Fuoco nell'Illinois
Aveva otto anni, quando un giorno, servendo la Santa Messa al Vescovo Mons. John Spalding, gli sfuggì di mano l’ampollina del vino che si schiantò con gran fracasso sul pavimento della cattedrale. In sacrestia, si aspettava un terribile rimprovero. Il Vescovo, invece, tutto amabile, gli domandò: «Giovanotto, a che scuola andrai quando sarai più grande?». Il piccolo nominò la scuola cattolica della città. Ma il Vescovo, sottolineò: «Ti ho detto: quando sarai grande!». E aggiunse, sicuro: «Di’ a tua madre che un giorno, andrai a studiare a Lovanio e poi diventerai Vescovo, come me». Il ragazzino rientrò in casa e riferì tutto alla mamma, ma presto dimenticò completamente il discorso del prelato.
Si chiamava Fulton Sheen, il buon chierichetto, ed era nato ad El Paso, nell’Illinois (Stati Uniti), l’8 maggio 1895, da una famiglia irlandese. Qualche anno dopo, i suoi genitori si trasferirono a Peoria, centro della diocesi, affinché i loro figli potessero frequentare le scuole superiori cattoliche. Ebbene, proprio a Peoria, Fulton, dopo le elementari, intraprese gli studi letterari e filosofici.
Al centro della sua giovinezza, già c’è Gesù, che lo occupava e lo avvicinava a Sé. Quando scoprì in modo chiaro la sua chiamata al sacerdozio, entrò in Seminario: destinazione, diventare un vero alter Christus. Nella cattedrale di Peoria, il 20 settembre 1919, a 24 anni, fu ordinato sacerdote.
Il Vescovo lo mandò a proseguire gli studi all’Università Cattolica di Washington, ma Don Fulton desiderava approfondire il pensiero filosofico di San Tommaso d’Aquino: la filosofia dell’essere, la filosofia perenne, per confutare, alla luce della ragione e della fede, i gravi errori delle filosofie moderne, negatrici di Dio e della Verità, e farsi apostolo e difensore della Verità. Così, il Vescovo, lo mandò a studiare all’Università di Lovanio, in Europa. Lì, ottenne il dottorato in filosofia, a Roma quello in teologia. Ora era davvero diventato un maestro della Verità, della Fede cattolica cogitata, nella luce radiosa di Maestro Tommaso.
Rientrato negli States, va come vice-parroco in una parrocchia di periferia. Inizia con la predicazione quaresimale: le prime sere, erano pochi ascoltatori, ma col passar dei giorni, crebbero in modo enorme a sentire il giovane predicatore. Seguì una Pasqua meravigliosa, con numerose conversioni, con il ritorno ai Sacramenti da parte di un gran numero di persone. Sì, perché Don Fulton predicava per convertire le anime a Cristo e condurle in Paradiso e per questo, affinché la sua predicazione fosse efficace, passava lungo tempo in adorazione a Gesù Eucaristico, davanti al Tabernacolo. Celebrava il sacrificio della Messa, ogni giorno con più fervore, chiedendo a Gesù di poter conquistare a Lui più anime possibile.
Un anno dopo, seppe che era desiderato all’Università Cattolica, come docente di filosofia. Per 25 anni, sarà un docente meraviglioso con allievi entusiasti di lui, soprattutto entusiasti della Verità che egli portava a scoprire e a possedere, raptus, come Sant’Agostino, amore indagandae Veritatis. La prima parte della profezia di Mons. Spalding si era avverata. Don Fulton ora ricordava, ma non gli bastava però la cattedra: voleva raggiungere più fratelli ancora, da condurre a Gesù, l’unico Amore della sua vita.
