riflessione aprile 2021
IL SACERDOTE COME PIETRO:
Dopo l’esperienza unica e sconvolgente dell’incontro con il Risorto nel cenacolo, i discepoli tornano a pescare, proprio come facevano prima di conoscere il Maestro. Si affaticano tutta la notte senza prendere nulla e così allo scoraggiamento e alla stanchezza si aggiunge anche la frustrazione: non sono più capaci neanche di pescare! Non sorprende pertanto che rispondano quasi meccanicamente all’invito di quello Sconosciuto che dice loro di calare nuovamente la rete.
Ne consegue una pesca eccezionale. Quando finalmente la rete si gonfia per l’enorme numero dei pesci, Giovanni per primo capisce che lo Sconosciuto è proprio il Signore e lo dice subito a Pietro, il quale agisce in modo impulsivo, com’è suo costume: immediatamente si tuffa in acqua per andargli incontro. Gesù sta ad attenderli a riva; ha acceso un fuoco e ha preparato il pasto.
Pietro è il vero testimone della fragilità che tutti ci portiamo addosso e ora rimane lì, sorpreso, assaporando il mistero di una presenza familiare, conosciuta e amata; prova un misto di vergogna per il suo triplice rinnegamento e allo stesso tempo un sentimento di profonda gioia e sente anche che il pane spezzato tante volte insieme ora ha un sapore nuovo.
“Quand'ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pasci i miei agnelli». Gli disse di nuovo, per la seconda volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pascola le mie pecore». Gli disse per la terza volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?». Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli domandasse: «Mi vuoi bene?», e gli disse: «Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene». Gli rispose Gesù: «Pasci le mie pecore»” (Gv 21,15-17).
Tre domande, come nella sera dei tradimenti, attorno al fuoco nel cortile di Caifa, quando Cefa, la Roccia, ebbe paura di una serva. Per Pietro non è facile rispondere a queste tre domande, ma ha rinnegato il suo Signore e Redentore per tre volte e per tre volte deve riparare il peccato del suo tradimento mediante la confessione del suo amore.
Gesù non rimprovera, non accusa, non chiede spiegazioni, non ricatta emotivamente; non gli interessa giudicare, per Lui nessun uomo è il suo peccato, ognuno vale quanto vale il suo Cuore: Pietro, mi ami tu, adesso? E da parte di Pietro tre dichiarazioni d'amore a ricomporre la sua innocenza, a guarirlo alla radice dai tre rinnegamenti.
La confessione dell’amore deve riparare la colpa passata e allo stesso tempo porre il fondamento per il suo futuro ministero pastorale: «Simone di Giovanni, mi vuoi bene tu più di costoro?» (Gv 21,15). Il Signore vuole che Pietro lo ami più degli altri. La triplice domanda sull’amore e il triplice mandato di pascere le pecore esprimono chiaramente che il ministero pastorale nella Chiesa è legato all’amore. Solo coloro che hanno fatto l’esperienza di essere perdonati e amano il Signore potranno pascere il gregge di Dio e amarlo veramente.
Dobbiamo chiedere al Signore numerosi Sacerdoti i quali, dopo aver fatto l’esperienza personale della dolcezza del perdono, ci assicurino che se anche per mille volte l’avremo tradito, il Signore per mille volte ci chiederà soltanto questo: Mi vuoi bene? E noi, non potremo fare altro che rispondere per mille volte, soltanto questo: Ti voglio bene.
Ecco la speranza che possiamo coltivare perché Colui che fu crocifisso a causa delle nostre colpe è risorto a Pasqua per la nostra giustificazione.
Esercitate la carità,
ma esercitatela con entusiasmo.
Giuseppe Benedetto Cottolengo nacque a Bra (Cuneo) il 3 maggio 1786, primogenito di dodici fratelli, da un modesto esattore del pubblico erario. Dalla mamma ereditò quel tenero amore per i poveri e i malati che lo contraddistinse per l’intera vita.
Crebbe con una corporatura assai gracile ed a scuola, dove assolutamente non eccelleva, solo dopo una novena a San Tommaso d’Aquino poté divenire uno dei primi della classe. All’età di soli dieci anni Giuseppe si propose di vivere alla presenza di Dio e di farsi santo. Trasportato da un innato fervore religioso, di giorno era solito animare la casa con i canti imparati in parrocchia ed alla sera, con il rumore di un ferro di cucina, richiamava i familiari a pregare dinanzi al quadro della Vergine Maria.
Ben presto divenne terziario francescano; il 2 ottobre 1802 ricevette la veste talare dalle mani del suo parroco. Nel 1805 entrò nel seminario di Asti, che però dopo due anni fu chiuso ed il santo fu costretto a continuare in famiglia gli studi sino all’ordinazione presbiterale, che gli fu conferita l’8 giugno 1811.
