Don Fabio Baroncini:

sacerdote felice.

All’alba di lunedì 21 dicembre 2020, al termine di una lunga malattia, è morto a Lecco don Fabio Baroncini, figura di spicco di Comunione e liberazione, amico e collaboratore di don Luigi Giussani, aveva 78 anni. Nel clima di confusione in cui viviamo e di sfiducia nei confronti della Chiesa cattolica è meraviglioso scoprire che ci sono ancora figure luminose di sacerdoti come quella di don Fabio Baroncini che invitiamo ad auto presentarsi pubblicando una conferenza da lui tenuta ai seminaristi della casa di formazione di via Boccea, tenuta il 19 marzo 2016.

«Vi ringrazio dell’invito che per la prima volta mi permette di essere qui a Boccea e conoscere questa realtà. Finalmente oggi l’ho vista! E vi direi che val la pena di esserci. È un bel posto. Questo vostro invito mi ha permesso di ripercorrere tutta la mia storia personale. Sono arrivato quest’anno a cinquant’anni di sacerdozio. Tre mesi fa è morta mia mamma e ho ripensato a tutti i suoi insegnamenti. Mi aveva insegnato il “Ti adoro” del mattino, che è bellissimo. “Ti ringrazio di avermi creato, fatto cristiano, conservato in questa notte”. È affermare che l’atto che io faccio oggi è il riconoscimento pieno della bontà del Signore.

Innanzitutto devo ringraziare perché Dio è sempre stato un’evidenza della mia vita. Non è mai stato problematico il mio aderire a Dio. Non so perché sia andata così. Sono di tradizione valtellinese. Mio padre e mia madre erano due valtellinesi. Sono stato lì fino all’età di quattro anni poi ci siamo spostati a Pescarenico. Ho fatto ragioneria e dopo sono andato “a prete”. Come mai? Mah, per la verità non lo so ancora oggi. Se uno si chiede, dopo vent’anni di matrimonio, perché ha sposato quella donna, non lo saprebbe dire. Se voi mi chiedete perché sono andato “a prete”, non lo saprei dire. So soltanto che io volevo andare “a prete”.

L’evidenza di Dio nella mia vita era motivata da mia nonna. Mi portava a raccogliere le patate con lo zappino. Io ero piccolino, avevo tre anni. Bisognava stare attenti a non sbucciare la patata. Quello che mi colpiva era che, quando veniva su un “patatone”, mia nonna diceva sempre: “Guarda com’è buono il Signore!”. L’idea di Dio che provvede al bene personale è entrata nella mia vita grazie a questa donna. Si alzava alle quattro per andare a messa. Alle cinque svegliava il marito e i figli e andavano a lavorare nei campi. Vita grama, vita dura, ma vita sana. Io, con gli occhi dei tre anni, vedevo questa gente che era contenta di stare al mondo.

L’evidenza di Dio è arrivata anche grazie a mio padre che, dal punto di vista della concezione della vita, non era un bravo cristiano. Era un alpino del battaglione Morbegno. Aveva fatto sette anni di guerra, dall’Africa all’Albania e alla Russia. Aveva portato a casa la pelle. Come cultura, era un socialista. “Gli uomini veri sono quelli che lavorano, mica come i preti che non fanno nulla tutto il giorno”. Questo era il suo ritornello. Ho sempre assistito la domenica a questa scena. Alle nove mia madre diceva a mio padre “Vai a messa!”. E lui: “Eh, vado…”. Alle nove mezza: “Sei ancora qui?”. “Non mi stufare, ti ho detto che vado!”. Alle dieci e mio padre era ancora lì. Poi arrivava l’ultimo richiamo di madre e allora andava. Nella chiesa di Pescarenico c’erano grandi colonne e si pagava la sedia, 5 lire. Lui la pagava ma poi si metteva dietro la colonna così non vedeva l’altare. Quando alla una mangiavamo insieme, tutte le domeniche c’era la stessa scena. Mia madre gli chiedeva “Chi ha detto messa?”. E lui: “Cosa vuoi che sappia io chi ha detto messa”. “Ma cos’ha detto il prete in predica?”. “I solit bal – le solite balle”. La sua posizione riguardo a Dio era molto semplice: “Il Padre eterno, non si può sapere se esista. Ma per adesso è meglio tenerselo buono”.

La mia fede è nata da questo. Mia madre ci teneva che io andassi all’oratorio. Poi sono entrato nell’Azione Cattolica. Arrivato ai 14 anni vado alle superiori. Il mio coadiutore mi chiama e mi fa: “Ho sentito che l’Azione Cattolica esiste anche alle superiori, si chiama Gioventù Studentesca, è fatta da un prete strano ma è molto bravo. Vai a cercarli”. Ha fatto l’errore storico della sua vita. Allora vado a cercare quelli di Gs e chiedo ad alcuni come posso farvi parte: “Vedi questi biglietti del cinema? Vai a venderli a tuoi compagni”. E così sono diventato di Gs.

Una volta venne Giussani a Varese a parlare: “Siamo stufi di associazioni nella Chiesa. Essere cristiani è un movimento!”. A me avevano insegnato a dire sempre la mia. Allora ho alzato la mano: “Mi scusi reverendo, – perché io ero ben educato – io sono dell’Azione Cattolica (che è un’associazione) e il mio prete mi ha detto di venire qui. Lei parla di movimento, ma di cosa si tratta?”. Una parentesi. Mia mamma mi aveva insegnato ad essere umile dicendomi che ero scemo. “Vedi che sei scemo?”, diceva. Così io avevo l’impressione di essere veramente scemo. E Giussani quella volta disse: “Chi è quello lì?”. Io mi sono nascosto dietro le spalle degli altri dicendo tra me e me, ecco ci siamo, mi darà dello scemo anche lui. E Giussani invece disse al prete che guidava l’incontro: “Guarda, ti raccomando, curalo bene quel ragazzo lì perché è intelligente”. A me nessuno mi aveva mai detto che ero intelligente. Allora ho pensato: “Io vado dietro a questo qui”. Così si è definita la mia appartenenza a Gioventù studentesca.

C’è un punto di evidenza che si collega alla questione dell’andare “a prete”. A Morbegno, nella casa dove vivevo c’era un pergolato con l’uva americana (che adesso chiamano “fragolino”). Una volta quando avevo sette anni, sotto quel pergolato dissi un rosario per andare “a prete”. La mia vocazione non è stata per niente l’esito di una riflessione, di una misura, di un calcolo. Con quel rosario mi sono rivolto a Maria – che è la più simpatica della compagnia – perché si avverasse quella possibilità. Di fatto il Signore è stato buono e mi ha ascoltato. Poi c’era l’ostacolo di mia madre e mio padre – io ero figlio unico – ma non hanno detto niente, perché avevo “lavorato” bene con mia madre che così ha convinto poi mio padre.

Ho fatto cinque anni di seminario molto belli. La vigilia dell’ordinazione ero a Rho a fare gli esercizi spirituali. Una sera – stavamo aspettando di essere ricevuti dal rettore – io andavo in giro a testa alta dicendo: “Signore, io voglio diventare prete. Se tu non vuoi, c’è un modo tranquillo e sereno, mi fai restar qui morto stecchito”. Non sono rimasto secco e allora sono diventato prete. Allora sono entrato da mons. Citterio e gli ho detto: “Senta eccellenza, stasera io ho bisogno di sentire una sola cosa: il mio vescovo mi vuole prete, sì o no? Se lei pensa che non è il caso, io ho già pronta la valigia, vado a casa, ho il diploma di ragioniere, troverò una brava ragazza e mi sposerò”. Ha fatto un salto sulla sedia. “No, no ti vogliamo prete!”. Siamo andati in duomo e sono diventato prete che ero rimbambito, dopo sette giorni di ritiro avevo un sonno della miseria.

Devo ringraziare perché la vocazione è venuta fuori così, è un dono gratuito di Dio. Era una cosa che volevo fare ma non so perché. Per questo dicevo un’Ave Maria tutte le sere, perché mi aiutasse a capire. Dopo cinquant’anni di prete, posso dire che mi è andata bene. E fare il prete è conveniente. Lo dico sempre ai ragazzi: “Guardate che io una donna l’ho fatta felice, quella che non ho sposato!” […].