Cristo in Tv
Iniziò a tenere conferenze in patria e all’estero. I suoi discorsi erano sempre più seguiti: appassionava e conquistava. Nel 1930, fu invitato dalla NBC (la radio degli Stati Uniti), a parlare ogni domenica sera, in un programma intitolato “L’ora cattolica”. La sua voce diventò nota in tutti gli States. Si trovò sommerso da migliaia di lettere: persone che gli aprivano l’anima, alla ricerca di Dio. Rispondeva a tutti. E pregava per loro. Si vide una primavera di conversioni a Gesù, e alla Chiesa Cattolica. Anche il Papa, Pio XI seppe di lui. Nel 1935, ad esprimergli la sua riconoscenza, lo nominò Prelato domestico, con il titolo di Monsignore.
Nel 1950, all’inizio dei programmi Tv, fu chiamato dalla medesima NBC a comparire sui teleschermi. Cominciò con il programma "Vale la pena di vivere", in cui partendo dalla necessità impellente per tutti di dare un senso alla vita, evidenziava che ogni uomo, lasciato solo, può soltanto dire di se stesso: "Magna quaestio factus sum mihi, sono diventato un gran problema per me, e problema insolubile". A questo problema, Mons. Sheen, offriva una risposta: Gesù Cristo, l’unica soluzione di tutti i problemi, il Cristo crocifisso e risorto.
Ogni settimana era seguito da 30 milioni di persone. Il suo linguaggio era limpido, comprensibile a tutti, di serietà straordinaria, eppure a volte scherzoso, sempre piacevole, anche quando poneva davanti alle più gravi responsabilità della vita.
Sempre nel 1950, venne nominato direttore nazionale della Società per la propagazione della Fede. Iniziò una lunga serie di viaggi in Asia, in Africa e in Oceania per interessarsi dell’evangelizzazione dei popoli. Un’altra mirabile possibilità di irradiare Gesù, il suo Vangelo, di far comprendere che solo in Lui ogni anima, ogni popolo trova la sua vera grandezza. Gesù nella parrocchia, Gesù sulla cattedra universitaria, Gesù alla radio e in Tv, Gesù per le strade del mondo. Perché solo Gesù è il Salvatore del mondo, il Figlio di Dio incarnato e crocifisso, il Vivente!
L’11 giugno 1951, a Roma, per volontà di Papa Pio XII, Mons. Fulton Sheen è consacrato Vescovo. Si avvera così, in pieno, la profezia di Mons. Spalding di 50 anni prima. Nella sua autobiografia, scriverà: «L’investitura episcopale può dare un senso di euforia, ma non necessariamente la stima che la gente ti dimostra, corrisponde a quella che il Signore ha di te». Per questo, la sua autobiografia, s’intitola: "Un tesoro d’argilla", a dire il contrasto tra l’immenso valore del sacerdozio e la fragilità della persona cui è conferito. Tuttavia, il sacerdote, e ancor più il Vescovo, è chiamato ad agire in persona Christi, a essere un Cristo vero, in mezzo al mondo, per la gloria di Dio e la salvezza delle anime.
È mandato Vescovo ausiliare a New York, ma continua a parlare in Tv e a scrivere libri, uno più bello dell’altro, che hanno un grande successo, una mirabile fecondità di bene. Ne citiamo alcuni: “La pace dell’anima”, “La felicità del cuore”, ”Il primo amore del mondo”, quest’ultimo sulla Madonna, nel quale la dottrina si associa sovente alla poesia, sempre in uno stile denso di luce. Per lo scrivente, il più bello è “La filosofia della religione”, in cui mostra come ai nostri giorni, la filosofia abbia raggiunto il livello più basso di irrazionalismo con cui guarda con disprezzo assoluto a Dio e alle Verità eterne... e poi, l’autore indica il cammino della sana ragione, illuminata dalla fede, alla ricerca e al possesso di Dio, in Cristo, unica Via, unica Verità, unica Vita. È la filosofia di San Tommaso, che sola ci è di guida per la comprensione dell’uomo, del mondo e di Dio. È la più vera apologetica che conduce alla Verità eterna.