Rendendosi conto della deficienza degli studi teologici condotti, chiese con insistenza di poter integrare i suoi studi a Torino. Nel 1816 finalmente conseguì così il dottorato in teologia.
Dopo aver svolto ancora per due anni il suo ministero nella terra natia, nel 1818 ricevette la nomina a canonico della basilica torinese del Corpus Domini, dove per nove anni profuse instancabilmente le sue forze, chiedendo al sacrista di lasciare in pace i canonici più anziani: “Io sono giovane, diceva, chiamate me per ogni occorrenza. Che ci sto qui a fare se non mi occupo?”.
Divenne così ben presto l’apostolo della confessione, il consolatore dei malati ed il soccorritore dei poveri. A questi ultimi donava tutto quanto gli fosse possibile: i compensi delle predicazioni, le elemosine delle Messe, i regali ricevuti dalla famiglia e le elargizioni dei bottegai. Per sollevare dalla miseria il più grande numero possibile di indigenti il Cottolengo persino d’inverno faceva economia nel proprio abbigliamento e nel riscaldamento. I torinesi del tempo presero a chiamarlo il “canonico buono”, ma il santo preferiva continuare a considerarsi un contadino di Bra incapace di tutto se non che di piantare cavoli.
Egli percepiva però che quella non era veramente la sua vocazione e pensò di essere chiamato alla vita religiosa, ma il suo confessore Padre Fontana, oratoriano di San Filippo Neri, all’inizio del 1826 gli disse apertamente: “Voi non sarete né Filippino, né claustrale, ma un povero sacerdote di Torino, perché Dio vuole servirsi di voi per opere di sua gloria”.
Dopo aver letto la vita di San Vincenzo de’ Paoli, il Cottolengo comprese allora che la sua vera strada era quella della carità. La definitiva vocazione gli fu svelata da un pietoso episodio nel settembre 1827, quando la famiglia Gonet, con tre bambini, transitante da Milano a Lione, aveva trovato ristoro in un’osteria della parrocchia del Corpus Domini di Torino. La moglie si disponeva già a ripartire, quando, colta da grave malore, morì assistita dal “Canonico buono” dopo essere stata respinta dall’ospedale dei tubercolotici poiché incinta e dall’ospizio di maternità in quanto malata.
Il santo pensò allora di istituire un ricovero che potesse spalancare le porte ad ogni sorta di infelici. L’opera prese il via il 17 gennaio 1828 con quattro letti in alcune stanze affittate nella casa detta della Volta Rossa. Non mancò di trovare forte opposizione tra i confratelli ed i parenti, ma a tutti Padre Fontana ripeteva: “Lasciatelo fare”. I primi collaboratori furono il medico Lorenzo Granetti, il farmacista regio Paolo Anglesio e dodici visitatrici dei malati dette “Dame di Carità”, che riunì sotto la direzione della ricca vedova Marianna Nasi.
Quando a Torino nel 1831 scoppiò il colera, l’ospedaletto fu chiuso a causa del pericolo di contagi. Il Cottolengo allora, convinto che “i cavoli, perché prosperino, devono essere trapiantati”, comprò un casetta a Valdocco, proprio nella zona ove poco dopo sarebbe fiorite anche le opere fondate da Giulia di Barolo e San Giovanni Bosco, e vi si trasferì il 27 aprile 1832 con due suore ed un canceroso, adagiato su di un carretto trainato da un asinello.
Queste furono le umilissime origini della Piccola Casa della Divina Provvidenza. Il vasto terreno, con l’aiuto di parecchi benefattori e specialmente del Cavalier Ferrero, si costellò ben presto di vari ospedaletti, asili e orfanotrofi. L’unico valido mezzo per portare a compimento la grandiosa opera fu un’illimitata fiducia nella Provvidenza Divina, invocata con costante orazione, e nessuna diretta richiesta fu mai rivolta alla generosità dei torinesi o della corte.
Per non far torto alla Provvidenza, il padre fondatore non volle saperne di contabilità o di rendiconti, profondamente convinto che “a chi straordinariamente confida, Dio straordinariamente provvede”. Sulle sue labbra non risuonavano che espressioni del tipo “Avanti in Domino, Provvidenza e Deo gratis”.
Nel 1833 il re Carlo Alberto di Savoia eresse l’opera ad ente morale e nominò il Giuseppe Benedetto Cottolengo cavaliere dell’Ordine Mauriziano. Il santo accettò sentenziando: “Passino i doni ai miei poveri. Io ritengo la croce. Provvidenza e croce sono due cose che vanno unite”.
Al termine dell’anno era già pronto un primo grande ospedale da 200 posti letto, al quale ne seguì un altro per tutti i soggetti rifiutati dalla società. Egli stesso riceveva i malati alla porta a capo scoperto, per affidarli alle suore dicendo: “Sono doni di Dio. Siano le vostre pietre preziose”.
