Ieri sera, 28 giugno 2019, alle ore 19:30 nella parrocchia dedicata al Sacro Cuore di Gesù, in località san Bernardo-San Luis-Ma-Brasile quattro nostre novizie: Adriany Luz, Ariela Oliveira, Carmen Teixeira ed Elizandra Indami, in un clima di preghiera, di intensa commozione e di immensa gratitudine al Signore che si è degnato di chiamarle al Suo servizio e ai genitori che sono stati generosi nell’offrirGli le proprie figlie, hanno fatto la loro prima professione come Suore Oblate del Sacro cuore di Gesù. Insieme a loro due juniores: irma Maria Raimunda Ferreira e irma Sonia Maria Costa hanno fatto la loro professione perpetua, offrendo così per sempre la loro vita unicamente al Sacro Cuore di Gesù, per consolarlo e per chiedergli tanti sacerdoti santi. Preghiamo perché loro per prime siano sante Oblate.

Chiamate all'amore

Ieri sera, 27 giugno 2019, vigilia della solennità del Sacro Cuore di Gesù, in un clima di grande gioia, nella chiesa del Sacro Cuore di Gesù, in San Bernardo-san Luis-Ma in Brasile, quattro nostre novizie hanno ricevuto l'abito religioso, che indosseranno stasera al momento della loro prima professione religiosa come Oblate del Sacro Cuore di Gesù, e la lampada da "mantenere accesa fino all'arrivo dello Sposo". Preghiamo perché il Signore conceda loro la perseveranza e l'amore.

« Ho incontrato Dio sulla croce »

Concepción Cabrera de Armida

La Beata Concepción Cabrera de Armida, conosciuta familiarmente come “Conchita” nacque a San Luis Potosí, (Messico) l’otto dicembre del 1862 da Octaviano Cabrera Lacavex e Clara Arias Rivera, due genitori profondamente cristiani.

Era la settima di dodici figli. Fu battezzata due giorni dopo la nascita. Passò la sua fanciullezza in una grossa fattoria di proprietà del papà. Ricevette la sua prima educazione in famiglia. La madre le insegnò a fare i lavori domestici, ma anche a pregare e ad assistere gli ammalati. Il padre la istruì nei servizi da svolgere nella fattoria e le insegnò, con l’esempio, a venire sempre incontro ai poveri.

Conchita imparò a leggere e a scrivere in privato e poi frequentò la scuola dalle Suore della Carità.

L’8 dicembre 1872, il giorno del suo decimo compleanno, ricevette la Prima Comunione. Da allora cominciò ad andare a Messa quasi tutti i giorni e a sentirsi attratta dal silenzio e dalla preghiera.

Amava molto andare a cavallo, le piacevano i balli e le feste, si divertiva molto a sentirsi corteggiata ma avvertiva un grande vuoto dentro di sé e pregava così: «Signore, io mi sento impotente ad amarti, voglio dunque sposarmi. Dammi molti figli, affinché essi ti amino meglio di me».

Dopo un fidanzamento, durato nove anni, sposò Francisco Armida, detto Pancho, sperando che così avrebbe colmato quel vuoto, che la faceva stare male. Dopo il matrimonio chiese al marito un’unica cosa: lasciarla libera di fare la Comunione ogni giorno. Dell’Eucaristia non poteva fare a meno da quando, sedicenne, aveva cominciato a comunicarsi tutti i giorni. Questi acconsentì e la lasciò libera.

Francisco, pur essendo un uomo molto buono, manifestò un carattere assai violento – «era come polvere da sparo», scriverà lei – ma la pazienza di Conchita e gli anni di preghiera fatta insieme lo cambiarono in modo sbalorditivo. Lei lo amava di un amore «pieno di tenerezza» ma la sua preoccupazione era sempre mettere Dio al primo posto, perché era convinta che solo così poteva amare davvero suo marito.

Conchita era una perfetta donna di società: allegra, spiritosa, suonava il piano, cantava, ascoltava la radio, leggeva il quotidiano, raccoglieva in un suo taccuino le barzellette e le tirava fuori al momento opportuno. Era felice di vivere tra i suoi cari, ma si trovava perfettamente a suo agio in società sia con le persone importanti che con le modeste. Non vi era nulla di bigotto o di eccentrico nella sua condotta e nel suo aspetto. L'amore all'ordine e alla pulizia del corpo e dell'anima era caratteristico di Conchita.

A 27 anni, durante un corso di esercizi spirituali, visse la sua prima esperienza mistica. Sentì Gesù dirle: «La tua missione è di salvare le anime».

Intanto dal suo matrimonio nacquero otto figli e lei come madre, si dedicava con passione alla loro educazione. «Devo formare il cuore dei miei otto figli, lottare contro otto caratteri, mettere via il male, introdurre e sviluppare il bene».

Il 17 settembre 1901 morì all’improvviso il suo amato sposo... «che Dio mi ha dato per sedici anni, dieci mesi e nove giorni… Oh, notte di solitudine, di dolori, di sofferenza!». Oltre al dolore per la perdita del marito, Conchita visse anche lo strazio per la morte di quattro dei suoi otto figli. Carlos morì all'età di sei anni; Pedro annegò nel pozzo a quattro anni ; Pablo morì all'età di diciotto anni di tifo e la figlia Concha, entrata all'età di diciassette anni in una delle congregazioni fondate dalla stessa Conchita, morì a trentacinque anni. Il figlio Manuel entrato dai Gesuiti, dopo la professione religiosa, venne mandato dai superiori in Spagna e lei lo rivide dopo alcuni anni nel corso di un lungo viaggio. Conchita, sebbene piangesse e soffrisse come tutte le mamme, seppe trasformare tutti questi dolori in offerta gradita al Signore.

Un giorno Gesù le disse queste parole: «Tu sarai madre di un gran numero di figli spirituali, però ti costeranno mille morti da martire». Il Maestro divino pian piano la educò all'intimo raccoglimento per rendere la sua anima capace di ricevere le Sue rivelazioni: «Non voglio che tu ti disperda esteriormente con le creature. Devi vivere chiusa nel santuario tutto interiore della tua anima, perché è lì che risiede lo Spirito Santo. Lì sono le tue delizie, le tue consolazioni, il tuo riposo. Non cercarlo altrove, non lo troverai!».

A 39 anni, Conchita, rimasta vedova, iniziò a svolgere quell'apostolato al quale Gesù l'aveva preparata interiormente per anni. Per prima cosa decise di riunire alcune donne semplici dei dintorni per pregare con loro e per parlare loro dei segreti di Dio. Nei suoi scritti annota: «Sentivo in me un fuoco che bruciava e desideravo infiammare altri cuori con questa fiamma; ecco tutto! » «Il  cuore aveva trovato il suo rifugio e la pace nella solitudine e nella preghiera. Mi sentivo infiammata dal desiderio della perfezione…Avevo sete di Divino, una sete ardente di Gesù, ma mi sentivo schiacciata e come perduta in una via di fede oscura e senza speranza. Dio vuole da me che venga crocifissa dal mio fiat, che desideri le sofferenze del martirio e versi il mio sangue ogni giorno per la salvezza delle anime».

Conchita pregava continuamente, anche mentre lavorava, mentre gioiva e soffriva, mentre era tra i suoi figli, e persino al teatro ma soprattutto la notte, quand'era sola. A volte le bastava star vicino a Lui, senza parole, senza particolari sentimenti: felice solo di starGli accanto.

Desiderosa di dimostrare il proprio amore al suo Signore un giorno volle riprodurre su di sé il monogramma JHS, il cui significato è: GESU’ SALVATORE DEGLI UOMINI. Il 14 gennaio 1894, festa del Nome di Gesù, con il permesso del direttore spirituale, se lo incise sul petto con un coltello, e lo sigillò con il fuoco mentre dal suo cuore sentiva salire un’invocazione: «Gesù, Salvatore degli uomini, salvali! Salvali!».

Per cooperare con Gesù per la salvezza dei suoi fratelli Conchita fondò le “Opere della Croce”: “L’Apostolato della Croce” (1894), “Le Religiose della Croce del S. Cuore di Gesù” (1897), “L’Alleanza d’Amore con il S.Cuore di Gesù” (1909), “La Fraternità Sacerdotale” (1912). Nel 1914 cooperò con il Venerabile P. Félix de Jesùs Rouger alla fondazione dei Missionari dello Spirito Santo.

Un giorno Gesù le disse: “Ho bisogno di sacerdoti santi, che nelle mani dello Spirito Santo, saranno una grande leva per sollevare il mondo materializzato e sensuale. Forza, figlia, aiutami. C’è bisogno di una crociata per salvare i sacerdoti cattivi, bisogna santificarli….Offriti in oblazione per i miei sacerdoti. Unisciti al mio sacrificio per acquistare grazie. E’ necessario che in unione col Sacerdote eterno tu adempia al tuo ruolo di sacerdote, offrendomi al Padre per ottenere grazie e misericordia per la Chiesa e per le sue membra». E ancora: “Io amo i ministri della mia Chiesa come la pupilla dei miei occhi e perciò mi danno dolore le offese fatte a ciò che amo di più e che loro dovrebbero amare”. “I miei sacerdoti sulla terra, dopo Maria, sono l’opera perfetta del Padre, perché sono il riflesso del suo Unico Figlio… Il Padre, nella moltitudine dei sacerdoti, vede solamente un Sacerdote, vede solamente Me”. “Tu sei destinata alla santificazione delle anime e molto specialmente a quella dei sacerdoti… Verrà una pleiade di sacerdoti santi i quali incendieranno, in modo speciale, il mondo con il fuoco della Croce”.