Oggi essere cristiani vuol dire, nel migliore dei casi, dare un certo tempo ai sacramenti, alle preghiere, ma è sempre un tempo che si colloca a fianco dell’esperienza umana. Mentre la vocazione è vivere tutta la vita come una responsabilità, come una risposta. Come dice la frase di san Paolo che ho usato per la mia ordinazione sacerdotale e sulla quale ho meditato molto: In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo, secondo il beneplacito della sua volontà. E questo a lode e gloria della sua grazia, che ci ha dato nel suo Figlio diletto (Ef 1, 4-6). Vi auguro di vivere sempre con questa coscienza, cioè che ogni gesto che fate nella vita sia funzionale al rapporto con Gesù Cristo, serva alla conoscenza di Gesù Cristo.

Dal blog di Sabino Paciolla

Padre Daniele Hekic

“il frate dei Miracoli”

È nato a San Pietro in Selve (oggi Sv. Petar u Šumi), all'epoca italiana e ora località della Croazia, il 22 giugno 1926 da Franjo (Francesco) e Angela Hechich e fu battezzato con il nome di Stanko (Stanislao). La famiglia Hechic era una semplice e umile famiglia di contadini, allietata da ben 9 figli. Le bocche da sfamare erano molte e la povertà enorme perché possedevano soltanto due mucche e un gregge di pecore, di cui Stanko era pastore.

Nel 1942, seguendo l'esempio del fratello P. Barnaba Hechich, che era già frate Francescano, incominciò gli studi a Chiampo (VI) dove si preparò per il noviziato successivamente svolto a S. Francesco del Deserto (VE) ed entrò nell'Ordine dei Frati Minori cambiando il suo nome in Daniele. Il 29 giugno del 1952 fu ordinato sacerdote nella basilica di San Marco a Venezia e, non potendo andare a casa in Istria, a causa del regime comunista Jugoslavo, la messa novella la celebrò a Chiampo, in provincia di Vicenza.

Svolse il suo primo servizio sacerdotale a Verona, per un anno, poi a Trieste ancora per un anno, e infine a Treviso. Qui incominciarono i primi sintomi della malattia che, di lì in poi, condizionarono l'intera sua esistenza: la sclerosi multipla. Quest'affezione, infatti, nel giro di pochi anni lo costrinse all'uso costante della sedia a rotelle. A causa dell'aggravarsi della malattia, padre Daniele venne dapprima trasferito a Monselice e quindi a Cittadella (PD), ove svolse il ruolo di Confessore e di Guida Spirituale della comunità. La sua fama di uomo d'ascolto si diffuse rapidamente e molti fedeli di ogni parte d'Italia, e non solo, fra cui anche sacerdoti e vescovi, si recavano da lui per ricevere il conforto della confessione, sopportando attese di ore pur di poterlo incontrare.

Nonostante i grandi dolori che la malattia gli procurava, padre Daniele ne sopportava il peso senza lamentarsi, accogliendo quanti si recavano da lui con gioia e amore. Tante volte le persone che uscivano dal confessionale dicevano: “Come è tranquillo quel frate, nella sua malattia e sofferenza, e come possiamo lamentarci noi dei nostri problemi…” Suo fratello P. Barnaba Hechich racconta: « Quando noi fratelli parlavamo della sua malattia, per la quale non ha mai chiesto la guarigione, e non ha mai permesso a nessuno dei membri della propria famiglia spirituale di pregare per questo, Daniele mi ha detto che offriva a Dio la sua sofferenza per la conversione dei peccatori e per il bene della Chiesa ». Nel corso della sua vita, il progredire della sua difficile malattia che è durata più di 20 anni ha superato tutte le aspettative della scienza; “Questo è il Miracolo”, è stato il commento di esperti del ramo.

Si può concludere che Dio accettava volentieri la sua sofferenza e che lo teneva a lungo in vita. Tante persone che gli facevano visita si sono convertite alla fede ed è cambiata la loro vita. Tanti raccontano che sono guariti e alcune coppie che non potevano avere figli confessano che si sono sentite dire: ”Tra un mese rimarrai in attesa”, oppure “non ti preoccupare, avrai una bambina”. Alcuni hanno testimoniato del dono della sua bilocazione.

Anni fa, la brava gente del luogo, insieme ai Frati del convento locale, lo incoraggiarono a fare un pellegrinaggio a Lourdes, il che alla fine egli accettò, ad una precisa condizione: “purché non pregassero per la sua salute, ma lo aiutassero a ringraziare il Signore per la grazia della sofferenza che gli è stata offerta…”.

E la Madonna, di cui fra’ Daniele è stato sempre devotissimo apostolo (un suo opuscolo intitolato “Il mio Rosario quotidiano” viene tuttora distribuito ai fedeli), evidentemente lo aveva esaudito, tanto che egli negli ultimi anni ha continuato a vivere oramai totalmente immobile, nutrito solo per mezzo della sonda gastrica e assistito giorno e notte da confratelli e volontari affezionatissimi, convinti (e non a torto, vista l’ininterrotta cascata di straordinarie grazie che hanno continuato a ricevere coloro che si affidavano alla sua intercessione) che anche così ridotto, Padre Daniele fosse ancora un dono del cielo, un segno della benevolenza divina, un intercessore privilegiato presso Dio per loro, le loro famiglie e quanti con fede chiedevano ogni sorta di grazie.

Ecco alcune sue frasi memorabili: “Signore, non ti chiedo di non soffrire, ma di essere aiutato a soffrire. Non ti chiedo di esentarmi dalla prova, ma di darmi coraggio nell’affrontare questa vita e la morte” – “Per l’intercessione di Maria Immacolata, Madre della Chiesa, concedimi la grazia di essere profondamente umile per credere sempre più fortemente e più intensamente amare Te”.

Quando gli hanno chiesto come ottenere la felicità nella vita, rispose: “Confidando in Dio e nella Madonna. Lei è la Madre di tutti noi. E quando mai una madre può negare una supplica del proprio figliolo, anche quando è ormai cresciuto?”. E ancora: “Bisogna vivere la vita di Maria in modo integrale” – “Recitate e meditate quotidianamente il Rosario, con esso potrete ottenere tutto…”. All’augurio che qualcuno formulò di vivere altri cent’anni egli rispose allegramente: “No, questo no; ho una gran fretta di andarmi a godere il paradiso promessomi da Gesù!”.

Diversi anni fa la Madonna, durante un’apparizione a Vicka (uno dei sei veggenti di Medugorje) l’ha invitata a visitare Padre Daniele e portargli un rosario. Vicka non sapeva neppure sino ad allora chi fosse e dove fosse Padre Daniele, fu così che venne a Saccolongo a fargli visita donandogli il regalo. E dopo di lei anche altri due dei veggenti, Jacov e Marija, sono venuti a Saccolongo da padre Daniele. Spesso egli invitava i fedeli a recarsi di persona a Medjugorje.

Sempre padre Daniele ha pregato e fatto pregare la Madonna, di cui era davvero innamorato. Moltissime persone che con fede hanno pregato e chiesto l’intercessione della preghiera di padre Daniele hanno ottenuto grazie straordinarie, e le testimonianze di conversioni e guarigioni miracolose sarebbero a migliaia. Da quel che si dice, da nessun altra parte vi sarebbero tanti battezzati con il nome Daniele/Daniela come in quell’angolo del padovano, dove grazie anche alla preghiera ed all’offerta di questo umile Figlio di san Francesco tanti bambini sarebbero nati da coppie dichiarate sterili dalla medicina.

Con l'aggravarsi delle sue condizioni di salute fu trasferito nel 1981 a Saccolongo (PD), presso Casa Sacro Cuore, infermeria provinciale dei Frati Minori Francescani, dove rimase fino al giorno della sua salita al Cielo. Anche in tale sede, finché le condizioni di salute glielo permisero, continuò a confessare e dare consigli alle migliaia di persone che arrivavano da tutto il mondo.