Mons. Fulton Sheen, nel 1966 è nominato Vescovo di Rochester e sperimenta sulla sua pelle la contestazione che ormai dilaga nella Chiesa nel post Concilio. La febbre dell’impegno nel mondo sembra impadronirsi di preti e suore, a scapito della preghiera e del rapporto con Dio. Il catechismo e i Sacramenti diventano secondari, o inutili, davanti alle cosiddette “urgenze” del tempo. È un vento infido che soffia e squassa tutto, cosicché Papa Paolo VI parla di “autodemolizione della Chiesa”. Il Vescovo brillante dei teleschermi, noto al mondo intero, alza la voce per dire a preti e seminaristi che: «innanzitutto il sacerdote è chiamato ad essere con-vittima e con-redentore con Gesù offerto sulla croce e sull’altare. Non basta alleviare le necessità materiali dei fratelli, occorre annunciare Gesù, farlo conoscere e amare. Convertire le anime a Lui e questo è frutto di santità, di unione con Dio».
«Cerca la Chiesa più odiata»
Diventato Vescovo emerito a 75 anni, nel 1969, continua a tenere conferenze e a scrivere articoli e libri. Sono ormai più di sessanta, tra cui la sua famosa “Vita di Cristo”. Le sue conversazioni televisive sono raccolte in volumi, diffusi in tutto il mondo. Solo Dio sa quante persone egli abbia convertito: si tratta di cattolici da anni lontani dai Sacramenti, di non cattolici che grazie a lui hanno trovato la vera Chiesa di Cristo, di peccatori con gravissime colpe.
Il 20 settembre 1979, Mons. Sheen celebra la Santa Messa per il suo 60° di sacerdozio, ricordando all’omelia: «Non è che io non ami la vita, ma ora voglio vedere il Signore. Ho passato tante ore davanti a Lui nel Santissimo Sacramento, ho parlato a Lui nella preghiera e di Lui con chiunque mi volesse ascoltare. Ora voglio vederlo faccia a faccia».
Due mesi dopo, il suo desiderio si compie: il 9 dicembre 1979, va a vedere Dio faccia a faccia, nella gioia. Impressiona ancora oggi quando egli ci insegna che cosa dobbiamo fare nella confusione dilagante del nostro tempo: «Se io non fossi cattolico, diceva nel 1957, e volessi trovare quale sia oggi, nel mondo, la vera Chiesa, andrei in cerca dell’unica Chiesa che non va d’accordo col mondo. Andrei in cerca della Chiesa che è odiata dal mondo... Cerca quella Chiesa che i mondani vogliono distruggere in nome di Dio, come crocifissero Gesù. Cerca quella Chiesa che il mondo rifiuta, come gli uomini rifiutarono di accogliere Cristo».
Lui, da parte sua, il suo compito l’aveva avuto chiaro davanti, ed è pure il nostro: «Ero uscito di casa per saziarmi di sole. Trovai un Uomo – Gesù – che si dibatteva nel dolore della crocifissione. Mi fermai e gli dissi: “Permetti che ti stacchi dalla croce”. Lui rispose: “Lasciami dove sono, fino a quando avrò un fratello da salvare”. Gli dissi: “Cosa vuoi che io faccia per Te?”. Mi rispose: “Va’ per il mondo e di’ a coloro che incontrerai che c’è un Uomo inchiodato alla croce”».
La causa di beatificazione e canonizzazione fino al riconoscimento delle virtù eroiche
La fama di santità di monsignor Sheen, diffusa sin durante la sua vita e mai venuta meno dopo la sua morte, ha condotto la «Fondazione Arcivescovo Fulton J. Sheen» della diocesi di Peoria a costituirsi parte attrice della sua causa di beatificazione e canonizzazione, per l’accertamento dell’eroicità delle sue virtù cristiane.