Da allora in poi la vita di Conchita fu consacrata alla santificazione delle anime e in modo particolare a quelle dei sacerdoti. Il suo “destino” fu quello di diventare vittima a favore della santificazione dei sacerdoti. La sua è stata una specie di maternità spirituale a imitazione della maternità di Maria e il suo più ardente desidero quello di dare a Cristo molti sacerdoti santi per consolarlo.

A tale scopo offrì la sua vita: “Ti offro, o mio amatissimo Gesù attraverso il Purissimo Cuore di Maria, tutti i miei atti, senza eccezione, per la tua maggiore gloria, per la santificazione dei Sacerdoti, per la salvezza e maggiore perfezione delle anime”.

Il cuore di Conchita è stato tutto dolore perché è stato tutto amore. Le durissime penitenze alle quali si sottoponeva, erano niente rispetto all'aridità, al martirio del dubbio e al silenzio di Dio da cui fu afflitta per venti lunghi anni. Rivolgendosi affettuosamente a Gesù e gemendo gli diceva: « Ti prego e non mi rispondi! Ti cerco e non ti trovo! ». Pene morali e sofferenze fisiche furono numerose nella vita di Conchita, la quale si ammalava molto spesso.

Conchita fu molto calunniata (anche gravemente e persino presso la Santa Sede); non solo non provò mai risentimento, ma neppure si difese. Aveva la grazia di saper perdonare e se chi l’aveva offesa non osava avvicinarla e si teneva lontano, era lei stessa a fare il primo passo. Questa coraggiosa, durante il periodo delle terribili persecuzioni in Messico, spesso in casa sua nascose sacerdoti, vescovi e religiosi, mettendo a rischio la sua vita e quella dei propri cari.

«Tutta la mia vita è segnata col sigillo della croce» - aveva scritto nel luglio 1925. E così è stato: non le sono mancati nè i dolori fisici, né quelli morali nè tantomeno  quelli spirituali, sempre vissuti con amore e per amore per la santificazione dei fratelli, soprattutto sacerdoti.Trascorse gli ultimi tre mesi in mezzo ai suoi figli, tra letto e poltrona, afflitta da vari dolori: broncopolmonite, uremia, risipola; impose tuttavia al suo corpo, ormai esausto, penitenze nascoste, alle quali la spingeva l'amore per Cristo e per tutti gli uomini. Dei patimenti di Cristo lei ha sperimentato in modo speciale quelli dell'abbandono; gli ultimi giorni furono il suo Getsemani: un silenzio di Dio lungo vent'anni, un silenzio spaventoso, tentazioni contro la fede e la speranza,  un vero e proprio martirio. Chiuse la sua vita terrena in un mare di dolore. Dopo un'agonia lunga e straziante moriva in mezzo ai suoi figli, a due fratelli, ad alcuni nipoti, alcuni religiosi e alcune suore, mentre monsignor Martínez la incoraggiava e la esortava: « Si offra ancora una volta di più come vittima per i suoi figli, per i sacerdoti e per la Chiesa ».

Era il 3 marzo 1937.

Il programma spirituale tracciato da Dio con chiarezza per Conchita, quando ancora era una giovane trentatreenne si era pienamente realizzato:

« Ho incontrato Dio sulla croce ».

Quella di Conchita è una vita poliedrica, cioè presenta molteplici aspetti degni di considerazione. Lei ha scritto molto e molti hanno scritto di lei. Noi abbiamo voluto soltanto cogliere quegli aspetti che ha in comune con la Beata Teresa Casini, Fondatrice delle Suore Oblate del Sacro Cuore di Gesù:

a) la contemporaneità: Conchita è nata l’otto dicembre del 1862, Teresa il 27 ottobre 1864:

b) alla prima Gesù disse: “Io amo i ministri della mia Chiesa come la pupilla dei miei occhi e perciò mi danno dolore le offese fatte a ciò che amo di più e che loro dovrebbero amare”. “I miei sacerdoti sulla terra, dopo Maria, sono l’opera perfetta del Padre, perché sono il riflesso del suo Unico Figlio… Il Padre, nella moltitudine dei sacerdoti, vede solamente un Sacerdote, vede solamente Me”. “Tu sei destinata alla santificazione delle anime e molto specialmente a quella dei sacerdoti…”; alla seconda disse: “Il Sacerdote è parte delle mie viscere, pupilla dei miei occhi, il carattere sacerdotale è al disopra di qualunque dignità. Io ho chiamato queste anime al mio servizio dando loro una vocazione così sublime, le ho circondate di lumi e grazie dello Spirito Santo e le ho messe in mezzo alla società affinché, trattando continuamente tra essa, mi fossero tanti canali in cui le anime passassero per venire al mio cuore. Ma – aggiunse con espressione di dolore – non tutti corrispondono alla loro vocazione e con le loro infedeltà e ingratitudini trafiggono il mio cuore conficcando una spina in esso”. Mi chiese poi di riparare e consolarlo nel suo dolore.

c) Alla prima Gesù disse: “Ho bisogno di sacerdoti santi, che nelle mani dello Spirito Santo, saranno una grande leva per sollevare il mondo materializzato e sensuale. Forza, figlia, aiutami. C’è bisogno di una crociata per salvare i sacerdoti cattivi, bisogna santificarli….Offriti in oblazione per i miei sacerdoti. Unisciti al mio sacrificio per acquistare grazie. E’ necessario che in unione col Sacerdote eterno tu adempia al tuo ruolo di sacerdote, offrendomi al Padre per ottenere grazie e misericordia per la Chiesa e per le sue membra». E ancora: “Io amo i ministri della mia Chiesa come la pupilla dei miei occhi e perciò mi danno dolore le offese fatte a ciò che amo di più e che loro dovrebbero amare”; la seconda racconta: ”Un giorno stando attorno a Gesù Sacramentato (ero allora sacrestana) e trattando con Lui familiarmente, intesi che Gesù mi chiedeva 12 vittime, che si fossero offerte con lui alla giustizia del suo Divin Padre e richiese che questa offerta ciascuna la facesse con il proprio sangue. Questa richiesta mi penetrò fortemente nel cuore, io non ci avevo mai pensato, perciò mi piacque, ma volli attendere il padre Abate (suo direttore spirituale) perché temevo di un inganno. Quando venne il padre Abate io gli raccontai la pena che sentivo per il Cuore trafitto di Gesù, gli palesai quanto avevo inteso che il Signore mi richiedeva e gli esposi bene ogni cosa cioè: come queste anime dovevano col proprio sangue offrirsi, insieme al Cuore Eucaristico di Gesù, vittime d’impetrazione e di olocausto innanzi alla giustizia del Divin Padre. Lo pregai anche che avesse lui scelto le anime e mi raccomandai che queste appartenessero allo stato ecclesiastico – religioso – madri di famiglia – e giovanette. Gli dissi allora che il giorno della festa del Cuore di Gesù, che in quell’anno cadeva il 12 giugno, avesse chiesto alla Madre abbadessa di celebrare nel monastero la Santa Messa ed Egli portando le 12 offerte sul petto le avesse offerte a Gesù, allorché lo aveva fra le sue mani, affinché unite a lui ed ai suoi meriti le presentasse al suo Divin Padre. Il padre Abate volle che anch’io mi offrissi vittima ed io obbedii, ma a mia volta pregai che anche lui si offrisse con noi, ed Egli accettò. Le altre vittime furono: Don Teodoro Merluzzi, monaco basiliano e maestro dei Novizi, morto in buon concetto; D. Flaviano, uno dei giovani professi dei monaci Basiliani, anche lui è morto; Fra Silvestro, una santa anima, fratello converso dei monaci Basiliani, e presentemente quasi sempre malato;Teresa Magarelli sposata a Grossi Gondi, vera e santa madre di famiglia; Caterina Magarelli poi sposata a Selcio; una religiosa Orsolina, che conosco ma di cui non ricordo il nome; la mia maestra delle Sepolte Vive; Suor M. Stanislaa, religiosa delle suore di Santa Maria dell’Orto, morta in concetto di santità; Teresa Canestri, che fece poi parte dell’opera e Lucia Tiberi, zia di Mitissimo, anima molto interna e stimata da Monsignor Contieri. Il 12 giugno il p. Ab. con le dodici offerte ascese all’altare; non so dire quanto il mio cuore fu contento, pensavo che si consolava il Cuore di Gesù, vedendo adempiuto un suo desiderio. Appena il padre Abate salì i gradini dell’altare, venne un fortissimo temporale, caddero dei fulmini attorno al monastero, il coro tutto era scosso e le invetriate facevano un fracasso, le religiose stavano tutte impaurite; quando fu terminata la Messa cessò subito il cattivo tempo e tornò il sereno e la calma.

d) La prima desiderosa di dimostrare il proprio amore al suo Signore un giorno volle riprodurre su di sé il monogramma JHS, il cui significato è: GESU’ SALVATORE DEGLI UOMINI. Il 14 gennaio 1894, festa del Nome di Gesù, con il permesso del direttore spirituale, se lo incise sul petto con un coltello, e lo sigillò con il fuoco mentre dal suo cuore sentiva salire un’invocazione: «Gesù, Salvatore degli uomini, salvali! Salvali!»; la seconda ci confida: ” Varie volte ho fatto la disciplina con la catenella, ne sentivo ripugnanza e perciò la chiedevo. Mi ero anche formata una croce di punte di chiodi, che mettevo sulle spalle nei giorni di venerdì; questa mortificazione mi ripugnava assai. In soffitta avevo messo una grande croce sulla quale mi appendevo per lo spazio di circa dieci minuti; questa mortificazione mi fece tanto comprendere le sofferenze di Gesù in croce e non posso dimenticare le impressioni che ne ebbi, però questa mortificazione non potetti proseguirla per causa dei miei problemi di salute. La mortificazione che più mi piaceva ma che tanto mi ripugnava, era il bruciarmi; io sentivo che questa mortificazione scendeva al mio cuore. Mi bruciavo con la candela, oppure con il cerino, ma causando queste bruciature febbri e piaghe, cambiai sistema e chiesi licenza di bruciarmi con un ferro grosso di calze, lo arrossivo e poi lo applicavo su una parte del corpo e così facevo per varie volte. Questo modo di bruciarmi non mi causava piaghe profonde né febbri”.

e) Alla prima non mancarono sofferenze fisiche, morali e spirituali, la seconda visse una vita di sofferenze fisiche, morali e spirituali. Entrambe le vissero con amore e per amore dell'Amore misconosciuto, maltrattato e abbandonato proprio dai suoi più cari.

f) La prima concluse la sua vita terrena il 3 marzo 1937; la seconda il 3 aprile 1937.