Progressivamente la malattia gli aveva tolto l'uso delle gambe, delle braccia, delle mani e la possibilità di nutrirsi per via orale; infine padre Daniele perse pure l'uso della voce e necessitava di continua assistenza da parte dei confratelli frati e di alcuni devoti accompagnatori, i quali a turno, di giorno e anche di notte, lo hanno assistito per molti anni fino al momento della sua morte.

Nonostante queste sue limitazioni nel fisico, migliaia di persone hanno sempre continuato a frequentarlo, e il solo potergli stare vicino qualche minuto, durante i ricevimenti comunitari o personali in cui veniva accompagnato, il pregare con lui e per lui, dava loro grande sostegno nelle situazioni anche più difficili, di qualsivoglia natura si trattasse.

Morì nella sua stanza presso Casa S. Cuore la notte del 26 settembre 2009, alle ore 23:05, mantenendo lucidità mentale e uso della vista e dell'udito fino a pochi minuti prima di spirare serenamente, come si è appreso nel 2018 dalla testimonianza di quanti erano presenti al momento del decesso.

Le spoglie mortali di Padre Daniele sono state traslate dal cimitero di Saccolongo, dove inizialmente era stato sepolto in una cappellina messa a disposizione da un fedele, a Casa Sacro Cuore in data 18 marzo 2016.

La Provincia dei Frati Minori Francescani ha chiesto l'avvio della Causa di Beatificazione.

IL SACERDOTE E L’AVVENTO

Riflessione dicembre 2020

 Nel Vangelo di san Marco, leggiamo che Gesù disse ai suoi discepoli: «Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento. È come un uomo, che è partito dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vegliare. Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino; fate in modo che, giungendo all'improvviso, non vi trovi addormentati. Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate!». (Mc 13, 33-37)

“Vegliate!”. Questo è l’appello che Gesù ci rivolge nel Vangelo della prima domenica di Avvento. Ma cosa significa la parola “Avvento”?

Il termine Avvento deriva dalla parola latina adventus, che può tradursi con “presenza”, “arrivo”, “venuta”. Nel linguaggio del mondo antico, era un termine tecnico utilizzato per indicare l’arrivo di un funzionario, la visita del re o dell’imperatore in una provincia.

I cristiani adottarono la parola Avvento per esprimere la loro certezza: Dio è qui, non si è ritirato dal mondo, non ci ha lasciati soli. Anche se non lo possiamo vedere e toccare come avviene con le realtà sensibili, Egli è qui e viene a visitarci in molteplici modi.

Romano Guardini, nel suo libro La santa notte. Dall’Avvento all’Epifania, ha scritto: «La nostra salvezza poggia su una venuta… Il Salvatore è venuto dalla libertà di Dio… Così la decisione della fede consiste… nell’accogliere Colui che si avvicina……Il Redentore viene presso ciascun uomo: nelle sue gioie e angosce, nelle sue conoscenze chiare, nelle sue perplessità e tentazioni, in tutto ciò che costituisce la sua natura e la sua vita».

Sulla certezza di questa vicinanza si fonda la speranza dei cristiani, la quale è rivolta al futuro, ma resta sempre ben radicata in un evento del passato. «La nostra speranza è così certa che è come se già fosse divenuta realtà. Non abbiamo infatti alcun timore, poiché a promettere è stata la Verità, e la Verità non può ingannarsi né ingannare» (S. Agostino, Commento ai Salmi, 118, 15, 1)

L’Avvento pertanto è il tempo della speranza per eccellenza, nel quale i credenti in Cristo sono invitati a restare in un’attesa vigilante ed operosa, alimentata dalla preghiera e dal fattivo impegno dell’amore.

“Vegliate!”. Questo accorato richiamo vuole ricordarci che la vita terrena è proiettata verso un “oltre”, come una pianticella che germoglia dalla terra e si apre verso il cielo. San Cirillo di Gerusalemme, in una sua catechesi, così ci esorta : «Ti è stato affidato il tesoro della vita, e il Signore ti richiederà questo deposito nel giorno della sua venuta». Ognuno di noi, dunque, sarà chiamato a rendere conto di come ha vissuto, di come ha utilizzato le proprie capacità: se le ha tenute per sé o le ha fatte fruttare anche per il bene dei fratelli.

Il sacerdote, per preparare i fedeli a lui affidati all’Avvento del Signore, incoraggerà tutti i loro sforzi di buona volontà e tenderà soprattutto a sviluppare intorno a sé la speranza che non delude (cf. Rm 5, 5), quella cioè che si fonda su Cristo e attende tutto da Lui.

Rivolgiamoci, in questo Avvento, verso Cristo che viene, perché Egli, unico e sommo Sacerdote dal quale scaturisce ogni sacerdozio, ci doni tanti santi sacerdoti e chiediamogli che il Suo modello possa riflettersi e rinnovarsi in tutti coloro che oggi si preparano al sacerdozio.

Ave o Croce,

unica speranza!

Nei giorni scorsi il sacerdote Luis de Moya è morto a Pamplona all’età di 67 anni, dopo aver vissuto per quasi 30 da tetraplegico. Lungi dal maledire Dio per la sua situazione, l’ha trasformata in un apostolato per tante persone che nella stessa situazione non trovano motivo di continuare a vivere. Per questo, il religioso era fermamente contrario all’eutanasia e ha sempre sostenuto che accompagnare, amare e mitigare il dolore fisico e morale il più possibile fosse la vera risposta, e non l’eutanasia, sempre più vicina alla legalizzazione in Spagna. Nel 1991, quando Luis de Moya era già prete, subì un gravissimo incidente stradale e si salvò la vita quasi in modo miracoloso. A causa di questo incidente ha perso ogni mobilità e sensibilità nel suo corpo, dal collo in giù. E così ha vissuto fino a questo lunedì, dando un esempio del significato della sofferenza e di un Dio buono che non intende punire chi rimane tetraplegico o nella sofferenza.

In una intervista gli hanno domandato dell’eutanasia e di come non sostenerla per una persona che sta soffrendo molto. La sua risposta fu una testimonianza di grande impatto, perché sapeva molto bene di cosa stava parlando. «Aiutalo a non soffrire, non ucciderlo. Accompagnalo. Porta via tutto il dolore che puoi. Prima quello fisico, e poi soprattutto quello morale, che è il più duro. La solitudine, il sentimento di inutilità che può avere… insegnagli che è un figlio di Dio. Lascia che lo impari se non l’ha ancora imparato, che sappia che per quanto possa essere difficile ora, deve avere la certezza che Dio continuerà ad essere buono. Sono tanti quelli che sono passati dalla stessa sofferenza, non è solo. E che possa vivere con la speranza che nella vita eterna non ci sia dolore». Questa è stata la sua risposta. Non l’eutanasia, ma accompagnare, curare e amare. In un’intervista del 2013 a La Información ha spiegato che «quando un paziente incurabile riceve cure palliative e psicologiche adeguate, non chiede l’eutanasia. Questo è statisticamente verificato e pubblicato». Ma con il suo caratteristico stile diretto ha riconosciuto che «ci sono persone che rifiutano di essere aiutate, perché fa loro tremendamente male sentirsi accudite. Ebbene, siamo liberi, ma dobbiamo riconoscere che chi agisce così non esercita la propria libertà, ma piuttosto il proprio orgoglio. Rifiutare di ricevere aiuto quando è evidente che ne hai bisogno non ha nessuna virtù». «Sia chiaro», ha aggiunto, «in misura maggiore o minore, l’uomo è sempre dipendente dagli altri. E così continuerà ad essere. Io so di essere molto dipendente. Qual è l’unica cosa ragionevole da fare nel mio caso? Ebbene, accettarlo e lasciarmi curare».