Al servizio di questa nascente cittadella della carità, il Cottolengo istituì nel 1833 le Suore Vincenzine; nel 1841 le Suore della Divina Pastora per curare la preparazione delle ricoverate ai sacramenti; nel 1839 le Suore Carmelitane Scalze dedite alla via contemplativa; nel 1840 le Suore del Suffragio per i lavori di cucito e le Suore Penitenti di Santa Taide per la conversione delle traviate; infine nel 1841 le Suore della Pietà per assistere i morenti. Era solito ripetere alle sue più strette collaboratrici: “Presenza di Dio, occhi bassi, testa alta, abitino al collo e rosario al fianco. Così, in mezzo ad un reggimento di soldati, sarete senza timore”.
Per l’assistenza ai malati di sesso maschile istituì i “Fratelli di San Vincenzo”, per l’amministrazione dei sacramenti i “Sacerdoti della Santissima Trinità”, nonché il reparto giovanile dei “Tommasini”, cioè seminaristi aspiranti al sacerdozio.
A tutti ripeteva spesso: “Non lasciate mai, a qualunque costo, la comunione quotidiana! Ciò che tiene in piedi la Piccola Casa sono le preghiere e la comunione”. Infatti, quando era a corto di viveri o di soldi, il santo era solito inginocchiarsi ai piedi della Vergine ed ottenere così infallibilmente tutto quanto gli occorreva.
Il Papa Gregorio XVI con un breve approvò l’operato del Cottolengo, ma il padre dei poveri non si montò la testa e continuò ad essere l’umile servo della Divina Provvidenza, sempre pronto a giocare con i più idioti, a trasportare fasci di legna o ceste di verdure, a fare le pulizie calzando zoccoli di legno e rivestito di una vecchia tonaca, restando nella sua ferma convinzione di essere soltanto un contadino capace di piantare cavoli. Eppure Dio gli aveva addirittura concesso il dono di leggere nei cuori altrui, di prevedere il futuro e di conoscere anche le circostanze della propria morte.
Nel febbraio 1842 il santo passò diverse settimane a sbrigare affari che non parevano urgenti, poi visitò tutte le case che aveva fondato ed ovunque lasciò chiaramente intendere che quello era il suo ultimo addio. “Pregate per me, che sono alla fine dei miei giorni. Vi benedico per l’ultima volta. Ora non posso più nulla per la Piccola Casa, ma giunto in cielo pregherò e continuerò ad essere il vostro padre, e voi ricordate le parole che vi disse questo povero vecchio”.
Il 21 aprile 1842 affidò al Canonico Luigi Anglesio la direzione della sua opera per potersi ritirare presso il fratello, canonico nella collegiata di Chieri. In tale città morì santamente il 30 aprile 1842, dopo aver esclamato: “Mi sono rallegrato perché mi è stato detto: Andiamo nella casa del Signore”.
Giuseppe Benedetto Cottolengo fu sepolto a Torino nella Piccola Casa della Divina Provvidenza, in una cappella della chiesa principale, dove riposa ancora oggi.
In seguito ai numerosi miracoli verificatisi per sua intercessione, il pontefice Benedetto XV lo beatificò il 28 aprile 1917, Pio XI infine lo canonizzò il 19 marzo 1934 e per le sue peculiari opere caritatevoli ha meritato di essere citato nella prima lettera enciclica del papa Benedetto XVI “Deus caritas est”.
Da “santi e beati”
"Dio è Padre"
( San Luigi Guanella)
Luigi Guanella nacque a Fraciscio di Campodolcino (Sondrio) nel 1842. La sua valle e il paese (m. 1350 sul mare) sono nelle Alpi Retiche. Fin dall'antichità vi si stabilirono delle comunità vissute, con fatica e stento, di agricoltura alpina e di allevamento e la cui storia, economia e struttura sociale fino al 1800 sono segnate dalla posizione geografica della valle chiusa sui due lati da due catene di monti altissimi, ma soggetta a invasioni di transito. La valle segna la via più breve di comunicazione tra il sud e il nord delle Alpi centrali, conferendo qualche vantaggio, soprattutto i privilegi di una certa libertà comunale concessa perché gli abitanti non ostacolassero le comunicazioni commerciali o militari. Fieri di questa libertà, fervidamente attaccati alla religione cattolica in contrasto col confinante canton Grigioni riformato, vivevano in povertà, dediti ai più duri lavori per garantirsi il minimo di sopravvivenza. Le qualità che ne riportò Guanella furono l'abitudine al sacrificio e al lavoro, l'autonomia, la pazienza e la fermezza nelle decisioni, insieme a grande fede.
Queste qualità si rafforzarono nella famiglia: il padre Lorenzo, per 24 anni sindaco di Campodolcino sotto il governo austriaco e dopo l'unificazione (1859), severo e autoritario, la madre Maria Bianchi, dolce e paziente, e 13 figli quasi tutti arrivati all'età adulta.