Suor Maria Artemisia Quaranta:

un braciere d'amore

per Gesù Sacramentato.

Il 20 agosto 2011 nella veglia di preghiera con i giovani a Madrid, il santo padre Benedetto XVI diceva: “Dio ci ama. Questa è la grande verità della nostra vita e che dà senso a tutto il resto. Non siamo frutto del caso o dell’irrazionalità, ma all’origine della nostra esistenza c’è un progetto d’amore di Dio.

Rimanere nel suo amore significa quindi vivere radicati nella fede, perché la fede non è la semplice accettazione di alcune verità astratte, bensì una relazione intima con Cristo che ci porta ad aprire il nostro cuore a questo mistero di amore e a vivere come persone che si riconoscono amate da Dio.

Se rimarrete nell’amore di Cristo, radicati nella fede, incontrerete, anche in mezzo a contrarietà e sofferenze, la fonte della gioia e dell’allegria. La fede non si oppone ai vostri ideali più alti, al contrario, li eleva e li perfeziona...Non conformatevi con qualcosa che sia meno della Verità e dell’Amore, non conformatevi con qualcuno che sia meno di Cristo. Egli, che prese su di sé le nostre afflizioni, conosce bene il mistero del dolore umano e mostra la sua presenza piena di amore in tutti coloro che soffrono. E questi, a loro volta, uniti alla passione di Cristo, partecipano molto da vicino alla sua opera di redenzione”.

SUOR MARIA ARTEMISIA

Un piccolo messaggio di amore e di lode a Dio ci viene trasmesso ancora oggi, da una semplice e umile religiosa Oblata del Sacro Cuore di Gesù: “Suor Maria Artemisia Quaranta” tramite la testimonianza scritta di una sua Consorella, che la ricorda con ammirazione e grande affetto.“

Quando entrai in convento, mi resi conto che  prima di me c’era un gruppetto di otto aspiranti alla vita religiosa. Fui tanto contenta di non essere sola: avevo delle sorelle con cui condividere la mia vita!

Dal Castelletto Medici, Viale delle Mura Aurelie, 2 – Roma, dove eravamo state trattenute per qualche giorno, fummo mandate a Grottaferrata (Roma) perché là, nella Casa Madre, sita in via Garibaldi,-25, c’era l’Aspirandato e il Noviziato, cioè vi si trascorreva un periodo dedicato al discernimento e alla formazione alla vita religiosa.

Tra le Suore, che abitavano qui, una in particolare attirò la mia attenzione perché, pur essendo giovane, aveva il volto emaciato di una persona molto malata.

Si chiamava: suor Maria Artemisia Quaranta.

La sua camera era situata a pianterreno vicino alla cappella. Noi ragazze la vedevamo solo la mattina durante la S. Messa, dopo di che ritornava in camera e stava quasi sempre a letto.

La finestra della sua camera era piuttosto alta e si affacciava in giardino. Quando noi andavamo in giardino per lavorare o per la ricreazione, la sentivamo cantare.

Io ricordo ancora il motivo e le parole di quel canto, che ella elevava a Dio con un filo di voce: “Anima mia, che fai? Ama il tuo Dio che t’ama. Amore da te solo brama, e tu non l’ami ancora? ”.

L’Amore di Dio! Nel Suo Amore è contenuta la somma incalcolabile dei benefici divini verso la creatura, la quale solo con l’amore può contraccambiare, in modo sia pure infimo, la munificenza di Dio. L’amore della creatura per Dio diventa così l’espressione autentica della propria consapevolezza di essere infinitamente amata e il motivo dell’impegno nel ricambiare questo amore, concretamente nella trama della vita quotidiana.

Nel tessere questa trama quotidiana suor Maria Artemisia non sempre riusciva a celare il fuoco intimo che la pervadeva, e, inavvertitamente, lasciava trapelare la forza della sua vita interiore, nascosta nella fragilità umana.

Ad uno sguardo competente, anche se non indagatore, come quello della Madre Teresa Casini, fondatrice dell’Istituto delle Suore Oblate del Sacro Cuore di Gesù non sfuggivano le espressioni rivelatrici di questo amore e pertanto ella nutriva per questa figlia una grande stima e un affetto profondo.

Suor M. Artemisia era giunta a tanta virtù mediante un lungo tirocinio di sofferenza.

Il 18 marzo 1889 ella, con la sua nascita, allietò i suoi genitori Giuseppe Quaranta e Carmela D’Annessa, portando in tutta la famiglia gioia, amore e speranza. Alla bimba, che nacque alle ore 3:00 antimeridiane, in Barrea -Via degli Archi N. 1, fu imposto il nome di ANTINISCA, come risulta dall’Estratto di nascita rilasciato dall’Ufficio Comunale.

Secondo la consuetudine locale fu portata al Sacro Fonte il giorno stesso della nascita, nell’unica Parrocchia del paese dedicata a S. Tommaso Apostolo. Con il battesimo Gesù accolse nella Sua famiglia che è la Chiesa, una bimba che, appena nata, non si rese conto del significato di quel sacro rito, per il quale Dio prese possesso dell’anima sua. Così iniziò in lei, con la vita temporale, la vita divina, che culminerà nella vita eterna, riservata in premio alla fedeltà all’Amore di Dio e del prossimo: “Venite, benedetti dal Padre mio, ricevete in eredità il Regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo” (Mt. 25, 34).

Un’infanzia serena la sua, nel suo paese di origine: Barrea (L’Aquila), a m. 1.050 di altitudine, dove la vita semplice e laboriosa della gente è in armonia con la natura circostante: monti alberati, colline verdi, vallate, ruscelli che attraversano i campi. Spesso, nei mesi invernali tutto viene coperto da una coltre di candida neve, che rende il panorama suggestivo e incantevole. Durante l’estate e l’autunno al lato delle abitazioni, la gente preparava cataste di legna ben segate e ordinate, che sarebbero servite ad accendere il fuoco per far fronte ai rigori invernali. Tutto si svolgeva con un ritmo rallentato fatto di serenità e di calma.

Tutto sembrava bello, tutto sembrava in pace, ma all’improvviso, come un temporale estivo, sulla famiglia Quaranta si abbatté un fulmine: Carmela D’Anessa, mamma di Antinisca, fu chiamata dal Signore alla vita eterna.

La mamma è l’anima della famiglia, è dispensatrice di gioia, di aiuto, di sollievo, di conforto; e quando ella, ancor giovane, varca la soglia dell’eternità, lascia i suoi cari nel pianto e nella desolazione.  Sul volto di Antinisca scese il velo della tristezza. Era orfana di madre! Sentì nel suo cuore e nella casa un grande vuoto che le procurava una sofferenza indicibile.

Il papà per necessità passò a seconde nozze.

Antinisca soffrì in silenzio, senza rivelare a nessuno l’intensità del suo dolore nel vedere un’altra donna al posto della sua cara mamma. Ben presto Clotilde, questo era il nome della matrigna, ebbe tre figlie, che circondava di cure affettuose, trascurando, forse senza rendersene conto, la povera Antinisca, la quale, vedendosi trattata con freddezza restava profondamente ferita.

Giuseppe Quaranta, papà di Antinisca era contadino e doveva lavorare molto per mantenere la famiglia. Ben presto la figlia dovette seguirlo nel duro lavoro dei campi, e si sottopose, sia pure con poco entusiasmo ma con buona volontà, ai disagi e alle fatiche che tale genere di vita comporta, specie in montagna, dove si lavora molto con scarso rendimento.

Iddio però vegliava su quella triste ma virtuosa e laboriosa creatura, e nel Suo paterno Amore le infuse il germe della vocazione religiosa, che gradatamente si sviluppò in lei. Consacrarsi a Dio! Quale grazia immensa!

A Barrea le Suore Oblate del Sacro Cuore di Gesù prestavano con dedizione la loro opera per l’Asilo Infantile Comunale e per l’insegnamento dei lavori di cucito alle ragazze. Antinisca, a causa del lavoro che svolgeva, non poteva frequentarle ogni giorno, come facevano le sue compagne, ma, quando era libera dai lavori dei campi e dalle faccende di casa, si recava dalle Suore presso le quali ritrovava, almeno in parte, quel calore umano di cui il suo cuore sentiva un imperioso bisogno e da loro imparava ad amare per Dio.