Parlando del modo in cui ha vissuto da quando ha avuto l’incidente che lo ha paralizzato dal collo in giù ha aggiunto: «[ho vissuto] nel modo più realistico che ci può essere: cosciente di essere nelle mani di Dio. La cosa meno realistica è vivere come se Lui non esistesse, o come se nessuno mi potesse aiutare. Dio non mi permetterà di trovarmi in una situazione impossibile, sovrumana o al di là delle mie forze, perché sono suo figlio. Potrebbe renderlo difficile per me, ma mai impossibile», ha affermato. Un’altra domanda che molti si pongono quando vedono una situazione similare a quella di Luis de Moya è «se Dio è buono, perché permette queste cose?». Per padre Luis de Moya anche in questo caso la risposta è stata molto chiara: «Se davvero credi che Dio è buono, la frase finisce qui: “Dio è buono”. Punto. Ciò che sembra terribile dal nostro punto di vista non è così terribile dal punto di vista di Dio. Non cambierei me stesso con nessuno, perché ho l’esperienza di quanto sia meraviglioso Dio. Mi ha permesso di addormentarmi mentre guidavo, ma mi ha anche dato un aiuto umano per far fronte a questa situazione. Dio permette il male, ma non ci abbandona a esso». Così, in un’intervista a ReL, questo sacerdote nato a Ciudad Real nel 1953 ha ricordato ai politici e a chi difende l’eutanasia, solo pochi mesi fa, che «Dio non mette i suoi figli, gli uomini, in situazioni insopportabili. Per ogni momento Dio ci offre il suo aiuto per vivere questa situazione in modo dignitoso alla sua presenza. Anche nelle situazioni più dolorose che possiamo immaginare. Questo è quello di cui io faccio esperienza dal 1991».

Ora che Luis non è più qui, vale la pena ricordare un’altra cosa che ha detto a ReL: «Qualsiasi situazione, per quanto favorevole in questa vita, è destinata a finire, e quindi non è la vera felicità. La vera felicità è possibile solo nell’aldilà, che non finisce mai».

Da “Il Timone”

«Don Gu»,

il parroco di campagna

che viveva «per te»

DON GUSTAVO COLETTI

"Don Gu" – così lo chiamavano in paese – da alcuni anni era a "riposo" ma sempre attivo nell'ascoltare le persone, sostenendole nel momento del bisogno, anche in questo tempo di pandemia.

È il primo sacerdote della Chiesa di Perugia-Città della Pieve deceduto per il Covid-19 (e purtroppo seguito poche ore dopo, la sera dell’11 novembre, da don Leonello Birettoni, 79 anni, da alcuni anni ospite della Residenza protetta per anziani “Fontenuovo” di Perugia).

Don Gustavo era molto conosciuto tra il clero umbro anche per essere stato uno dei "magnifici sette" seminaristi perugini, come titolava il periodico di allora del Seminario nell'annunciare l'ordinazione presbiterale di ben sette giovani, nell'anno 1965, epoca in cui c'era una fioritura di vocazioni.

Nato a Perugia il 22 agosto 1938, Coletti per le sue non comuni doti di uomo e di sacerdote fu nominato da Giovanni Paolo II cappellano di Sua Santità. Al titolo di monsignore però non teneva: si sentiva soprattutto un «vecchio parroco di campagna», una dote che «lo ha contraddistinto per tutta la sua vita trascorsa per la quasi totalità al servizio di Dio e della Chiesa, entrando all'età di undici anni in Seminario».

A raccontarlo con voce commossa è uno dei suoi tanti ragazzi "convertiti" al Vangelo, oggi sacerdote: don Riccardo Pascolini, parroco a Perugia città e responsabile di diversi Uffici e servizi diocesani. «"Don Gu" è stato per tanti giovani e adulti il prete "per te", non solo anagrammando la parola "prete" – prosegue don Riccardo –.

È stato il sacerdote della semplicità di un sorriso, dell'accoglienza, della prossimità. Era il prete dell'amicizia e di una predicazione forte, carismatica, puntuale. La sua semplicità è stata la chiave con cui ha "conquistato" fin dall'inizio tutta la comunità locale.

Tante le iniziative pastorali da lui messe in atto che hanno contribuito alla crescita anche sociale di Ponte Pattoli: dai famosi campeggi e campi scuola estivi alle attività di animazione e di catechesi.

Un uomo e un sacerdote – conclude don Riccardo – che è sempre stato un riferimento per tutta la comunità, senza mai chiedere niente per sé». Due parrocchiane – Graziella e Daniela – che hanno dato vita con la benedizione del loro "Don Gu" al «Gruppo di preghiere e opere della Divina Misericordia» parlano della sua «ricchezza interiore» che «guardava oltre i confini religiosi, stando sempre attento alle esigenze di ogni singolo parrocchiano senza mai essere invadente, ma entrando in punta di piedi nella vita di ognuno.

È stato un sacerdote molto attento ai più deboli, agli ammalati, agli anziani... Ci diceva spesso Don Gu: "Il sacerdozio non è da considerarsi un lavoro, principalmente si diventa sacerdoti per vocazione».

Riccardo Liguori, Perugia giovedì 12 novembre 2020

Riflessione novembre 2020

IL SACERDOTE E LA VITA ETERNA

 “Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo” (Gv 17,3).

Per noi cristiani la vita eterna non è semplicemente la vita futura come la può pensare qualsiasi uomo appartenente ad altre religioni.

Per noi cristiani la vita eterna è Gesù stesso.

Chiara Lubich ha scritto: «Gesù con queste parole risponde all’aspirazione più profonda dell’uomo. L’uomo è stato creato per la vita; la cerca con tutte le sue forze. Ma il suo grande errore è di cercarla nelle creature, nelle cose create, le quali, essendo limitate e passeggere, non possono dare una vera risposta all’aspirazione dell’uomo. […] Gesù solo può saziare la fame dell’uomo. Soltanto lui può darci la vita che non muore, perché lui è la Vita»

“Il bene più grande non sta nell’avere una vita lunga, ma nel vivere una vita “risorta”, accolta come dono, volta al bene, vissuta come grazia. La morte è parte integrante della vita ed è ben per questo che bisogna vivere in pienezza ogni istante: in quel giorno nulla di buono andrà perduto della nostra vita né una parola, né un pensiero, né un gesto di attenzione. Il nostro tesoro, il nostro lasciapassare si acquista in questa vita. Anche un solo bicchiere di acqua fresca, donato con e per amore, sarà per noi un credito enorme nell’economia della nostra salvezza”. (Da riflessioni abbazia Madonna della Scala)

E ancora Chiara Lubich dice: «E sappiamo ormai quale è la via per arrivare alla vita eterna: […] metter in pratica, con particolare impegno, le parole di Gesù che ci ricordano le varie circostanze della vita. Per esempio: incontriamo un prossimo? “Ama il prossimo tuo come te stesso” (cf Mt 22, 39). Abbiamo un dolore? “Chi vuol venire dietro a me… porti la sua croce” (cf Mt 16, 24), ecc. Allora le parole di Gesù si illumineranno e Gesù entrerà in noi con la sua verità, la sua forza ed il suo amore. La nostra vita sarà sempre più un vivere con lui, un fare tutto assieme a lui. Ed anche la morte fisica, che ci attende, non potrà più spaventarci, perché con Gesù ha già avuto inizio in noi la vera vita, la vita che non muore».

Ogni domenica recitando il credo terminiamo con queste parole “credo la comunione dei santi e la vita eterna”.

“Per il cristiano con la morte non finisce tutto: si apre «la vita eterna», che non è un infinito doppione del tempo presente, ma qualcosa di completamente nuovo. La fede ci dice che la vera immortalità alla quale aspiriamo non è un’idea, un concetto, ma una relazione di comunione piena con il Dio vivente: è lo stare nelle sue mani, nel suo amore, e diventare in Lui una cosa sola con tutti i fratelli e le sorelle che Egli ha creato e redento, con l’intera creazione”.(Benedetto xvi 3 novembre 2012)

La vita eterna è una realtà da credere e sperare. “Coloro che non sperano nella vita futura sono morti anche per la vita presente” scrisse il grande scrittore Goethe. Essa ci attende; nessuno può venir meno al suo appuntamento. E sarà tanto più luminosa quanto più conosciamo e sperimentiamo il Cristo qui, nella vita terrena. La promessa di Gesù agli apostoli: “Vado a prepararvi un posto” è valida anche per noi, come è stata valida per quanti sono vissuti prima di noi.