A dodici anni ottenne un posto gratuito nel collegio Gallio di Como e proseguì poi gli studi nei seminari diocesani (1854-1866). La sua formazione culturale e spirituale è quella comune ai seminari nel Lombardo-Veneto, per lungo periodo sotto il controllo dei governanti austriaci; il corso teologico era povero di contenuto culturale, ma attento agli aspetti pastorali e pratici: teologia morale, riti, predicazione e, di più, alla formazione personale: pietà, santità, fedeltà. La vita cristiana e sacerdotale si alimentava alla devozione comune fra la popolazione cristiana. Questa impostazione concreta pose il giovane seminarista e sacerdote assai vicino al popolo e a contatto con la vita che esso conduceva. Quando tornava al paese per le vacanze autunnali si immergeva nella povertà delle valli alpine; si interessava dei bambini e degli anziani e ammalati del paese, passando i mesi nella cura di questi, e nei ritagli si appassionava alla questione sociale, raccoglieva e studiava erbe medicinali, si infervorava leggendo la storia della Chiesa.
In seminario teologico entrò in familiarità col vescovo di Foggia, Bernardino Frascolla, rinchiuso nel carcere di Como, poi a domicilio coatto in seminario (1864-66), e si rese conto della ostilità che dominava le relazioni dello stato unitario verso la Chiesa. Questo vescovo ordinò Guanella sacerdote il 26 maggio 1866.
Entrò con entusiasmo nella vita pastorale in Valchiavenna (Prosto, 1866 e Savogno, 1867-1875) e, dopo un triennio salesiano, fu di nuovo in parrocchia in Valtellina (Traona, 1878-1881), per pochi mesi a Olmo e infine a Pianello Lario (Como, 1881-1890).
Fin dagli inizi a Savogno rivelò i suoi interessi pastorali: l'istruzione dei ragazzi e degli adulti, l'elevazione religiosa, morale e sociale dei suoi parrocchiani, con la difesa del popolo dagli assalti del liberalismo e con l'attenzione privilegiata ai più poveri. Non disdegnava interventi battaglieri, quando si vedeva ingiustamente frenato o contraddetto dalle autorità civili nel suo ministero, così che venne presto segnato fra i soggetti pericolosi ("legge dei sospetti"), specialmente dal momento che pubblicò un libretto polemico. Nel frattempo a Savogno approfondiva la conoscenza di don Bosco e dell'opera del Cottolengo; invitò don Bosco ad aprire un collegio in valle; ma, non potendo realizzare il progetto, il G. ottenne di andare per un certo periodo da don Bosco.
Richiamato in diocesi dal Vescovo, aprì in Traona un collegio di tipo salesiano; ma anche qui venne ostacolato; si andò a rimestare le controversie di Savogno e gli fu imposto di chiudere il collegio. Si mise a disposizione del vescovo con obbedienza eroica. Mandato a Pianello poté dedicarsi all'attività di assistenza ai poveri, rilevando l'Ospizio fondato dal predecessore don Carlo Coppini, con alcune orsoline che organizzò in congregazione religiosa (Figlie di S. Maria della Provvidenza) e con queste avviò la Casa della Divina Provvidenza in Como (1886), con la collaborazione di suor Marcellina Bosatta e della sorella Beata Chiara. La Casa ebbe subito un rapido sviluppo, allargando l'assistenza dal ramo femminile a quello maschile (congregazione dei Servi della Carità), benedetta e sostenuta dal Vescovo B. Andrea Ferrari. L'opera si estese ben presto anche fuori città: nelle province di Milano (1891), Pavia, Sondrio, Rovigo, Roma (1903), a Cosenza e altrove, in Svizzera e negli Stati Uniti d'America (1912), sotto la protezione e l'amicizia di S. Pio X. Nell'opera maschile ebbe come collaboratori esimi don Aurelio Bacciarini, poi vescovo di Lugano, e don Leonardo Mazzucchi.
Le opere e gli scopi che cadono sotto l'attenzione del Guanella (e gli impedirono di fermarsi con don Bosco) sono quelli tipici della sua terra di origine. Molti i bisognosi: bambini e giovani, anziani lasciati soli, emarginati, handicappati psichici (ma anche ciechi, sordomuti, storpi): tutta la fascia intermedia tra i giovani di don Bosco e gli inabili del Cottolengo, persone ancora capaci di una ripresa: terreno duro e arido come la sua terra natale, ma che, lavorato con amore (nelle scuole, laboratori, colonie agricole) può dare frutti insperati.
Il suo carisma è l'annuncio biblico della paternità di Dio che per Guanella costituisce un'esperienza personale profonda, di carattere mistico e profetico, e dà alla sua santità e missione una dimensione tipica e qualificata; esperienza che vuole partecipare specialmente ai più poveri e abbandonati: Dio è padre di tutti e non dimentica né emargina i suoi figli.