Un giorno rivolse loro la sua umile domanda di  entrare a far parte della loro famiglia religiosa. Le Suore, che ormai conoscevano il suo buon cuore e il desiderio che aveva di donare la sua vita al Signore, le risposero affermativamente.

Il papà e la matrigna opposero una resistenza a tutto campo: non volevano assolutamente privarsi di un aiuto così valido e necessario sia in casa che in campagna, ma Antinisca non si lasciò scoraggiare. Cominciò a pregare con tutte le sue forze e a sperare che il Signore le facesse realizzare questa sua aspirazione: non rimase delusa. Dopo mesi di lotta e di pianti finalmente ottenne dal padre il consenso di partire, e il 13 novembre 1916 lasciò la sua famiglia, il suo paese natio, e si recò a Roma.

Aveva 27 anni di età.

Questa giovane e tenace abbruzzese purtroppo entrò in convento durante la guerra del 1914-18. In questo triste periodo in ogni parte d’Italia c’era una situazione di dolore per i tanti lutti, per i molti disagi causati dagli eventi bellici, per la limitazione di generi alimentari, per l’afflusso di profughi, molti dei quali malati e terrorizzati, e in ogni settore per le rovine e le privazioni a cui la nazione veniva sottoposta. Tutto contribuì a far sviluppare la tubercolosi che divenne una malattia sociale. Non c’erano cure adatte a debellare questo male, che stroncava tante giovani esistenze nel fiore de gli anni. Dovunque si sentivano gli effetti deleteri della guerra.

Antinisca, quando entrò in convento, era una ragazza robusta, di bell'aspetto, ma il suo volto, un po’ lentigginoso e incorniciato da capelli biondissimi e folti era assai pallido e velato di una mestizia mal celata. Nell’Istituto delle suore Oblate ella ritrovò l’affetto materno. Infatti, la Madre M. Teresa Casini - Fondatrice dell’Istituto, che era dotata di fine intuito psicologico, ebbe per questa ragazza affetto materno congiunto ad un sentimento di grande stima, perché, fin da quando era Postulante, la riteneva un’anima molto cara al Signore.

Per il suo comportamento serio e assennato e per la sua pronta obbedienza fu ritenuta in breve idonea a consacrarsi al Signore e fu ammessa alla vestizione religiosa per l’inizio del Noviziato. La funzione ebbe luogo il 4 aprile 1917 dal Rev. do Mons. Eugenio Mercanti del Clero Diocesano di Frascati, il quale, conoscendo bene la bontà della Novizia, la esortò a continuare con fedeltà il cammino intrapreso. All’Altare le fu sostituito il nome di battesimo con quello di religiosa: ”SUOR MARIA ARTEMISIA “.

Dopo l’anno canonico di Noviziato, il 4 aprile 1918, col consenso di Sua Eminenza il Cardinale Francesco Di Paola Cassetta -Vescovo della Diocesi Suburbicaria di Frascati a cui Grottaferrata appartiene¬Suor Maria Artemisia pronunziò all’Altare il Voto di obbedienza. L’anno successivo, nella stessa data 4 aprile 1919, fece la professione temporanea dei tre voti di povertà, castità e obbedienza secondo lo spirito e la finalità dell’Istituto.

Le virtù che maggiormente spiccavano in lei erano l’umiltà e la mitezza. Parlava con voce sommessa; non la si sentiva mai parlare con sgarbatezza, né con risentimento; al contrario, era sempre disposta alla condiscendenza e a compiacere le Consorelle per amore del Signore. Amava moltissimo la preghiera. Gesù Sacramentato era il suo Tutto. Si riteneva l’ultima della Comunità e desiderava solo di ricopiare in sé le virtù nascoste di Gesù Eucaristia. Si occupava con impegno dei lavori più umili: il pollaio, la lavanderia, la cucina. In essi trovava la materia per offrire qualcosa al Signore, che tanto amava, senza alcuna invidia nei confronti delle Consorelle, che erano impegnate in lavori più importanti o meno faticosi. Vivere con e per il suo Gesù Eucaristia, le bastava e non desiderava altro”.

“Nel 1918 la Madre Teresa fu pregata insistentemente di accettare la direzione di una Colonia estiva di bambini e bambine gracili e predisposti alla tisi. Era una Colonia diurna, ben organizzata, i cui locali erano siti nella Villa Borghese, a Roma. I bambini dovevano trascorrere molte ore all’aperto, ed entrare in casa solo per i pasti ed un po’ di riposo. Ricordo molto bene il celebre Professor Marchiafava, il quale veniva spesso a visitare la Colonia e si rendeva conto del suo funzionamento e del vantaggio che ne ricevevano i bambini. Era lui che stabiliva le regole per l’alimentazione giornaliera o settimanale. Si variava: dalla carne al baccalà (di solito: fritto), dal riso e fagioli alla pasta con patate, ecc. . . Egli stesso, il Professore, si recava in cucina per rendersi conto di tutto: dalla cottura dei cibi, all’igiene, e sempre si dimostrava soddisfatto.

Nel 1919 la Madre Teresa mandò in questa Colonia Suor M. Artemisia, perché di lei aveva fiducia. Me la ricordo vicino ai fornelli, accaldata, affaccendata, preoccupata talvolta di non riuscire ad accontentare tutti. La Superiora Suor M. Amelina Luccichenti la incoraggiava, la aiutava, ma si rendeva conto che questa figlia proprio non ce la faceva a sostenere un peso così grande: il suo fisico sembrava ogni giorno più debole e il suo viso sempre più pallido. La fece visitare dal Dottore e fu scoperto che il male sociale di quell’epoca cominciava a lavorare subdolamente. Furono eseguiti accertamenti clinici, apprestate tutte le cure possibili per quei tempi e concessi tempi di riposo prolungato. In seguito fu trasferita a Grottaferrata - nella Casa Madre dell’Istituto, sperando che qui l’aria, migliore di quella di Roma, facesse un miracolo, ma nel giro di otto mesi ella dimagrì moltissimo, consumata dalla malattia. Eppure la vedevamo sempre serena e sorridente.

Il nostro Istituto a quei tempi era molto povero, e l’inferma insieme a tutta la comunità risentiva gli effetti della povertà. Il vitto, che la malata riceveva, era abbondante ma povero. La Madre Teresa faceva di tutto per procurarle un poco di carne e di latte ma, a parte la mancanza di soldi, questi alimenti era molto difficile trovali in commercio.

La malata non si lamentava mai, ma offriva di cuore al Signore le sue sofferenze per consolarlo e per ottenere alla Chiesa Sacerdoti santi. Molte volte, la si obbligava a prendere i farmaci necessari ma lei opponeva resistenza, perché diceva che l’Oblata deve saper imitare Gesù nelle sue sofferenze. Quando però le veniva ricordato che aveva fatto un voto di obbedienza, subito acconsentiva a quanto le si chiedeva di fare. Durante il giorno aveva sempre tra le mani la corona del Rosario e pregava. Pregava per tutti: per i sacerdoti, per gli ammalati, per i moribondi, per i peccatori, per i bimbi appena nati, per i giovani, per gli sposi. Il suo cuore sembrava un braciere acceso da cui si levava incessante il calore della preghiera.

La malattia durò fin quando la vittima fu consumata: senza ansie, senza lamenti, senza rimpianti, ma con la consapevolezza di partecipare alle sofferenze del suo Sposo Gesù, per la santificazione dei Sacerdoti. Chi andava a visitarla restava ammirato per il suo dolce abbandono nelle mani del Padre.

Suor M. Artemisia si rendeva perfettamente conto del suo stato di salute e desiderava ardentemente di consacrarsi  per sempre, al suo Gesù con l'emissione dei Voti perpetui. Lo chiese umilmente alla Madre Teresa la quale prontamente esaudì questo suo desiderio.

Ella si preparò a questo atto così importante della sua vita con la stessa cura di una sposa che sta per presentarsi allo sposo. Il giorno 7 aprile 1921, dopo aver fatto la sua professione ed avere emesso il voto di vittima, entrò in agonia per qualche ora, poi sembrò riprendersi, guardò ad una ad una le sorelle, che le stavano intorno, come per salutarle per l’ultima volta e infine si addormentò dolcemente."

Nella sua lettera ai filippesi san Paolo ci ricorda: “La nostra Patria è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al Suo Corpo glorioso, in virtù del potere che ha di sottomettere a sé tutte le cose. ” ( Fil. 3, 20-21 )

Suor Maria Amelia Antonucci

Come frutto maturo per il Signore

Quando, il primo gennaio 1901, sbocciò alla vita nella numerosa famiglia, le furono imposti due nomi: “Maria Filippa”. Il primo, per devozione alla Madonna; il secondo, per ricordare uno zio paterno, Sacerdote, Don Filippo Antonucci, professore al Seminario Benedettino diocesano di Montecassino. In casa venne semplicemente chiamata Maria.

Giunse in famiglia dopo due fratelli e tre sorelle: “Benedetto, Caterina Angelina, Mariano e Sestilia“. Dopo di lei altre due bimbe: “Chiarina e Velia”.