Papa San Giovanni Paolo II diceva a tal proposito: “Avremo in pienezza ciò che di bello e di buono in questa nostra esistenza terrena abbiamo appena assaporato”.

In questo tempo così difficile, in cui la mancanza di fede e la scristianizzazione dilagante ci costringono a pensare quasi unicamente alla vita terrena, il sacerdote è colui il quale è chiamato a tenere alta la fiaccola della fede nel popolo di Dio, proclamando come e con San Pietro: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna”. (Giovanni 6, 68)

In mezzo a così tante filosofie contrastanti, egli è incaricato di tenere desta la speranza cristiana nella vita eterna e di annunciare con il suo modo di vivere e con la sua parola, che essa esiste ed il suo nome è: Gesù Cristo.

Jan Beyzym, tutto per la gloria di Dio!

Jan Beyzym nacque nell'attuale Ucraina, a Beyzymy Wielkie, il 15 maggio 1850 nella tenuta di famiglia nella regione polacca del Volinia ed era il primogenito di cinque figli. Ricevette la sua prima educazione in casa, ma quando la famiglia perse le sue proprietà nella rivolta del 1863 e fu costretta a separarsi, la madre di Jan portò i bambini a vivere con sua sorella nella regione di Podole mentre il padre di Jan attraversò la Galizia tenuta austriaca, per fuggire dai cosacchi che lo inseguivano.

Jan, dopo aver completato gli studi secondari, decise di diventare sacerdote diocesano, ma durante una visita a suo padre, che non vedeva da otto anni, questi gli suggerì di farsi gesuita. L’idea gli parve buona e così il 19 dicembre 1872, padre e figlio si recarono al noviziato dei gesuiti a Stara Wies in Galizia dove fu accettato come novizio.

Durante il suo noviziato scoppiò un'epidemia di colera. A Jan e agli altri novizi fu permesso di accompagnare i sacerdoti e i fratelli mentre visitavano i malati di colera. Fu un’esperienza che lo segnò positivamente.

Fu ordinato sacerdote nel 1881 dopo aver completato gli studi di filosofia e teologia a Cracovia e fu incaricato di insegnare francese e russo nelle scuole di Tarnopol e successivamente a Chyrow, dove fu anche responsabile dell’infermeria della comunità.

Egli desiderava molto lavorare tra i lebbrosi e già nel 1879 aveva fatto conoscere il suo desiderio ai suoi superiori. Ma fu solo nel 1898, che il suo desiderio fu esaudito. Poiché padre Beyzym, non parlava inglese, fu mandato in Madagascar invece che in India, perché sapeva parlare francese.

Quando partì per il Madagascar per iniziare l'apostolato scrisse al padre generale Louis Martin a Roma: "So molto bene cos'è la lebbra e cosa devo aspettarmi, ma tutto questo non mi spaventa, anzi, mi attrae".

Fu assegnato al lebbrosario Ambahivuraka nella periferia desertica e abbandonata di Tananarive dove centocinquanta lebbrosi, uomini, donne e bambini vivevano in estrema povertà materiale e spirituale, colpiti dalla fame, dalla malattia e senza accesso nemmeno alle cure mediche di base. Molti morivano più spesso di fame che di malattia.

Dopo due settimane di permanenza in quest’inferno, don Beyzym scrisse a Rodolphe de Scorraille, capo della provincia religiosa di Champagne e delle sue missioni, una lettera per presentare le condizioni indescrivibili che aveva trovato, dicendo che spesso piangeva di nascosto per le sofferenze di queste persone infelici e che aveva chiesto al buon Dio di aiutarlo a portare soccorso a questa povera gente.

La prima cosa che fece fu vivere con i lebbrosi, per testimoniare che erano esseri umani e che dovevano essere amati e salvati. Mettendo in opera la sua esperienza fatta in infermeria, fornì assistenza medica alle loro piaghe, migliorò il loro alloggio, preparò cibo e assicurò acqua potabile. Raccolse soldi per aiutarli in ogni modo possibile. A quel tempo non c'erano farmaci efficaci per la malattia di Hansen. Tuttavia, padre Beyzym notava che il cibo sano e un'igiene adeguata limitavano il contagio e che queste due condizioni insieme impedivano la progressione della malattia. Quando la razione di riso del governo era insufficiente, andava in città e chiedeva cibo e vestiti per loro. Si prendeva cura dei loro bisogni spirituali, parlava loro di Dio e li preparava alla ricezione dei sacramenti.

Un testimone oculare, padre A. Niobey, ha scritto : "La sua devozione per i suoi lebbrosi era ineguagliabile. Non possedeva nulla ma dava quel poco di cui poteva disporre, senza esitazione. La sua risposta ad ogni obiezione erano sempre le parole di Gesù: «Quello che fate al più piccolo dei miei fratelli, l’avete fatto a me. Dobbiamo essere come i mercanti di questa terra: dobbiamo puntare sempre a un guadagno maggiore».

Al suo Superiore provinciale che gli chiedeva notizie delle condizioni di lavoro tra i malati, rispose: "Bisogna essere in costante unione con Dio e pregare senza tregua. Bisogna abituarsi a poco a poco al fetore, perché qui non si respira il profumo dei fiori, ma la putrefazione dei corpi generata dalla lebbra".

Qualche volta ha confidato a qualcuno che gli era più vicino di aver provato inizialmente una forte repulsione alla vista delle vittime e che diverse volte era persino svenuto.

Padre Beyzym si rese presto conto che i lebbrosi avevano bisogno di un vero ospedale e di medici e infermieri, ma un progetto del genere richiedeva 150.000 franchi ed era troppo ambizioso.

Egli, imperterrito, mise il progetto sotto la protezione di Nostra Signora di Czestochowa e iniziò a chiedere fondi da organizzazioni e riviste missionarie cattoliche in Polonia. Le sue lettere eloquenti ed efficaci commuovevano molte persone al punto che, anche quelle che avevano poco da dare, donavano quanto potevano a questo scopo.

P. Beyzym per la realizzazione di questo progetto scelse Marana, perché aveva un buon approvvigionamento idrico e la terra era buona per l'agricoltura. L'ospedale avrebbe potuto ospitare 200 pazienti, con edifici separati per uomini e donne. Volle che ci fossero anche una farmacia, un dispensario, degli alloggi per missionari e suore e una grande cappella.

Quando l'ospedale stava per essere terminato, p. Beyzym seppe della penosa situazione in cui vivevano i deportati polacchi sull'isola russa di Sakhalin, nel nord del Giappone, e voleva aiutare queste persone che erano suoi connazionali. Tuttavia non riuscì a soddisfare quel desiderio poiché, indebolito dal suo prolungato lavoro e sfinito dalle penitenze e da una vita austera, contrasse una febbre che non lo abbandonò più. Morì due mesi dopo, il 2 ottobre 1912, circondato da coloro che amava.

L'ospedale esiste ancora oggi e irradia amore, speranza e giustizia, le virtù che ne hanno reso possibile la costruzione. Dal 1964 sono state costruite nuove casette vicinissime all'ospedale per le famiglie dei malati.

Don Beyzym ha potuto offrirsi così’ per il bene dei fratelli lebbrosi e realizzare tanti progetti in loro favore, perché la sua vita interiore è stata segnata da un profondo legame con Cristo e l'Eucaristia. La Messa era il centro della sua vita e l’adorazione eucaristica il luogo dove portare a Gesù tutto ciò pensava, tutto ciò che diceva, tutto ciò che faceva, tutto ciò che avrebbe voluto fare e non faceva a causa dei suoi limiti, tutte le sue pene e tutti i suoi sacrifici. Si può dire che il tabernacolo era la sua casa. Aveva problemi quotidiani e lottava contro mille affanni e sofferenze, ma era soprattutto un uomo di preghiera. La preghiera era la fonte della sua forza. Non pregava soltanto molto tempo in silenzio, ma pregava ovunque tutto il tempo. Ripeteva spesso che la sua preghiera non valeva molto e che aveva difficoltà a pregare. Per questo chiedeva alle monache carmelitane di pregare per lui. Era un uomo d'azione e un lavoratore instancabile, ma anche un uomo di preghiera. Ha attribuito alla preghiera il ruolo essenziale nella vita apostolica, sottolineandone l'importanza per raggiungere la santità. Era molto devoto della Madonna, attribuiva i suoi successi a Maria e si considerava suo strumento.

