazione del cardinale ungherese. Per molti anni Mindszenty rifiutò l'invito del Vaticano a trovare riparo a Roma. Ma col tempo era diventato un ospite scomodo anche per gli americani. Dopo varie trattative, nel 1971, con l'interessamento dell'allora presidente Nixon, lasciò l'ambasciata USA e raggiunse la Santa Sede.
Iniziò in quel momento l’ultima tappa della sua Via Crucis, forse la più dolorosa. Mindszenty, infatti, pur in spirito di obbedienza ed umiltà, ricevette grandi amarezze proprio dalla politica vaticana. L’Osservatore Romano scrisse che il trasferimento dell’arcivescovo aveva reso più facili i rapporti tra Vaticano ed Ungheria.
Il primate decise di risiedere a Vienna, iniziando a effettuare numerosi viaggi, per incontrare le comunità ungheresi sparse nel mondo e per raccontare a più persone possibili la verità sul comunismo. Ma da Roma (all’insaputa del Papa) gli fecero sapere che non avrebbe dovuto più parlare in pubblico, senza prima aver sottoposto i suoi interventi e le sue omelie al vaglio della Santa Sede. «Pregai il nunzio di comunicare ai competenti organi vaticani – spiegò il cardinale – che in Ungheria regnava ora un opprimente silenzio di tomba e che io inorridivo al pensiero di dover tacere anche nel mondo libero».
Nel 1973 il Papa Paolo VI, per facilitare i rapporti politici del Vaticano con l’Ungheria, chiese al cardinale di rinunciare alla sua carica arcivescovile, ma ne ricevette un rispettoso, fermo rifiuto. «Non lo potevo fare – scrisse Mindszenty – perché queste misure avrebbero aggravato la situazione della Chiesa ungherese, recando danno alla vita religiosa e confusione nelle anime dei cattolici e dei sacerdoti fedeli alla Chiesa». Il Papa Paolo VI però fu irremovibile.
Di fronte ad alcune agenzie di stampa che diffusero la notizia di una rinuncia volontaria, il cardinale ribadì che tale decisione era stata presa unicamente dalla Santa Sede, non avendo egli mai rinunciato né alla carica di arcivescovo né alla sua dignità di primate d’Ungheria. Nonostante la differenza di vedute dal punto di vista strategico, mantenne intatto il suo amore al Papa.
Non chiese mai nemmeno l’amnistia ma la piena riabilitazione che fu ottenuta soltanto nel 2012.
Il 6 maggio 1975 morì a Vienna per un arresto cardiaco successivo ad un intervento chirurgico.
Sepolto per 15 anni a Mariazell, in Austria, dal 1991, al crollo del comunismo nell’est europeo, è stato traslato nella sua cattedrale dedicata a Nostra Signora e a sant'Adalberto, a Budapest, per essere tumulato nella cripta. Qui a rendergli omaggio si è pure recato il Papa Giovanni Paolo II.
Sulla sua tomba avvengono grazie e guarigioni e dilaga la sua fama di santità. Proprio per questo, è in corso la sua causa di beatificazione.
Il cardinale Carlo Caffarra, già arcivescovo di Bologna, così ricordava il cardinale Mindszenty: «Il Servo di Dio cardinale Mindszenty che aveva in sé la testimonianza di Gesù, dovette far fronte ad un potere che aveva preso corpo in un sistema, il materialismo dialettico e storico, che negava ogni destinazione ultraterrena dell’uomo; che escludeva radicalmente la presenza e l’azione di Dio nel mondo e soprattutto nell’uomo. A questo potere il Servo di Dio non oppose altro che la testimonianza di Gesù di cui era in possesso: la testimonianza al primato di Dio e alla verità dell’uomo. E’ stato la “spia” della verità. “Anche se avevo sperimentato l’orrore dell’odio” ha scritto nelle sue memorie “anche se avevo imparato a conoscere la faccia del diavolo, proprio il carcere mi insegnò a fare dell’amore il principio direttivo della vita”. […] Venni a conoscenza del Card. Mindszenty quando ero ancora un bambino. Ricordo ancora perfettamente che mio padre ne parlava continuamente in casa, e lo considerava un esempio di fedeltà a Cristo che ci proponeva. Ora posso pregare sulla tomba di questo martire e testimone della fede della Chiesa del XX secolo, che fu guida ai miei primi passi verso il sacerdozio».