I genitori, Giovanni e Clarice Cocuzzi si sentivano grati verso Dio per la piccola truppa di figlioli che in pochi anni avevano invaso la loro casa, portando ondate di gioia e di soddisfazioni per i graduali progressi di ognuno. Essi rendevano l’atmosfera familiare serena e allegra e i genitori facevano del loro meglio per invogliarli al bene e per farli crescere educati e onesti. Quella nidiata di figli assorbiva e viveva lo stile di religiosità profonda e autentica dei genitori, che a loro volta l’avevano avuto in eredità dai loro avi. Nella famiglia paterna si annoverano infatti, due insigni Sacerdoti: Don Filippo Antonucci e Don Aurelio Antonucci, che fu anche musicista famoso e benemerito del paese. Vengono ricordate pure alcune Religiose. Nella famiglia materna — Cocuzzi — altri Sacerdoti e un Missionario che esplicò il suo mandato missionario in Brasile.

I GENITORI

Non è facile descrivere la personalità della mamma Clarice. Al solo vederla si aveva l’impressione di trovare in lei la donna forte della Bibbia. Di statura abbastanza alta, s’imponeva con la sua presenza, ma s’intuiva subito il carattere aperto e gioviale. Era semplice nel tratto, giudiziosa, intuitiva, e fornita di senso pratico. Si prodigava per la famiglia fino all’eroismo e inculcava nei figli le virtù cristiane non solo con le parole ma anche con l’esempio, che è la forma di insegnamento più valida che ci sia. Aveva radicate nel cuore le consuetudini religiose e virtuose apprese nella sua famiglia e quando i figli divennero grandicelli, ella si alzava molto presto e andava a Messa tutte le mattine. Durante l’inverno la chiesa parrocchiale apriva le porte un poco tardi, a causa del terribile freddo abruzzese, e lei si tratteneva vicino al fuoco a leggere la Passione di Cristo, fino al suono della campana che chiamava i fedeli a Messa. Così offriva al Signore le primizie della lode mattutina. Clarice invitava anche le figlie ad andare a Messa, dicendo: “La Messa non leva servizio”, intendendo dire che la durata del Santo Sacrificio era breve e non toglieva tempo al lavoro quotidiano.

Clarice praticava di cuore la carità verso i poveri e gli anziani bisognosi e molte volte si serviva dei figli per mandare qual cosa al loro domicilio. Ad un bimbo malato, figlio illegittimo, che altri guardavano con malcelato disprezzo, ella mandava ogni giorno il latte per mezzo di sua figlia Maria. Tutto questo era, per i figli un continuo tacito incitamento all’amore per Dio e per il prossimo.

Il padre - Giovanni - era anch’egli molto pio. Ogni giorno recitava l’Ufficio della Madonna, e ogni domenica partecipava alla Messa. Era molto affezionato alla famiglia e dava esempio di bontà e generosità. Al suo lavoro univa l’attività di Consigliere Comunale per contribuire al bene del suo paese, ed era da tutti stimato per la sua onestà e lealtà. Non desta meraviglia se su tale ceppo germogliò la vocazione religiosa di Maria.

UNA SIMPATICA AIUOLA

Se un fiore potesse esprimersi con linguaggio umano, direbbe senz’altro ai suoi ammiratori: “La bellezza della mia corolla proviene da Dio Creatore, dalla pianta che mi ha generato, e dall’aiuola in cui sono sbocciato e cresciuto”.

Maria Antonucci sbocciò in un’autentica aiuola montana, “Civitella Alfedena”, in provincia dell’Aquila. Un lembo di terra situato nel bellissimo Parco Nazionale d’Abruzzo, che conserva tuttora le sue antiche caratteristiche e le sue prerogative religiose. L’ambiente nativo, oltre a quello familiare, influisce sul carattere e sulla personalità di coloro che ne traggono le origini. I Carmelitani che dimorarono in Civitella Alfedena fino al 1870, lasciarono nel popolo la devozione alla Madonna del Carmine, con la consuetudine di consacrare a Lei i bambini sin dalla nascita. Anche Maria, dai suoi devoti genitori, fu consacrata alla Madonna.

Il paese custodiva allora fra le sue mura circa seicento abitanti, con un tenore di vita improntato a semplicità e bontà; una popolazione temprata al sacrificio in tanti modi. Le attività economiche, che in paese si svolgevano a livello di mera sussistenza, nei mesi invernali dividevano molte famiglie: poiché l’agricoltura rendeva pochissimo a causa della qualità rocciosa del terreno, molti ripiegavano sulla pastorizia che era abbastanza fiorente, ma che li costringeva alla transumanza nelle Puglie durante i mesi invernali, per assicurare alle pecore madri e agli agnelli un clima più mite e pascoli vasti e fertili. Nei primi anni del secolo ventesimo molti cominciarono anche ad emigrare negli Stati Uniti di America, per migliorare le condizioni economiche delle famiglie.

UN PROGETTO

Nel cuore e nella mente di Giovanni Antonucci, padre di Maria, cominciava a nascere la preoccupazione per la sua numerosa e bella schiera di figli, che s’avviava verso l’adolescenza e l’età giovanile. “Otto figli! Bisogna pure sistemarli col dovuto decoro! Come fare?” Dopo aver riflettuto con serenità e ponderazione, prese la soluzione di emigrare negli Stati Uniti d’America e di condurre con sé i due figli maschi: Benedetto e Mariano. Partire per l’America, in quegli anni lontani, rappresentava un progetto colossale per la enorme distanza di quella terra da raggiungere con un lungo viaggio in nave e poi. . . attendere per mesi le notizie. . . Inoltre, molto difficile era il distacco dai familiari, dai parenti, dagli amici, dal caro paese natio. Ma tutto fu superato con fortezza d’animo: Giovanni e i due figli partirono. . .

La famiglia affrontò questa prima grande sofferenza fra tante lacrime. Maria chiuse nel suo cuore un così grande dolore e cercò di alleviare quello della madre e delle sorelle. Gesù, intanto, preparava Maria ad un altro distacco: la voleva tutta Sua per sempre.

UN INCONTRO

Clarice si recava spesso in un piccolo paese denominato “Barrea”, che si trova a pochi chilometri di distanza da Civitella Alfedena, per l’acquisto di tessuti e generi vari. Un giorno incontrò una giovane donna che piangeva. Animata dal desiderio di confortarla le chiese per quale motivo fosse così afflitta. Ella rispose che il suo cuore di madre soffriva perché sua figlia, Anna Volante, era partita per Roma per farsi suora fra le Oblate del Sacro Cuore di Gesù. Raccontò che la Madre Generale era venuta a Barrea per far visita alle sue Suore, che avevano l’Asilo e un laboratorio per le ragazze e, poiché Anna sentiva da tempo la vocazione religiosa, era partita con la Madre per realizzare la sua aspirazione. Clarice la confortò, dicendole che non doveva piangere, anzi doveva essere contenta di aver dato una figlia al Signore, e le rivolse altre parole incoraggianti. Quella buona donna smise di piangere e ringraziò il Signore di aver scelto la figlia sua per Sé solo.

Dopo quel colloquio, Clarice non riuscì a liberarsi da un pensiero insistente: “Va’ da quelle suore, informati se a Roma hanno un educandato”. Pensava alla sua Maria che, sebbene quindicenne. avrebbe potuto riprendere gli studi, essendo svelta e intelligente. Completò gli acquisti e andò dalle suore. Esse risposero che sì a Roma avevano l’educandato e che sarebbero state contente di accogliere sua figlia. Clarice fece loro tante domande per essere sicura di non fare un passo falso. Tornò a Civitella e narrò alla famiglia l’incontro provvidenziale con quella donna che piangeva, l’idea improvvisa che le era venuta e la visita fatta alle Suore. Maria intuì immediatamente che avrebbe sofferto assai per il distacco dalla famiglia, ma accettò con docilità la proposta della mamma. Le due sorelle maggiori furono d’accordo.

L’anno scolastico era già iniziato da tre mesi. Clarice si affrettò a inoltrare la domanda alla Madre M. Teresa Casini. Maria fu accettata. Dopo i preparativi, il 30 marzo 1916, accompagnata dalla mamma, partì per Roma, diretta al Castelletto Medici - Viale Aurelio, 2.

IL PROGETTO DI DIO

Nell’educandato, Maria, abituata allo stile semplice e devoto della famiglia e del paese natio era felice: si sentiva come a casa propria. Riprendere gli studi non le era difficile, avendo conseguito da pochi anni la licenza del Corso Elementare. Intelligenza e buona volontà non le mancavano, anzi…

Le suore abituavano le educande a recarsi durante il giorno in cappella per fare una visita a Gesù Sacramentato. Maria vi andava spesso e si tratteneva parecchio. Inoltre, durante le ricreazioni, faceva tante domande alle suore sul significato della vita religiosa, sul motivo per cui avevano donato la loro vita al Signore, sul perché avevano deciso di essere povere, sul come era possibile che obbedivano senza rimostranze agli ordini della superiora ecc. Tanta curiosità faceva piacere alle suore.

La Madre M. Teresa Casini, aveva un intuito speciale nel conoscere e valutare le doti delle persone e le ricchezze delle anime. Aveva osservato in Maria tanti buoni requisiti e si rese subito conto che nella giovanetta poteva esserci il germe della vocazione religiosa. Non esitò a parlargliene e a proporle se voleva passare dall’educandato al probandato per studiare se stessa più che le materie scolastiche; per scoprire, mediante la preghiera e la riflessione, se si sentiva chiamata da Gesù a consacrarsi a Lui, per sempre. Maria accettò la proposta con semplicità e disponibilità.