P. Beyzym era un contemplativo in azione nello stile di Sant'Ignazio.

Padre Damiano De Veuster

lebbroso tra i lebbrosi

Giuseppe De Veuster nacque presso Lovanio, in Belgio nel 1841.

Figlio di contadini fiamminghi, dopo la scuola primaria nel suo paese, Damiano fu inviato a Braine-le-Comte per imparare la lingua francese.

Seguendo le orme di uno dei suoi fratelli, entrò come novizio della Congregazione dei Sacri Cuori a Lovanio assumendo il nome di Damiano. Dopo gli studi teologici e filosofici a Parigi, emise i voti perpetui il 7 ottobre 1860.

Nel 1863 fu inviato a predicare il Vangelo nelle isole Hawai, in sostituzione di un confratello ammalatosi all’improvviso. Là incontrò qualche lebbroso e ne ebbe un’immensa compassione.

In quel tempo le isole erano in allarme: il medico di Honolulu, la capitale, aveva notato che la lebbra faceva grandi progressi nell’arcipelago. Le autorità decisero allora di isolare i malati per evitare il contagio, e nel 1866 segregarono il primo gruppo di lebbrosi a Kalaupapa nell’isola di Molokai: una lingua di terra circondata da tre parti dal mare e divisa dal resto dell'isola da una catena di monti, alti e selvaggi, prigione ideale, lazzaretto e cimitero per gli infelici là relegati.

Ben presto tra quei miserabili, lasciati a se stessi con scarsi aiuti per sopravvivere, regnò l’anarchia. Abbandonati e privi d’ogni speranza, passavano i giorni giocando a carte, danzavano la "hula" davanti agli altari della dea Laka, ubriacandosi di alcool ottenuto dalle radici di una pianta locale. Le risse e le sopraffazioni a danno dei più deboli erano continue. Dormivano ammucchiati nell’umidità delle capanne. Ai malati che arrivavano ogni settimana si diceva subito: "Sappiate che qui non c’è legge" per giustificare la condotta più sfrenata. In tali condizioni la morte era di casa al lebbrosario.

Nel 1873 il Vicario Apostolico dell’Arcipelago lanciò un appello, perché un sacerdote andasse ad aiutare i lebbrosi di Molokai, tra i quali v’erano dei cattolici. E venne subito una risposta: "Vado io!" disse padre Damiano, che si offriva non solo di aiutare, ma di restare con i lebbrosi per sempre.

Egli giunse sull'isola con il breviario, un piccolo crocifisso, la veste che indossava e una fede incrollabile. Le prime settimane visse all'aperto, dormendo sotto un albero e mangiando su una roccia piatta. Scelse subito di immergersi volontariamente in quel mondo in putrefazione. Ciò che più lo sconvolgeva era il fetore persistente che, quando i malati gli si stringevano attorno, lo prendeva alla gola. Dio solo sa quanto eroismo gli costò sostenere il fetore di quei poveri corpi in putrefazione. "Più volte – confessa – sono stato costretto a chiudermi le narici e a correre fuori a respirare aria pura".

Trovò un parziale antidoto nell’uso della pipa. Capì subito, quasi per istinto di carità, che i malati non lo avrebbero mai accettato, se egli avesse cominciato a mostrare ripugnanza..

Non si preoccupava minimamente di poter essere contagiato. I superiori gli scrivevano sempre di badare al contagio, ma era difficile per un prete 'rifiutarsi di toccare', quando bisognava deporre l'ostia consacrata su lingue rose dal male, o ungere con l'olio santo mani e piedi cancrenosi, o bendare con tenerezza quelle orribili piaghe.

A tavola mangiava della carne mescolata con farina di taro, intingendo le mani, assieme ai lebbrosi, nel piatto comune; beveva nelle tazze che gli offrivano; passava la sua pipa, se gliela chiedevano; giocava coi bambini che si gettavano a grappoli addosso a quel gigante buono. Visitava sistematicamente tutti i lebbrosi. Arrivava col sorriso e la borsa piena di medicine e di bende per pulire e fasciare le piaghe con le proprie mani.

I lebbrosi s’accorsero subito che finalmente c’era uno che li amava.

Le autorità gli offrirono la carica di sovrintendente del lebbrosario con la gratifica di diecimila dollari annui. Egli rispose umilmente: "Se mi offriste centomila dollari non resterei qui cinque minuti. Solo Dio e la salvezza delle anime mi trattengono".

Ad ogni modo le cure erano impossibili e inutili e la morte era certa. Padre Damiano allora si rese conto che bisognava insegnare e aiutare questi infelici a morire bene, perché da questo dipendeva tutto il resto. Cominciò dunque a 'celebrare la morte', nel senso di darle dignità umana. Se si pensa che, al suo arrivo, i cadaveri venivano abbandonati all'aperto e dati in pasto ai maiali, si può comprendere la sua decisione di  costruire un cimitero.

Dopo di ciò padre Damiano fondò la Confraternita dei funerali, che si preoccupava di preparare le bare e di accompagnare, pregando, il defunto al cimitero, al suono della musica e dei tamburi.

Oltre a questo si fece carpentiere e falegname. Con l’aiuto dei più robusti e volenterosi abbatté alberi, costruì una chiesa e casette decenti, insegnò a coltivare la terra.

La fama dell’"eroe di Molokai" si sparse per il mondo e vennero aiuti da tante parti. Ben presto il lebbrosario di Molokai cambiò volto. Ebbe due bellissime chiese (a Kalauapa e Kalawao), abitazioni solide e decenti, una casetta a due piani per il missionario, un orfanotrofio e una casa per le suore Francescane venute a curare gli orfanelli. Chiese mucche da latte per i malati più deboli.

Padre Damiano vivendo con i lebbrosi e come loro conquistò il cuore di tutti. Qualcuno disse che preferiva restare lebbroso piuttosto che separarsi da Makua Damiano.

Ebbe la gioia di ricevere molte conversioni e di battezzare un centinaio di adulti ogni anno. La sua chiesetta, quando celebrava Messa, era sempre piena di fedeli che pregavano e cantavano le lodi a Dio.

Dove trovava la sua forza e il suo coraggio padre Damiano? Nelle lunghe ore passate davanti a Gesù Sacramentato, nella preghiera incessante e in un’amicizia profonda con Cristo, il cui volto egli vedeva in ogni lebbroso.

Passarono gli anni. Forse stava abituandosi a considerare la lebbra una malattia degli altri. Ma un giorno del 1884 si accorse d’essere preda della lebbra anche lui. Fu una scoperta terribile; un velo nero lo avvolse per un istante. Si riprese subito e continuò a lavorare come il solito finché le forze glielo permisero.

La malattia progredì inesorabilmente, ed egli assistette allo sfacelo del proprio corpo secondo le tappe che ben conosceva.

La notizia che padre Damiano era lebbroso commosse il mondo dei suoi ammiratori;  numerose persone si  offrirono per lavorare con lui, specialmente confratelli del suo istituto. Questo gli procurò la consolazione di sapere assicurato l’avvenire della sua opera.

Il 15 aprile 1889, dopo sedici anni d’apostolato tra i lebbrosi di Molokai, all’età di 48 anni, moriva tra le braccia d’un confratello e il pianto dei suoi figli.

Figure come quella di p. Damiano rendono migliore il mondo e ci assicurano che Dio continua a mandare i suoi santi a salvarlo con la dedizione della propria vita.

Il 4 giugno 1995 Giovanni Paolo II lo dichiarò beato e l'11 ottobre 2009 papa Benedetto XVI lo ha canonizzato.

Padre Olinto Marella,

eroe della carità

 Padre Olinto Marella, per tutti a Bologna semplicemente padre Marella, è beato. La celebrazione è avvenuta ieri in piazza Maggiore con la messa presieduta dal cardinale Matteo Zuppi che ha esortato tutti a rendere, «come fece Padre Marella, persone i tanti che altrimenti sono solo schiavi, dei senza volto, senza storia e senza valore».