Notevoli i suoi due scritti: Andiamo al Padre (1880) e Il Fondamento (1885). Le sue case si organizzano coerentemente in strutture a misura d'uomo, con spirito di famiglia e adattano un proprio metodo preventivo (Regolamento dei Servi della Carità, l905), affidate alla paternità di Dio. La guida e la conduzione di tutto sono affidate a lui: "è Dio che fa".
La santità di Luigi Guanella. sta nella perfezione non solo morale, ma ontologica, conforme alla sua esperienza della paternità di Dio. Cercò sempre, fin dalla giovinezza, una coerenza tra il pensare, credere e agire; lo nota fin dal ginnasio il suo insegnante di religione: “Cerca con singolare diligenza di approfondire tutte le parti dell'insegnamento, sente ed ama quel che impara e ne informa la vita”. Come sacerdote, ministro di Dio, il suo incontro con Dio Padre fu partecipazione alla sua carità immensa, alla onnipotenza creatrice e provvidente, alla misericordia incarnata e redentrice e divenne crocevia di incontro degli uomini con Dio, attraverso e mediante la carità del santo verso i fratelli bisognosi.
Si aggiungano le forme proprie del tempo: le devozioni al S. Cuore, alla Vergine Immacolata e un'ascetica austera di penitenze, di preghiere, di severità e osservanza, di lavoro e sacrificio per la missione della carità; in uno stile di semplicità, tolleranza, misericordia, speranza gioiosa, quasi in contrasto col suo carattere energico, volitivo, fatto per rompere gli indugi, qualche volta impulsivo e irascibile. Univa una volontà indomabile. Su questa via verso la santità guidò la discepola beata suor Chiara Bosatta, capolavoro della sua arte di educatore e di direttore spirituale.
Guanella è stato proclamato beato da Paolo VI il 25 ottobre 1964 ed è stato canonizzato a Roma da Papa Benedetto XVI il 23 ottobre 2011. Il suo corpo è venerato nel Santuario del S. Cuore in Como.
La festa liturgica è il 24 ottobre.
In generale, ai fini della beatificazione, la Chiesa cattolica ritiene necessario un miracolo. Il 21 maggio 1963 la consulta medica, nominata dalla Congregazione per le Cause dei Santi, diede giudizio pienamente favorevole sulle guarigioni sottoposte alla sua attenzione, relative alla beatificazione del venerabile Luigi Guanella. Queste riguardavano Marta Uri e Teresa Pighin.
La prima era guarita da "Peritonite acuta diffusa ipertossica, con prognosi infausta quo ad vitam, in presenza di terapia inefficiente". La guarigione era stata giudicata "istantanea, perfetta, duratura e inspiegabile naturalmente".
La seconda era guarita da "Paraparesi spastica di Pott, con gravissime atrofie muscolari, rigidità articolare e atteggiamenti viziati degli arti inferiori, in soggetto con esiti sclerotici di tubercolosi polmonari". La prognosi era stata "Estremamente riservata quo ad valetudinem et quo ad functionem". La guarigione era stata giudicata "Istantanea, perfetta, duratura, inspiegabile quo ad modum".
Ai fini della canonizzazione la Chiesa cattolica ritiene necessario un secondo miracolo, dopo quello richiesto per la beatificazione: nel caso del beato Luigi Guanella ha ritenuto miracolosa la guarigione di William Glisson, appartenente all'Arcidiocesi di Filadelfia.
Questi, la sera del 15 marzo 2002, era stato vittima di un grave incidente, mentre pattinava sulla Baltimore Pike di Springfield a forte velocità e senza casco. A causa di una caduta aveva riportato un forte trauma cranico occipitale. Al "Crozer Keystone Hospital", centro altamente specializzato, i medici gli avevano diagnosticato uno stato di coma profondo. Veniva sottoposto a due successivi interventi neurochirurgici, senza alcun miglioramento.
Il 19 marzo la dottoressa Noreen M. Yoder, amica di famiglia, consegnò alla madre di William due reliquie di don Guanella, una delle quali fu applicata al polso del figlio. Iniziò anche una serie di preghiere per ottenere l'intercessione del beato. Il 25 marzo iniziarono dei miglioramenti, il 9 aprile William venne dimesso dall'ospedale e iniziò un programma di rieducazione funzionale neuromotoria. Dopo due mesi il recupero fu completo, senza lasciare deficit cognitivi o neuropsichici. Otto mesi dopo l'incidente il giovane riprese a lavorare, nel 2008 si è sposato e attualmente conduce una vita perfettamente normale.
Riflessione del mese di marzo 2021
San Giuseppe e il Sacerdote
Il mese di marzo è dedicato da sempre a san Giuseppe. Ma chi è veramente san Giuseppe? Ce lo dice l’evangelista Matteo: «Giuseppe figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. Ella partorirà un figlio, e tu lo chiamerai Gesù; egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati» (Mt 1,20-21). In queste parole è racchiuso il nucleo centrale della verità biblica su san Giuseppe.