UNA GUIDA ESPERTA

Il compito delle “ guide” è arduo: lavoro, rischi, perplessità. . . . Tanto più, quando bisogna guidare le anime nella via dell’amore a Dio e al prossimo. La Madre Teresa Casini compiva questa missione guidata dalla propria esperienza personale, permeata di preghiera e di penitenza. Sentiva in sé il desiderio di consolare il Cuore di Gesù e cercava di unire a sé tante persone che fossero capaci di condividere questo desiderio e di tradurlo in pratica nella vita di ogni giorno. Vi riusciva con l’abilità tutta propria della “Grazia”. Ella guidava le giovani nella via dell’amore concreto, semplice e fervoroso a Gesù Sacramentato.

Maria apprendeva ogni insegnamento e seguiva ogni direttiva. Il suo animo giovanile fu ricolmo di gioia quando capì che Gesù l’aveva davvero scelta per Sé solo. Ebbe allora il vivo desiderio di corrispondere all’Amore con tutta la sua vita. Scrisse alla mamma confidandole quanto aveva nel cuore e quindi la invitò a considerare la sua permanenza a Roma come periodo di Probandato e non di “educandato” per motivo di studio. Anzi, chiese alla mamma se voleva far occupare il suo posto nell’educandato dalla sorella minore, Chiarina.

Quale sorpresa per Clarice quella lettera! Sua figlia aveva appena sedici anni! Non poteva accettare quella decisione di una minorenne, trasmessa da una semplice lettera. Sentiva in sé tutta la responsabilità materna e paterna (trovandosi il marito tanto lontano) e il dovere e il diritto d’intervenire personalmente, per rendersi conto della reale situazione. Energica com’era, partì per Roma. Capì, dai colloqui avuti, che quanto la figlia le diceva era una cosa seria e non un pio desiderio di breve durata, ma una vera e propria scelta di consacrare a Cristo tutta se stessa. Con animo sereno Clarice ritornò a Civitella. Raccontò agli altri suoi figli della decisione di Maria, con animo grato al Signore il Quale si degnava di scegliere per Sé una delle sue figlie. Preparò i certificati chiesti dalla Madre Teresa e li spedì a Roma. Scrisse al marito narrandogli la novità inaspettata e gli chiese d’inviare il regolare “consenso paterno scritto”, essendo Maria ancora minorenne. Giovanni, incredulo e allo stesso tempo commosso, inviò volentieri la sua approvazione.

SULLE ORME DI CRISTO

Il periodo del probandato fu condiviso da altre quattro Postulanti: - Anna Volante di Barrea (L’Aquila) - Teresa D’Amico di Barrea (L’Aquila) - Clarice D’Amico di Barrea (L’Aquila) - Carmela D’amico di Barrea (L’Aquila) Le tre D’Amico erano cugine fra loro, perché figlie di tre fratelli. La Madre Teresa era soddisfatta del piccolo gruppo di giovani, che percorreva il cammino di formazione alla vita religiosa con serenità di animo e con vocazione sicura, e pensò di consacrarlo all’Immacolata; inoltre scelse come data per la vestizione religiosa e inizio del noviziato l’8 dicembre dell’anno 1916.

“Ammettere al noviziato“ significa stimare la postulante idonea a consacrarsi a Cristo in modo totale. Maria, come ogni postulante, anelava ad essere ammessa al noviziato per essere introdotta nella Casa del Signore, nell’intimità con Dio, perciò esultò di gioia quandola Madre Teresale comunicò la lieta notizia.

NOVIZIA

Le postulanti da Roma furono trasferite a Grottaferrata, nella Casa Madre dell’Istituto, dove doveva aver luogo la vestizione religiosa e l’anno canonico di noviziato. Maria e le altre postulanti attendevano con ansia quel giorno, consacrato all’Immacolata Concezione di Colei che fu prescelta sin dall’eternità ad essere la Madre di Gesù. A Lei volevano guardare le cinque giovani che intendevano consacrarsi a Gesù per tutta la loro vita, offrendogli il proprio cuore.

Il rito della vestizione religiosa, presieduto da Mons. Alessandro Lupi Vicario Generale della Diocesi di Frascati, si svolse in un clima di intimità fra l’emozione delle cinque giovani, delle Suore, dei parenti e di tutti i presenti.

La Madre Teresa aveva stabilito di far precedere il nome di “Maria” a quello proprio del Battesimo, considerando la Madonna “Madre della Congregazione”. Alla nostra che già si chiamava Maria venne aggiunto il nome “Amelia”: “Suor Maria Amelia “.

Fra i parenti, la sua mamma assistette alla cerimonia emozionata e felice. Aveva accanto la figlia, “Chiarina” di dieci anni, che era venuta per far festa alla sorella e per rimanere nell’educandato delle medesime Suore Oblate, a Roma, dove poter continuare gli studi, secondo il desiderio della stessa Maria.

Il noviziato è un periodo impegnativo per le novizie e per coloro che sono designate al compito tanto delicato e importante della formazione religiosa e di grande responsabilità verso Dio e verso il proprio Istituto. Suor M. Rosa Rufini, Maestra delle Novizie, si rese subito conto che Suor Maria Amelia apprendeva con facilità, era attenta alle spiegazioni e le traduceva nella pratica con impegno assiduo e generoso, nonostante la sua giovane età. Tutto le andava bene e si adattava volentieri ai sacrifici inerenti alla vita religiosa, specie a quelli relativi all’obbedienza e alla povertà. Dimostrava di avere molto senso pratico e un’intelligenza pronta e sicura ma ciò che la caratterizzava era il suo tenero amore per Gesù Sacramentato, così come aveva imparato nel periodo dell’educandato e poi dall’esempio della Madre Teresa e delle altre religiose.

L’anno canonico di noviziato trascorre così, senza difficoltà, come un ruscello d’acqua limpida e fresca, che dà piacere a chi l’osserva e ristoro a coloro che vi attingono.

La Madre Teresa era contenta di Suor M. Amelia e nutriva in cuor suo la speranza che questa figlia diventasse vera Oblata del Sacro Cuore di Gesù e che lo consolasse davvero.

L’anno successivo, l’8 dicembre 1917, Suor M. Amelia, insieme alle sue connovizie, durante la celebrazione dell’Eucaristia prostrata ai piedi dell’Altare e dinanzi al Ministro di Cristo e alla Madre Teresa pronunziò per la prima volta la formula del “Voto di Obbedienza” per un anno. Davanti all’altare, presso il Tabernacolo in cui c’è Gesù vivo e vero, ella trascorrerà molte ore per tenerGli amorosa compagnia ed esprimerGli la propria gratitudine per essere stata scelta da lui come sua sposa.

CITTADINA ROMANA

Le neo-professe, dopo la professione, furono trasferite all’altra casa dell’Istituto in Roma -Viale Aurelio, 2. Qui era necessario l’aiuto per l’educandato femminile, che ospitava bambine e adolescenti anche delle classi Normali. Nell’educandato c’era uno stile di vita familiare, improntato a semplicità e cordialità. Alle educande si impartiva una formazione profondamente cristiana, civile e domestica, affinché nel futuro, divenendo madri di famiglia, esse fossero idonee a formare un ambiente familiare in cui potessero sbocciare, senza difficoltà, vocazioni sacerdotali.

Il desiderio di Madre Teresa era sempre quello di dare a Gesù e alla Chiesa Sacerdoti numerosi e santi. A tale scopo ella s’interessava delle Suore educatrici e le guidava per far acquistare loro l’esperienza necessaria. A Suor M. Amelia scrisse un bigliettino: “Non lasciare bussare invano Gesù alla porta del tuo cuore. Aprigli subito e lascia il tuo cuore in balia della Sua Grazia, che infallibilmente ti porterà il puro amore di Dio. La Madre “.

Suor M. Amelia aveva diciotto anni ed era la più giovane e la più semplice del piccolo gruppo di neoprofesse, ma era davvero molto intelligente. Talvolta la Madre Teresa scherzando le diceva: “Cosa farai tu così sempliciona come sei?”. Lei sorrideva e pensava a come avrebbe agito quando si sarebbe trovata a contatto con le educande, che erano ragazze di città, svelte e studentesse... Apprendeva perciò con docilità le direttive della Madre Teresa e si lasciava guidare serenamente.

OBLATA

Suor M. Agnese Bifaro, che entrò nell’Istituto un anno dopo di Suor M. Amelia e per vari anni ne condivise la vita e le mansioni, così ce la presenta: “Suor M. Amelia possedeva un carattere dinamico, forte, paziente, creativo e portava a termine, anche a costo di sacrifici, le iniziative che intraprendeva. Coltivava con ardore la sua vita interiore; era un’anima di fede e di speranza. Amava la preghiera al punto che non si sarebbe mai stancata di pregare e nulla la distaccava dai suoi colloqui col Signore. Pregava sempre con lo stesso fervore: in Chiesa, per via, sui tram, mentre faceva i lavori domestici. Quando, durante il giorno, non poteva fare l’adorazione davanti al Santissimo Sacramento, pregava in ginocchio per terra ai piedi del letto, prima di concedersi il riposo. Tante volte è stata vista in ginocchio la sera, stanca ed assonnata, a pregare, con il capo reclinato sul petto e con le braccia poggiate sul letto fino a quando, per il freddo, non si svegliava di soprassalto. Una volta restò in quella posizione fino al mattino e, quando suonò la sveglia, si meravigliò assai che la nottata fosse passata così velocemente.

Ascoltava con attenzione le conferenze e le esortazioni della Madre Teresa e di tutto faceva il riassunto scritto con chiarezza e precisione. Qualche volta lo leggevamo insieme perché eravamo tutte e due Assistenti delle educande. Scriveva il diario ogni giorno. Era costante nel mantenere i propositi fatti. Davvero sarebbe stata capace di spostare le montagne con la sua fede. Quando le capitava di mancare ai suoi propositi, s’imponeva una penitenza. Era molto severa con se stessa e molto comprensiva con le altre. Tutti i tempi e tutte le occasioni erano buone per offrire al Signore il sacrificio di se stessa. 