Il cardinale Giacomo Biffi, che aveva aperto la causa di beatificazione di don Olinto nel 1996, descrisse padre Marella dicendo che aveva il desiderio di «aiutare chiunque potesse avere bisogno, e di condividere a fondo la vita dei poveri», un desiderio che «lo portò a farsi mendicante, questuando con il cappello in mano nelle pubbliche vie e davanti ai locali del divertimento». Biffi lo definì «eroe della carità» e per evitare interpretazioni ideologiche della povertà additiva proprio l’esempio di padre Marella per dire che l’amore per il prossimo «va esercitato soprattutto in prima persona». Infatti, aggiungeva Biffi, «il samaritano non è andato a interessare l’Unità sanitaria locale».

Il cardinale Zuppi ha citato anche il cardinale Carlo Caffarra che in occasione del 35° anniversario della morte del beato Marella ricordava «l’angolo di padre Marella», quello che a Bologna conoscono tutti tra via Caprarie e via Drapperie, in pieno centro. È qui che padre Marella si sedeva nel suo sgabello con il cappello in mano per raccogliere offerte da dare ai poveri. Per Caffarra questo angolo è un «luogo preziosissimo» da tenere sempre davanti agli occhi, perché, diceva, «non si oscuri nel nostro spirito la percezione della dignità di ogni persona umana, specialmente la più povera».

Nel ricordo del beato Olinto Marella citiamo un episodio forse poco conosciuto della sua vita sacerdotale, quello di padre spirituale di un’altra santa, Gianna Berretta Molla, che morì nel 1962 dando alla luce la figlia Gianna Emanuela nonostante i medici le consigliassero l’aborto. Il marito di Gianna, l’ingegner Pietro Molla, offrendo una testimonianza proprio su padre Marella ha scritto:

«Tengo ancora vivissimo il ricordo di quanto padre Marella fece per la mia sposa Gianna, nella settimana dal 21 al 28 aprile 1962. Appena seppe che Gianna stava male, corse all’ospedale di Monza in cui era ricoverata, non l’abbandonò nei giorni del suo calvario, celebrando la santa Messa nella cappella dell’ospedale, l’ha assistita nell’agonia, l’ha accompagnata morente alla sua casa di Ponte Nuovo di Magenta, ha benedetto la sua salma, ha assistito ai funerali e la sera stessa della sepoltura disse al parroco: “In tempi in cui la Chiesa era meno burocratizzata, le lacrime, le preghiere, le invocazioni, il trionfo dei suoi funerali, il martirio della sua maternità, avrebbero significato di per sé la canonizzazione”».

Ma chi era davvero padre Olinto Marella?

Olinto Giuseppe Marella nacque il 14 giugno 1882 a Venezia nell'isola di Pellestrina (che gli ha dedicato un campo sportivo), secondogenito dei quattro figli di Luigi Marella (1851-1903), medico condotto e pioniere dell'elioterapia, e Carolina de' Bei (1852-1940), di famiglia triestina e maestra.

 Fu lo zio - l'arcivescovo Giuseppe Marella, arciprete della parrocchia Ognissanti a Pellestrina, protonotario apostolico e cameriere segreto del papa - a prendersi cura della sua educazione.

Marella ha studiato in seminario a Roma ed è stato compagno di classe di Angelo Giuseppe Roncalli, il futuro papa Giovanni XXIII. Il cardinale Aristide Cavallari lo ordinò  Sacerdote il 17 dicembre 1904. Nel seminario di Chioggia  insegnò studi umanistici e vari studi filosofici e teologici.

Il 24 ottobre 1909 i suoi incarichi pastorali furono sospesi a divinis dal vescovo di Chioggia per avere ospitato Romolo Murri, amico dai tempi del seminario e padre del cristianesimo sociale, scomunicato in seguito alla lotta contro il modernismo condotta da Pio X.

Non protestò contro la decisione, sempre quell'anno inaugurò con il fratello Tullio, terziario francescano, il "Ricreatorio popolare" di Pallestrina, su progetto sempre del fratello Tullio fece anche costruire la scuola per l'infanzia "Vittorino da Feltre".

Il 13 luglio 1916 è chiamato sotto le armi nella IV Compagnia Sanità del Distretto militare di Torino con il grado di sergente; pochi mesi più tardi si laureò in filosofia a Padova, iniziando, dopo il congedo nel maggio 1918, a insegnare in giro per l'Italia, da Treviso a Messina, da Padova a Palermo e Rieti.

Curò anche la traduzione del libro di Giovan Battista Vico (prefazione di Carmelo Licitra) "De nostri temporis studiorum ratione". Nel 1924 si trasferì a Bologna dove insegnò presso i licei Galvani e Minghetti, occupando quella cattedra sino al 1948.

Nel 1925 il cardinale Giovanni Battista Nasalli Rocca di Corneliano tolse la sospensione a divinis, lo riabilitò e lo accolse nella diocesi di Bologna.

Nel 1939 aprì la sua casa in via San Mamolo ad alcuni fuggiaschi ebrei, salvò dalle SS suor Caterina Elkan, ebrea prima di diventare cattolica, salvò dalla deportazione in Germania una trentina di soldati. Trasformò anche un vecchio capannone in chiesa, chiamata "cattedrale dei poveri", dove ogni domenica celebrava messa e, se possibile, offriva anche un pasto caldo.

Nel dopoguerra animò gruppi di assistenti per i baraccati del quartiere Lame e per una serie di agglomerati molto popolari (conosciuti come "le Popolarissime"), fondò le "Piccole operaie" per occuparsi del doposcuola e dell'avviamento al lavoro.

Nel 1948 fondò a Bologna in via Piana 106 la "Città dei Ragazzi" (poi trasferita a San Lazzaro di Savena e diffusa in quindici case in provincia) per dare un rifugio ai giovani sbandati e senza tetto.

E per sostenere economicamente l'iniziativa si trasformò in mendicante.

Marella usava sedersi su uno sgabello sul lato della strada nel centro storico di Bologna, all'angolo tra via Caprarie e via Drapperie (dove poi sarà realizzato un bassorilievo che lo raffigura con il cappello in mano e la lunga barba bianca) ma anche in via Orefici e via Clavature in attesa dell'uscita delle persone dagli spettacoli dei cinema e del teatro comunale. Lo faceva col bel tempo, con la pioggia, anche sotto la neve: capo chino e berretto in mano.

Qualche sacerdote si oppose a quel gesto che lo faceva sembrare un barbone ma Marella continuò nell'iniziativa avendo il sostegno di papa Giovanni XXIII, che lo considerava un "caro amico" e una volta offrì a suo nome un milione di lire. E proprio a Giovanni XXIII un laico e ateo come Indro Montanelli, che aveva avuto Olinto Marella come insegnante di filosofia al liceo di Rieti, si rivolse un giorno "sfrontatamente" dicendo: "Come aveva potuto la Chiesa non capire ciò che avevo capito io, laico e miscredente, che quello era un santo? ". 

Marella conosceva anche Gianna Beretta Molla - futura santa - e Maria Bolognesi - futura beata.

Olinto Marella morì il 6 settembre 1969. L'introduzione del processo di beatificazione avvenne il 20 ottobre 1995 con la dichiarazione di "nihil obstat". Il processo diocesano si aprì a Bologna e si svolse dall'8 settembre 1996 al 17 dicembre 2005; il processo fu poi ratificato nel 2007.

La Positio - due volumi sulla sua vita e le sue virtù eroiche -è stata presentata alla Congregazione per le cause dei santi nel 2008. Papa Francesco ha approvato il decreto di eroicità delle virtù, proclamandolo venerabile il 27 marzo 2013.

Domenica, 4 ottobre 2020 è stato beatificato. La celebrazione è avvenuta  in piazza Maggiore con la messa presieduta dal cardinale Matteo Zuppi. 

IL SACERDOTE: UOMO DI CONSIGLIO

Riflessione ottobre 2020

 Ottobre è sia il mese mariano del rosario sia il mese dei Santi Angeli Custodi, quegli spiriti beati che Dio ha creato prima di tutto per la sua gloria ed il suo servizio ma anche per proteggerci dalle lusinghe e dalle seduzioni del male.