L’8 dicembre 1870 – Papa Pio IX nel decreto «Quemadmodum Deus» affida la Chiesa alla protezione di San Giuseppe e lo proclama «Patrono della Chiesa universale».
L’8 dicembre 2020, nel 150° anniversario della dichiarazione di San Giuseppe quale Patrono della Chiesa universale papa Francesco con lettera Apostolica intitolata “Patris corde”, ha indetto l’anno dedicato a san Giuseppe.
Il papa nella sua lettera dice: “Con cuore di padre. Così Giuseppe ha amato Gesù, chiamato in tutti e quattro i Vangeli «il figlio di Giuseppe». Giuseppe vide crescere Gesù giorno dopo giorno «in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2,52). Come il Signore fece con Israele, così egli “gli ha insegnato a camminare, tenendolo per mano: era per lui come il padre che solleva un bimbo alla sua guancia, si chinava su di lui per dargli da mangiare” (cfr Os 11,3-4). Gesù ha visto la tenerezza di Dio in Giuseppe: «Come è tenero un padre verso i figli, così il Signore è tenero verso quelli che lo temono» (Sal 103,13)”.
Nell’ angelus della IV Domenica d'Avvento, 18 dicembre 2005, Benedetto XVI diceva: «E' l'evangelista Matteo a dare maggior risalto al padre putativo di Gesù, sottolineando che, per suo tramite, il Bambino risultava legalmente inserito nella discendenza davidica e realizzava così le Scritture, nelle quali il Messia era profetizzato come "figlio di Davide". Ma il ruolo di Giuseppe non può certo ridursi a questo aspetto legale. Egli è modello dell'uomo "giusto" (Mt 1,19), che in perfetta sintonia con la sua sposa accoglie il Figlio di Dio fatto uomo e veglia sulla sua crescita umana. L'amato Papa Giovanni Paolo II, che era molto devoto di san Giuseppe, ci ha lasciato una mirabile meditazione a lui dedicata nell'Esortazione apostolica Redemptoris Custos, "Custode del Redentore". Tra i molti aspetti che pone in luce, un accento particolare dedica al silenzio di san Giuseppe. Il suo è un silenzio permeato di contemplazione del mistero di Dio, in atteggiamento di totale disponibilità ai voleri divini. In altre parole, il silenzio di san Giuseppe non manifesta un vuoto interiore, ma, al contrario, la pienezza di fede che egli porta nel cuore, e che guida ogni suo pensiero ed ogni sua azione. Un silenzio grazie al quale Giuseppe, all'unisono con Maria, custodisce la Parola di Dio, conosciuta attraverso le Sacre Scritture, confrontandola continuamente con gli avvenimenti della vita di Gesù; un silenzio intessuto di preghiera costante, preghiera di benedizione del Signore, di adorazione della sua santa volontà e di affidamento senza riserve alla sua provvidenza. Non si esagera se si pensa che proprio dal "padre" Giuseppe, Gesù abbia appreso sul piano umano quella robusta interiorità che è presupposto dell'autentica giustizia, la "giustizia superiore", che Egli un giorno insegnerà ai suoi discepoli (cfr Mt 5,20).
E il papa Paolo VI, nella sua omelia del 19 marzo 1969, dice: “Nessuna parola di lui è registrata nel Vangelo; il suo linguaggio è il silenzio, è l’obbedienza pronta e generosa, è il lavoro manuale espresso nelle forme più modeste e più faticose, quelle che valsero a Gesù Ia qualifica di «figlio del falegname» (Matth. 13, 55); e null’altro: si direbbe la sua una vita oscura, quella d’un semplice artigiano, priva di qualsiasi accenno di personale grandezza. Giuseppe, il Vangelo lo definisce giusto (Matt. 1, 19); e lode più densa di virtù e più alta di merito non potrebbe essere attribuita ad un uomo di umile condizione sociale ed evidentemente alieno dal compiere grandi gesti. Un uomo povero, onesto, laborioso, timido forse, ma che ha una sua insondabile vita interiore, dalla quale vengono a lui ordini e conforti singolarissimi, e derivano a lui la logica e la forza, propria delle anime semplici e limpide, delle grandi decisioni”.
Quale modello più grande per il Sacerdote?
Preghiamo questo grande Santo perché il suo esempio incoraggi ogni sacerdote a dare molta importanza alla propria vita interiore, perché da essa dipende la fedeltà a Dio e la fecondità del ministero.