Il 14 settembre 2002 fu ottenuto il trasferimento di competenza dalla diocesi di New York, nel cui territorio il vescovo era morto. Il 23 gennaio 2003 la Santa Sede ha concesso il nulla osta per l’avvio della causa. L’inchiesta diocesana si è quindi svolta a Peoria dal 29 settembre 2003 al 3 febbraio 2008. Il decreto di convalida giuridica degli atti dell’inchiesta è invece datato 17 ottobre 2008.
La “Positio super virtutibus”, consegnata nel 2011, è stata esaminata il 28 ottobre 2011 dai Consultori teologi della Congregazione delle Cause dei Santi, con esito positivo. Il 15 maggio 2012, anche i cardinali e i vescovi membri della stessa Congregazione si sono pronunciati a favore dell’eroicità delle virtù del Servo di Dio.
Il 28 giugno 2012, ricevendo in udienza il cardinal Angelo Amato, Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, papa Benedetto XVI autorizzò la promulgazione del decreto con cui monsignor Fulton John Sheen veniva dichiarato Venerabile. Peraltro, il Papa emerito l’aveva conosciuto personalmente, negli anni del Concilio Vaticano II.
La traslazione dei resti mortali
Tuttavia, il 3 settembre 2014, la diocesi di Peoria aveva annunciato la sospensione a tempo indeterminato della causa. La ragione risiedeva nel mancato accordo tra la diocesi di New York, nella cui cattedrale di San Patrizio il vescovo era stato sepolto, e quella di Peoria, circa la ricognizione canonica e la traslazione dei resti mortali.
Dopo tre anni di battaglia legale, il 7 giugno 2019 la Corte d’Appello dello Stato di New York ha rigettato l’ultima richiesta presentata dalla diocesi di New York, contraria alla traslazione a Peoria, sostenuta invece dalla nipote del Venerabile, Joan Sheen Cunningham. In seguito alla sentenza, le due diocesi si sono accordate per compiere la ricognizione e la successiva traslazione secondo quanto indicano il diritto canonico e quello civile.
Il 27 giugno 2019, infine, i resti di monsignor Sheen sono stati collocati nel nuovo sepolcro predisposto nella cattedrale di Santa Maria dell’Immacolata Concezione a Peoria, precisamente nella cappella della Madonna del Perpetuo Soccorso. In quella stessa chiesa lui aveva ricevuto la Prima Comunione, la Cresima, l’Ordine Sacro e aveva celebrato la sua Prima Messa.
Il miracolo per la beatificazione
Tra le numerose grazie singolari segnalate per sua intercessione è stato esaminato, secondo quanto afferma la diocesi di Peoria in un comunicato stampa, il caso di un bambino nato morto nel 2010. I familiari del neonato cominciarono subito a rivolgersi nella preghiera a monsignor Sheen, mentre il piccolo veniva trasferito all’OSF Medical Center, a pochi isolati di distanza dalla cattedrale di Peoria.
Nonostante avesse ricevuto i trattamenti medici più avanzati, il neonato continuava a non manifestare segni di vita. Dopo sessanta minuti, sarebbe stato dichiarato clinicamente morto. Il medico attese ancora un minuto, ma proprio mentre stava per annunciare il decesso, il cuore del neonato cominciò a battere e la sua respirazione divenne normale. Dopo qualche settimana, il bambino fu dimesso: da allora gode di buona salute.
Nel 2011 la diocesi di Peoria ha istruito l’inchiesta sul presunto miracolo, i cui risultati sono stati consegnati, nel dicembre dello stesso anno, alla Congregazione delle Cause dei Santi. La Consulta Medica, il 6 marzo 2014, si è pronunciata a favore dell’impossibilità di spiegare l’accaduto secondo le attuali conoscenze mediche. Il 17 giugno 2014, invece, i Consultori teologi si sono pronunciati a favore del legame tra l’avvenuta guarigione e l’intercessione di monsignor Sheen.