Nel libro dell’Esodo leggiamo: "Ecco, io mando un angelo davanti a te per custodirti sul cammino e per farti entrare nel luogo che ho preparato. Abbi rispetto della sua presenza, da' ascolto alla sua voce e non ribellarti a lui; egli infatti non perdonerebbe la vostra trasgressione, perché il mio nome è in lui. (Es23,20-21) e nel libro dei salmi leggiamo: “Egli (Dio)darà ordine ai suoi angeli di custodirti in tutti i tuoi passi. Sulle loro mani ti porteranno perché non inciampi nella pietra il tuo piede”.(Sal 90, 11-12)

Siamo tanto preziosi agli occhi di Dio che Egli manda per ciascuno di noi una speciale e invincibile “guardia del corpo e dell’anima”. Dobbiamo perciò onorare e amare tutti gli Angeli, ma in modo particolare quello a cui Dio ha affidato la nostra particolare custodia e che, oltre a proteggere i nostri passi dai pericoli per l’incolumità fisica, ci sono accanto per illuminare il nostro cuore affinché si consegni senza riserve al nostro Salvatore Gesù Cristo.

San Bernardo di Chiaravalle, il fondatore dell’Ordine Cistercense, commentando le parole del salmo 90: “Egli darà ordine ai suoi angeli di custodirti in tutti i tuoi passi “, diceva ai suoi monaci: «Queste parole quanta riverenza devono suscitare in te, quanta devozione recarti, quanta fiducia infonderti! Riverenza per la presenza, devozione per la benevolenza, fiducia per la custodia. Sono presenti, dunque, e sono presenti a te, non solo con te, ma anche per te. Sono presenti per proteggerti, sono presenti per giovarti. Anche se gli Angeli sono semplici esecutori di comandi divini, si deve essere grati anche a loro perché ubbidiscono a Dio per il nostro bene. Siamo dunque devoti, siamo grati a protettori così grandi, riamiamoli, onoriamoli quanto possiamo e quanto dobbiamo».

Dobbiamo raccomandarci spesso al nostro santo Angelo ed implorare la sua assistenza, soprattutto nelle tentazioni e nelle occasioni pericolose e ascoltare sempre le sue ispirazioni.

Nella Chiesa però non ci sono solo Angeli invisibili; ci sono anche angeli visibili: i Sacerdoti. Essi sono scelti da Dio, come gli Angeli, prima di tutto per la sua gloria ed il suo servizio e poi per illuminare il cammino di coloro che sono loro affidati e per proteggerli dalle seduzioni del maligno.

“Il sacerdote ha un ruolo determinante nella Chiesa. Il popolo lo percepisce come un punto di riferimento, un leader, uno che sta a capo, che ha studiato le Scritture. Una sorta di esperto, insomma, della vita spirituale. Uno di cui ci si può fidare; dal quale si va per chiedere aiuto, conforto, consiglio. Un uomo, il prete, che sull’Altare, in modo misterioso ma vero, è Cristo stesso. Un uomo, però, che rimane pur sempre un uomo, con i suoi limiti, le sue fragilità. (da “Il dovere di un prete” di Maurizio Patriciello)

Perché ciò sia possibile, l’anima dell’anima del Sacerdote deve essere Gesù Cristo e la sua vita deve essere amore, adorazione, contemplazione, servizio.

In questo difficile compito non c’è nessuno che possa aiutarlo quanto la Vergine Maria. Ella, che all’annunzio dell’Arcangelo ha aperto il cuore a Dio e si è resa disponibile all’azione divina in Lei, può essergli al fianco in ogni momento e in ogni situazione. E’ pertanto necessario che egli l’accolga nella propria vita e le si rivolga con cuore di figlio soprattutto attraverso la recita del santo Rosario.

“Il Rosario, quando non è meccanica ripetizione di formule tradizionali, è una meditazione biblica che ci fa ripercorrere gli eventi della vita del Signore in compagnia della Beata Vergine, conservandoli, come Lei, nel nostro cuore. Con Maria si orienta il cuore al mistero di Gesù. Si mette Cristo al centro della nostra vita, del nostro tempo, delle nostre città, mediante la contemplazione e la meditazione dei suoi santi misteri di gioia, di luce, di dolore e di gloria. ” (Benedetto XVI Basilica di Santa Maria Maggiore Sabato, 3 maggio 2008)

Chiediamo alla Vergine del Rosario numerosi e santi Sacerdoti che con la loro preghiera, il loro insegnamento, il loro esempio e il loro consiglio, sappiano guidare sulla via del Bene tutti coloro che sono consegnati da Dio alle loro cure pastorali.

Sant' Alberto Hurtado Cruchaga

e

Il “focolare di Cristo”

Suo padre muore e la famiglia va in rovina quando lui ha quattro anni e un fratello è più piccolo.

La madre, per pagare i debiti, deve vendere tutto, anche la casa, e i due bambini si ritrovano “senza fissa dimora”. Vengono accolti qua e là in casa di parenti, sempre in maniera temporanea, sempre estranei.

Per Alberto arriva provvidenziale una borsa di studio, con un posto nel collegio dei Gesuiti in Santiago.

Ma non dimenticherà più gli anni dell’abbandono, la vita da “figlio di nessuno”. Appena può, aiuta la madre e il fratello facendo lo studente-lavoratore, e si laurea in legge nell’agosto 1923, a 22 anni. Ma non sarà avvocato né magistrato.

Già da ragazzo pensava di entrare nella Compagnia di Gesù: e, poche settimane dopo la laurea, eccolo infatti accolto per il noviziato nella casa dei Gesuiti a Chillán (Cile centrale).

Il lungo corso dei suoi studi prosegue poi in Argentina, in Spagna e infine a Lovanio, in Belgio. Qui viene ordinato sacerdote nel 1933, e due anni dopo si laurea anche in pedagogia.

Ritorna in patria all’inizio del 1936; un momento difficile. Durante la dittatura di Carlos Ibañez del Campo (1925-1931), il Cile ha risentito in modo durissimo della crisi mondiale scoppiata nel 1929. L’esportazione del rame, principale risorsa del Paese, era scesa a meno della metà, e due terzi dei minatori avevano perduto il posto: un lungo periodo di drammatica depressione, aspettando una ripresa che sembrava non venire mai, da un presidente all’altro, da un governo all’altro.

Padre Hurtado può rivedere sé stesso nei tanti bambini spinti a vagare nelle strade dalla miseria che ha disgregato le famiglie. E così, nel 1944, da studioso si fa uomo di azione. Lancia appelli e mobilita coscienze, per restituire in qualche modo ciò che la crisi ha tolto a tanti infelici. Si tratta non solo di portare aiuto, ma di restituire dignità e speranza.

Dà vita a un piano di costruzioni abitative per questi emarginati, ma in forma nuova: i bambini, i vecchi, i diseredati devono vedersi aprire non già un ospizio, ma una vera casa. Come ha scritto un suo biografo, si tratta di offrire a tutti "non solo un luogo in cui vivere, ma un vero focolare domestico, El Hogar de Cristo".

Li chiama ad abitare in casa di Gesù, e per fare case su misura viaggia all’estero, promuove studi, va in cerca di esperienze, si occupa di edilizia e di arredo. Molti lo aiutano, perché molti sono stati formati da lui attraverso predicazione, conferenze, iniziative sindacali, attività in mezzo ai giovani.

Il “focolare di Cristo” si modella sulle necessità, e può dunque essere anche centro sanitario, scuola, luogo di formazione professionale.

Ma il tempo di padre Alberto Hurtado Cruchada si fa scarso: resta sempre capace di sorridere, ma il suo viso è sempre più scavato: lo ha aggredito un cancro devastante, che spegne la sua vita a soli 51 anni.

Giovanni Paolo II lo ha proclamato beato il 14 ottobre 1994. Papa Benedetto XVI, nella sua prima cerimonia di canonizzazione, lo ha proclamato santo il 23 ottobre 2005 in piazza San Pietro.

Autore: Domenico Agasso

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