Fuoco nella Chiesa Ambrosiana:
Cardinale Ildefonso Schuster
Nato a Roma il 18 gennaio 1880 da Giovanni, caposarto degli zuavi pontifici, e da Maria Anna Tutzer, fu battezzato il 20 gennaio. Rimasto all’età di undici anni orfano di padre, e viste le sue doti per studio e la sua pietà, fu fatto entrare dal barone Pfiffer d’Altishofen nello studentato di S. Paolo fuori le mura. Ebbe come maestri il Beato Placido Riccardi e don Bonifacio Oslander che l’educarono alla preghiera , all’ascesi e allo studio (si laureò in filosofia al Collegio Pontificio di Sant’Anselmo a Roma).
Fu monaco esemplare e il 19 marzo 1904 venne ordinato sacerdote in San Giovanni in Laterano. Gli furono affidati incarichi gravosi, che manifestavano però in se la stima e la fiducia nei suoi confronti. A soli 28 anni era maestro dei novizi, poi procuratore generale della Congregazione Cassinese, successivamente priore claustrale e infine abate ordinario di San Paolo fuori le mura (1918). L’amore per lo studio, che fanno di lui un vero figlio di San Benedetto, non verrà meno a causa dei suoi innumerevoli impegni che sempre più occuperanno il suo tempo e il suo ministero. Grande infatti fu la sua passione per l’archeologia, l’arte sacra, la storia monastica e liturgica.
Gli infiniti impegni lo porteranno dalla cattedra di insegnante alla visita, come Visitatore Apostolico, dei Seminari. Il 26 giugno 1929 fu nominato da papa Pio XI arcivescovo di Milano; il 15 fu nominato cardinale e il 21 luglio consacrato vescovo nella suggestiva cornice della Cappella Sistina. Ebbe inizio così il suo ministero di vescovo nella Chiesa Ambrosiana. Prese come modello il suo predecessore il Santo vescovo Carlo Borromeo e di lui imitò anzitutto lo zelo nel difendere la purezza della fede, nel promuovere la salvezza delle anime, incrementandone la pietà attraverso la vita sacramentale e la conoscenza della dottrina cristiana. A testimonianza di ciò sono le numerose lettere al clero e al popolo, le assidue visite pastorali, le minuziose e dettagliate prescrizioni specialmente in ordine al decoro del culto divino, i frequenti sinodi diocesani e i due congressi eucaristici. La sua presenza tra il popolo fu continua e costante. Per questo non mancò mai ai riti festivi in Duomo, moltiplicò le consacrazioni di chiese e altari, le traslazioni di sacre reliquie, eccetera.
Sotto la porpora cardinalizia continuava tuttavia a battere il cuore del monaco, affascinato da Dio, innamorato della preghiera, portato per natura al silenzio ed alla contemplazione. Dal fisico esile e fragile, sotto le vesti liturgiche diventa un gigante: «Si vedeva un santo a colloquio con l’invisibile potenza di Dio», ricordano i testimoni, «non si poteva guardarlo senza essere scossi da un brivido religioso».
Oltre che pastore di anime, fu un fine studioso di storia, di catechesi, di archeologia e di arte, ma prima di tutto fu un liturgo, convinto che la liturgia «è per eccellenza la preghiera della Chiesa», l’unica vera “devozione” di ogni cristiano, che non deve andare in cerca di altre “devozioni”.
La sua continua dedizione a Dio e al suo popolo lo avevano portato allo stremo delle forze. Allora si era lasciato persuadere dai medici di trascorrere un periodo di riposo. Scelse come luogo il seminario di Venegono, da lui fatto costruire come un’abbazia in cima ad un colle, mistica cittadella di preghiera e studio.
Qui si spense il 30 agosto 1954 congedandosi dai suoi seminaristi con queste parole: “ Voi desiderate un ricordo da me. Altro ricordo non ho da darvi che un invito alla santità. La gente pare che non si lasci più convincere dalla nostra predicazione, ma di fronte alla santità, ancora crede, ancora si inginocchia e prega. La gente pare che viva ignara delle realtà soprannaturali, indifferente ai problemi della salvezza. Ma se un Santo autentico, o vivo o morto, passa, tutti accorrono al suo passaggio. Ricordate le folle intorno alla bara di don Orione? Non dimenticate che il diavolo non ha paura dei nostri campi sportivi e dei nostri cinematografi: ha paura, invece, della nostra santità”.
Pochi giorni dopo, l’impressionante corteo che accompagnava la salma del cardinale Schuster da Venegono a Milano confermava che “ quando passa un Santo, tutti accorrono al suo passaggio”. Il processo di beatificazione ebbe inizio nel 1957 e si concluse nel 1995 con l’approvazione del miracolo ottenuto per sua intercessione: la guarigione di suor Maria Emilia Brusati, da glaucoma bilaterale. La proclamazione solenne di beatificazione è del 12 maggio 1996. La memoria liturgica è il 30 agosto.