Solo Lui può conoscere quanto Suor M. Amelia desiderasse aderire unicamente alla Sua Volontà.

La Madre Teresa non si era sbagliata, quando fondava su questa Suora le più belle speranze per l’avvenire dell’Istituto”.

Suor M. Amelia aveva acquistato esperienza come Assistente delle bambine e svolgeva le sue mansioni con lodevole impegno. La Madre però notava in lei anche le doti adatte per compiti amministrativi. Pensò che presso le bambine avrebbe potuto farla sostituire da un’altra Suora, mentre non tutte avevano le capacità necessarie per fare il lavoro di economa, che richiede competenza, saggezza e prudenza. Glielo comunicò e cominciò ad istradarla nel nuovo incarico, facendo affidamento sulla sua docilità e sulla sua buona volontà.

In quegli anni però c’era una grande difficoltà: l’Istituto era poverissimo. Con le poche risorse si dovevano pagare le spese generali, il canone di fitto del Castelletto Medici, in cui abitavano le suore e le educande, e procurare lo stretto necessario per vivere. Suor M. Amelia non si scoraggiava. In compagnia di una Consorella, la mattina presto andava al Mercato Generale per acquistare i prodotti alimentari; guardava qualità, prezzi e soldi nel borsellino, e girava senza stancarsi fintanto che trovava quelli meno costosi ma di buona qualità. A volte alcuni commercianti, vedendola girare per parecchio tempo senza che avesse acquistato nulla, capivano che i soldi erano proprio pochi e le donavano qualcosa in cambio di una preghiera.

La Madre Teresa le aveva insegnato che la cosa più importante per una buona economia è “la fiducia in Dio”. Suor M. Amelia non dimenticava questo insegnamento e intanto con la preghiera, con il lavoro e con il continuo esercizio di virtù si preparava alla professione perpetua, preceduta da un corso di Esercizi Spirituali. Giunse la data tanto attesa: “2 febbraio 1923” in cui ella, con l’animo ricolmo di gioia, offrì a Dio per sempre la sua giovane vita mediante i tre Voti religiosi di “Obbedienza - Povertà – Castità”. Era di Cristo “per sempre”.

NUOVA MANSIONE

Suor Maria Amelia stava dimostrando di essere davvero una buona economa. La Madre M. Teresa, intanto aveva deciso di dare nuovo impulso all'Opera da lei fondata: ritenne più consona allo scopo dell'Istituto la fondazione di un Collegio per maschietti delle classi elementari e del Ginnasio, per dare ad essi insieme all'istruzione, una sana formazione cristiana, al fine di far germogliare nelle loro anime la vocazione sacerdotale, qualora Iddio ne avesse deposto il seme. Un’idea impensabile per quei tempi! Ma tant’è: al termine dell'anno scolastico venne chiuso l'Educandato femminile e con un piccolo numero di maschietti chiamati “Piccoli di Gesù” fu aperto il Collegio ideato.

Suor M. Amelia, naturalmente, era nel numero delle Suore scelte per iniziare quest'Opera vagheggiata. Per la Madre Teresa in questo momento era più importante impiegare questa figlia, così saggia e buona in quest'Opera che stava per nascere, anziché farle continuare il lavoro di economa. Ed eccola di nuovo “Assistente”, dei “Piccoli Amici di Gesù”.

Suor M. Agnese narra nella sua relazione: “Lavorammo insieme con i primi Piccoli Amici di Gesù. Suor M. Amelia aveva ingegno versatile; passava da un'attività all'altra con disinvoltura: dalle pratiche di pietà personali, all’istruzione ai ragazzi; dall’accompagnarli alla Chiesa del Gesù per servire le SS. Messe alla vigilanza nelle varie classi; dal guardaroba alla lavanderia; dalle uscite frequenti per commissioni all’adorazione prolungata al Santissimo Sacramento.

La Madre Teresa inculcava a noi, Suore addette ai Piccoli Amici, di avvicinare i bambini a Gesù Eucaristia, e noi cercavamo di farlo, abituandoli a fare brevi visite al Sacramento ed insegnando loro a servire la S. Messa. Il risultato di questa formazione alla pietà era positivo: i bambini erano felici, quando potevano servire la S. Messa e andavano spontaneamente a fare le “visitine a Gesù”. In casa però c’era solo la Messa del mattino, e per i bambini l’attesa del proprio turno era troppo lunga…

Suor M. Amelia risolse il problema. Un giorno incontrò Fratel Montanaro, della Compagnia di Gesù, Sacrista della Chiesa del Gesù, parlarono di questa cosa, presero accordi e in pochi giorni fu pronto un gruppetto di Piccoli Amici di Gesù, ben preparato, per poter servire le SS. Messe in quella Chiesa, dove, allora affluivano Sacerdoti e Missionari da tutte le parti del mondo. I ragazzi di turno, sia delle elementari che del Ginnasio, si alzavano presto, prima degli altri, e accompagnati da una Suora si recavano alla chiesa del “Gesù”. Andavano a piedi. C’era un bel tratto di strada da fare… Servivano le Messe dalle 6:30 alle 8:00 e poi tornavano a casa col tram, per trovarsi pronti per la scuola. Il servizio delle Messe iniziato nel 1925 continuò fino all’inizio della seconda guerra mondiale. Tra i ragazzi che compivano questo servizio all’Altare, con sacrificio, sorsero parecchie vocazioni al Sacerdozio“.

Il numero dei Piccoli Amici aumentava; l’Opera fioriva, nel collegio lo stile di famiglia improntato a semplicità e cordialità, faceva sì che i ragazzi si sentissero a loro agio e benvoluti e per questo progredivano nel bene e alcuni sceglievano di entrare in Seminario.

ECONOMA

In questo tempo altre sorelle avevano imparato il metodo di trattare con i Piccoli Amici di Gesù e suor M. Amelia poteva perciò essere sostituita e tornare a fare l’economa. Il cambio di incarico si verificò come la cosa più normale del mondo, come una sentinella che cede il posto a quella che viene a sostituirla.

Il Castelletto Medici, preso in fitto dal Marchese Medici, cominciava ad essere insufficiente per il numero dei bambini e delle Suore che lo abitavano. Si pensò allora di costruire una casa propria in Roma, secondo le esigenze delle Opere dell’Istituto da svolgere in essa. Un compito difficile per l’economa: procurare l’area su cui costruire; affidare ad un bravo architetto il progetto ideato; costruire….ma con quali mezzi economici? Dove si sarebbero trovati i soldi per un’impresa del genere? Escogitare come fare. . .La Madre Teresa e Suor M. Amelia s’industriarono, per ricevere in prestito una somma allo scopo di comprare il terreno, che fu trovato nella zona di Tormarancia. L’Architetto fece un progetto bello e funzionale. Ad un Impresario, segnalato come persona tecnica e di fiducia, fu affidato il compito della costruzione. Costui era coadiuvato da un Ingegnere. Le lunghe trattative impegnarono la Madre Teresa, che collaborava come poteva, e Suor M. Amelia, che moltiplicava le sue energie pur di riuscire nell’intento. Quando cominciarono i lavori, quasi ogni giorno si recava al cantiere. Di ritorno casa, stanca, andava in Cappella per pregare e chiedere a Gesù la forza per affrontare le difficoltà che si presentavano.

Sembrava che tutto procedesse bene. Si era trovato il modo di poter essere puntuali al pagamento delle rate. I vani del pian terreno erano già costruiti. Ma ecco il colpo imprevisto: il costruttore e l’Ingegnere, presentati come persone oneste, non si dimostrarono tali. Lavori interrotti. . . Danaro perduto. . . Speranze crollate… Un’amara delusione!

Suor M. Amelia ne risentì moltissimo. Cercava di non parlarne ma soffriva assai. La Madre Teresa cercava di confortarla con le parole e con qualche biglietto scritto: “E’ necessario che il Signore di tanto in tanto ci tolga le sue grazie, i suoi lumi, le sue consolazioni, per impedire che appropriamo a noi stesse quello che è proprio di Lui, che ci leviamo con superbia credendoci migliori di quello che siamo, ed infine per farci sperimentare la nostra debolezza. Perciò devi ringraziare il Signore per questo fallimento, continuare ad esserGli fedele e cercare di piacerGli in tutto. Non bisogna ripiegarsi su se stessi, bisogna andare avanti senza lamento, sempre con la stessa fedeltà, perché Iddio non muta, è sempre degno di essere da noi amato, servito con tutto il nostro cuore e tutte le nostre forze. - Il Signore ti benedica, prega per me. La MADRE

Suor M. Amelia, pur sentendo su di sé il peso di quello che era avvenuto, fece del suo meglio per salvare tutto ciò che si poteva salvare. Chiese consiglio alle Autorità Ecclesiastiche per sapere come fare. Le fu consigliato di rivolgersi subito ad un Avvocato bravo e onesto: era l’unico modo per liberarsi dall’impegno col costruttore disonesto, e poi mettere in vendita l’immobile allo stato di fatto. Suor M. Amelia fece quello che le era stato consigliato, consegnò la documentazione, non si arrese di fronte alle difficoltà, ma con fortezza d’animo le affrontò e riuscì a concludere la vendita del terreno, con la parziale costruzione al Comune di Roma che la destinò a “Scuola Comunale”.

Visto che era sfumato il progetto di costruzione di una casa per la comunità e il collegio, si pensò di costruire una tomba in cui perpetuare la fraternità in una comune “ultima dimora”.

All’economa questo nuovo compito. Suor M. Amelia, col suo carattere risoluto ma semplice e affabile, s’interessò della cosa e riuscì nell’intento. Seppe che il Comune di Roma aveva costruito delle grandi tombe al “Cimitero Monumentale Verano”, che sarebbero state cedute in “Concessione” per una modica somma. Con la massima diligenza, munita del benestare del Consiglio dell’Istituto, inoltrò la domanda all’Ufficio competente e stipulò il contratto di “Concessione”. Al ritorno in Comunità comunicò la notizia alla Madre Teresa e alle Consorelle e aggiunse: “Ho comprato la tomba e probabilmente sarò la prima ad abitarla”.

GIOIA FRATERNA

Intanto, senza avvedersene, ella con la sua vita spesa per amore, aveva attirato a Gesù le due sorelle minori: Chiarina e Velia, le quali l’una dopo l’altra, entrarono nell’Istituto col proposito di consacrarsi al Signore. Entrambe fecero insieme il Probandato a Grottaferrata (Roma), vestirono insieme l’abito religioso e iniziarono il periodo di Noviziato il 29 aprile 1931.

Il rito fu presieduto da Sua Eminenza Il Cardinale Michele Lega, Vescovo della Diocesi Suburbicaria di Frascati a cui appartiene ecclesiasticamente Grottaferrata.

Tre sorelle Suore nel medesimo Istituto, compartecipi dello stesso ideale! Un simile avvenimento non è frequente. Suor M. Amelia con intima commozione e gioia seguì il sacro rito. Con lei c’era la mamma emozionatissima e grata al Signore, che si era degnato di scegliere tre delle sue figlie per Lui. L’unico dispiacere era costituito dalla lontananza del marito. Al termine della suggestiva cerimonia religiosa, il Cardinale Lega, vedendo in giardino le tre sorelle biancovestite (Suor M. Amelia, Suor M. Chiarina e Suor M. Velia), rivolto alla mamma disse: “Signora, se vuole, c’è posto anche per lei!”

GUARDARE IN ALTO!

Nel frattempo un leggero malessere avvertito alcune volte nel passato, cominciò ad acuirsi tanto da procurare a Suor M. Amelia continue coliche epatiche. Fu necessario il ricovero all’Ospedale “Littorio” (ora denominato “San Camillo“). La diagnosi, dopo giornate di ricerche mediche fu la seguente: “Grossi calcoli alla cistifellea”. Inevitabile l’intervento chirurgico, preceduto da un periodo di cure da farsi in ospedale, per il recupero della salute molto deperita. Qui Suor M. Amelia pregava e soffriva con grande pazienza, edificando chiunque l’assisteva o la visitava. In Comunità aveva lasciato un grande vuoto e per questo in Ospedale c’era un continuo via vai di Consorelle, che andavano per farle visita o per assisterla. Lei era molto grata per il così grande affetto dimostratole, ma il suo sguardo era rivolto sempre a Gesù Crocifisso e a Lui offriva tutto per la santificazione dei Sacerdoti.

La Madre Teresa non potendo visitarla, perché malata anche lei, le inviava delle lettere o dei biglietti per incoraggiarla. Un giorno le fece giungere un'immagine del Sacro Cuore di Gesù — datata 5 maggio 1931 — con la seguente esortazione: “Come Gesù per la nostra redenzione abbracciò la croce e si distese su di essa, abbandonandosi al suo Divin Padre, così tu, figlia mia, per fare a Dio un sacrificio di amoroso abbandono nelle braccia del Cuore trafitto di Gesù, accetta con amore grande le tue sofferenze e stenditi sulla croce generosamente, offrendoti al Divin Padre, in unione ai meriti di Gesù, Vittima per la Chiesa, per il Sacerdozio, per il Papa”.

Suor M. Amelia, per divina ispirazione seguì alla lettera il suggerimento della Madre Teresa e fece il suo voto di "Vittima” al Signore per il Papa PIO XI, per i Sacerdoti e per la Chiesa.

Con questi sentimenti il 14 giugno 1931, si sottopose all’intervento chirurgico, che non solo non risolse il problema ma lo aggravò, procurando alla paziente sofferenze terribili, da lei vissute come vera Oblata.

Le consorelle e la mamma non lasciarono mai il letto dell’inferma. Pregavano e la confortavano. Dopo undici giorni di strazio, il 25 giugno 1931 suor Maria Amelia lasciò la terra per il Cielo.  Aveva solo 30 anni di età.

La tomba nuova al cimitero Verano accolse la prima Suora Oblata: “Suor Maria Amelia Antonucci”.

La sua è stata una vita d’amore e d’impegno spesa per Dio, per la santificazione dei Sacerdoti e per la Chiesa.

UN CARO RICORDO

Mons Giuseppe Perrone, grande amico dell’Istituto e direttore spirituale della Madre Teresa, conosceva molto bene Suor M. Amelia, essendo stato tanti anni a Roma. Era tornato poi a Castellaneta (Taranto), sua terra di origine, ma non aveva dimenticato né la sua figlia spirituale, né le suore Oblate, né l’Istituto. Quando gli fu comunicata la notizia della malattia di Suor M. Amelia, unì le sue preghiere a quelle delle suore, per implorare la guarigione dell’inferma. Poi, quando seppe che era deceduta, inviò alla Madre Teresa una lettera di viva partecipazione al dolore suo e delle suore:

+ Castellaneta, 27/6/1931

Rev. da Madre,

Avrà ricevuto ieri il mio telegramma. Telegrafai anche alle suore di Roma. Il suo telegramma mi giunse ieri mattina, perché gli uffici postali si chiudono alle 7 di sera.

Ora Le scrivo mentre il mio cuore prova una sensibilissima pena. Il Signore ha voluto rendere più preziosa la morte di questa carissima figlia con la sua offerta di vittima! Che la sua offerta e la sua morte possano essere propiziazione per i mali grandissimi che affliggono la Chiesa in tanti luoghi e nazioni e particolarmente in quest’ora in Italia. . .

Possano essere salvezza per qualche cuore sacerdotale, secondo la sua missione di Oblata!

Era una Figlia che si santificava davvero; ed io sono stato più volte edificato, quando per iscritto o a voce mi ha messo a parte del suo serio lavoro spirituale. L’Istituto, e segnatamente l’Opera dei Piccoli Amici, ha avuto da quella Figlia dei segnalati servigi. Il Signore l’aveva dotata di belle e sante qualità, per cui riusciva con semplicità in tante cose, in cui avrebbero fallito personaggi di giudizio! Non ricercava se stessa; e il suo segreto era l’agire sotto l’influsso dell’obbedienza.

Voglia ora dal Cielo continuare più efficacemente a prestare la sua opera preziosa! La sua memoria rimarrà in benedizione tra le suore, che avranno in Lei un esempio da imitare.

Comprendo il sensibile vuoto che si proverà da tutte; e particolarmente compatisco Lei, Rev. Madre, di cui credo di capire il dolore profondo... Ma, mentre offriamo suffragi per quell’anima carissima, credo che possiamo anche domandare la sua intercessione presso Dio!

Io offrirò per Lei due Messe di suffragio: il giorno 29 corr. e il 2 luglio, oltre a vari altri suffragi, preghiere, a cui si uniscono le mie sorelle con le loro Comunioni e preghiere. Altri aiuti spirituali ho domandato e domanderò a molte altre persone (comprese due comunità religiose).

Speriamo che raggiunga prestissimo il possesso beatifico di Dio, qualora una purificazione le fosse ancora necessaria per le umane fragilità. Ma le anime che lasciano la terra nel puro amore di Dio, passano direttamente alla gloria, specialmente se l’amore si congiunge alla purificazione della sofferenza, come è il caso della buona Sr. M. Amelia.

Se il Signore me lo avesse permesso non con una lettera, ma personalmente: sarei, venuto costì! Fiat!

Rivivo interamente il suo dolore, come quello delle suore, e particolarmente delle povere sorelle Chiarina e Velia, alle quali scrivo una parola a parte.

Le mie sorelle si uniscono intimamente a me come nella preghiera così nell’esprimere il loro grande dolore. Abbiamo provato sensibilissima pena ed esse ed io, dopo le ansie dei giorni passati. - Oh adorabile volontà di Dio!

Sarei contento di avere atre notizie della cara Defunta. Mi dia presto anche sue notizie, mentre io la raccomando molto al Signore. . .

La benedico nell’amore del Divin Cuore e con Lei tutte le Suore, Novizie, Probande e bambini.

Aff. mo in C. J. Sac. G. Perrone

CREDERE ALLA LUCE

“Proprio quando è notte, è bello credere alla luce!”

Non è paragonabile alle tenebre notturne la morte di una persona cara? Sì! Ma “occorre guardare in alto” nella fede, e credere alla lieta realtà rivelataci da Cristo, che dissipa le tenebre anche le più fitte.

E’ bello credere alla luce. Chi muore dà ancora testimonianza: per come è vissuto, per come ha operato, per come ha sofferto, per come ha amato . . . . Suor M. Amelia Antonucci ha lasciato tanta luce. Noi ne siamo illuminate e il cuore si riempie del desiderio di imitarla.

Credere alla luce. Gesù disse a Marta: “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore vivrà: chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno. Credi tu questo?. . . (Gv. 11, 25-26)

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