Da santi e beati
L'angelo di Marzabotto:
don Giovanni Fornasini
Nacque a Pianaccio di Lizzano in Belvedere (Bologna) il 23 febbraio 1915 da Angelo e Maria Guccini. Nel 1925 la famiglia si trasferì a Bagni della Porretta (attuale Porretta Terme) dove il padre era procaccia postale, ed abitò in una casetta sul Rio Maggiore, presso le terme alte.
Terminate le scuole elementari frequentò la scuola di Avviamento Commerciale presso il Collegio Albergati.
A Porretta Giovanni prestò servizio come chierico vestendo solo la cotta bianca perché non si trovava una veste abbastanza lunga per lui, magro e molto alto. Qui maturò la sua vocazione e nell’ottobre del 1931 entrò nel Seminario di Borgo Capanne.
Successivamente frequentò gli studi prima, presso il Seminario Arcivescovile di Villa Revedin poi, nel Pontificio Seminario Regionale di Bologna. Venne ordinato diacono nel 1941 e nel medesimo anno l’Arcivescovo lo destinò alla parrocchia di San Tommaso a Sperticano come coadiutore, nei giorni festivi, dell’anziano parroco don Giovanni Roda. Qui rimase per un anno e, dopo aver ricevuto l’ordinazione sacerdotale, il 28 giugno 1942, nella cattedrale di San Pietro a Bologna dall’Arcivescovo Cardinale Giovanni Battista Nasalli Rocca, venne nominato Vicario Adiutore della medesima parrocchia.
Celebrò le sue prime messe a Pianaccio, a San Luca ed a Porretta, dove disse fra l’altro, nell’omelia: “Il Signore mi ha scelto monello fra i monelli ...”. Il 20 luglio dello stesso anno morì l’anziano parroco Don Roda e don Giovanni gli succedette come parroco il 21 agosto 1942.
Iniziò la sua attività pastorale nel difficile periodo bellico mostrando fin da subito grande zelo che si concretizzò in molteplici atti di carità, di bontà ed in una costante attenzione per i suoi parrocchiani. Si prodigò anche in campo educativo cercando di aprire una scuola simile a quella da lui frequentata a Porretta.
Dopo il bombardamento su Bologna del 1943 accolse in canonica molti sfollati. In sella all’affezionata bicicletta si recò ovunque ad aiutare i confratelli sacerdoti anziani e fu pure presente, il 27 novembre 1943, a Lama di Reno per soccorrere i tanti feriti del tragico bombardamento aereo: era dovunque presente e sorridente, ad aiutare chiunque avesse bisogno.
Quando il fronte arrivò intensificò il suo impegno prestandosi spesso, senza timore, a fare da portavoce e difensore della popolazione, affrontando con coraggio e dolce insistenza, come un angelo biblico, molte emergenze e situazioni pericolose. Non dimostrò alcuna paura a trattare con l’esercito occupante, sostenuto dalla sua grande fede e dalla sua coerenza sacerdotale.
Nel maggio del 1944 i tedeschi compirono numerose rappresaglie e don Giovanni, incurante del pericolo, corse a seppellire i morti.
Scrisse il suo testamento il 10 settembre 1944, consapevole dei pericoli che stava correndo, un mese prima del suo olocausto. A difesa di una ragazza che un ufficiale SS aveva adocchiato in canonica fu costretto a partecipare ad una sguaiata festa dei tedeschi dove venne insultato e sbeffeggiato, ma riuscì a resistere ed a difendere la giovane.
Il giorno seguente, 13 ottobre, seguì i tedeschi verso Caprara sopra Panico, salutando la madre con poche parole: “Quando tornerò mi vedrete ...”. Non tornò e la sua morte è ancora oggi avvolta nel “mistero”, non si conoscono, infatti, le ragioni, il modo e chi ne è stato l’autore. Il suo corpo martoriato fu ritrovato solo a fine guerra, il 22 aprile dell’anno successivo, presso il cimitero di San Martino con la testa staccata dal corpo.
Così chiudeva la sua troppo breve vita Don Giovanni Fornasini e poteva ripetere veramente per sé le parole del vangelo: “Il buon pastore dà la vita per le sue pecorelle”.
Fu chiamato “l’angelo di Marzabotto”.
Gli è stata conferita la medaglia d’oro al valor militare alla memoria. Nel 1963 gli venne intitolato il Circolo giovanile della Parrocchia di Porretta Terme.
Il 18 ottobre 1998 l’Arcivescovo di Bologna, il cardinale Giacomo Biffi, aprì a Marzabotto il processo diocesano per la beatificazione di don Fornasini e di altri due sacerdoti (don Ferdinando Casagrande e don Ubaldo Marchioni) considerati “martiri di Monte Sole”. Il processo venne concluso il 6 novembre 2011.
Il 21 gennaio 2021, ricevendo in udienza il cardinal Marcello Semeraro, Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, papa Francesco autorizzò la promulgazione del decreto con cui don Fornasini veniva dichiarato ufficialmente martire, aprendo la via alla sua beatificazione.
"Da santi e beati".