Il 5 luglio 2019, ricevendo in udienza il cardinal Giovanni Angelo Becciu, Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi papa Francesco ha autorizzato la promulgazione del decreto con cui l’accaduto era riconosciuto come miracolo ottenuto per intercessione del Venerabile Fulton Sheen.
La beatificazione avrà luogo il 21 dicembre 2019, presso la cattedrale di Santa Maria dell’Immacolata Concezione a Peoria, al termine dell’anno centenario dell’ordinazione sacerdotale di monsignor Sheen.
Autore: Paolo Risso ed Emilia Flocchini
Don Luigi Rovigatti:
Sacerdote in eterno
Ho conosciuto personalmente Sua Eccellenza mons. Luigi Rovigatti e ne conservo un bellissimo ricordo.
Fin da quando fu nominato vescovo ausiliare di Tarquinia e Civitavecchia chiese di venire ad abitare nella nostra casa sacerdotale di villa Assunta in via Aurelia Antica, 284, Roma.
In quel momento non c’erano camere disponibili all’infuori di una cameretta posta al secondo piano nella quale tutto era semplice, anzi quasi povero. Gli piacque, disse, non solo perché era silenziosa ma perché, per i pochi effetti personali che avrebbe portato con sé, sarebbe stata più che sufficiente. Quando vi si trasferì, aveva infatti soltanto due valigie di indumenti e parecchi libri. Nient’altro.
Come già facevamo per gli altri sacerdoti ospiti, ci prendemmo cura anche della sua biancheria: pochi capi nuovi, (forse regalatigli dai parrocchiani al momento del saluto) i rimanenti usati a lungo o addirittura sdruciti. A chi di noi gli faceva notare che forse era necessario comprarne di nuovi, lui rispondeva con dolce fermezza: “No, suora. Va bene così” e ci spiazzava ma nel sorriso che illuminava sempre il suo volto si rispecchiava la letizia francescana.
La sua giornata si divideva in tre tempi: in cappella, in diocesi e in parlatorio.
Io ero giovanissima suora ed ero affascinata dal raccoglimento con cui Egli celebrava la Santa Messa e dal molto tempo che dopo la celebrazione, rigorosamente in ginocchio, dedicava al ringraziamento. In alcuni giorni, forse quelli liberi dagli impegni diocesani, lo vedevo trascorrere lunghe ore in adorazione davanti a Gesù Sacramentato oppure passeggiare per il giardino con il rosario in mano.
Il pomeriggio in genere lo passava in parlatorio con le persone che venivano a fargli visita: in maggioranza erano sacerdoti, che entravano preoccupati e se ne andavano sorridenti.
Un giorno durante il pranzo si sentì male e se ne andò in camera a riposare. Io ero di turno in portineria. Dopo un poco di tempo telefonò un sacerdote che desiderava parlargli. Io gli risposi che il Vescovo stava riposando e che era bene non disturbarlo in quel momento. Avrebbe potuto telefonargli un poco più tardi. Il sacerdote fu subito d’accordo.
Dopo un paio di ore sua Eccellenza venne giù in portineria e mi domandò se qualcuno gli avesse telefonato. Gli risposi di sì e gli comunicai il nome di chi l’aveva chiamato e la risposta che gli avevo dato. Immediatamente si fece scuro in volto e con voce imperiosa mi disse: «Suora, quello che ha fatto oggi, non lo faccia mai più». Provai a dirgli che, avendo saputo che stava poco bene, desideravo farlo riposare, ma lui non mi fece neanche finire di parlare e aggiunse con determinazione: «Suora, io sono il Vescovo e ho il sacrosanto dovere di essere a disposizione dei miei sacerdoti in qualsiasi momento. La ringrazio per la sua attenzione nei miei riguardi ma non posso assolutamente apprezzarla, perché se qualcuno mi cerca vuol dire che ha bisogno di me e allora la mia salute passa in second’ordine».
Rimasi senza parole e mi sentii quasi offesa ma una suora anziana, presente alla scena, quando rimanemmo da sole, mi fece riflettere sull’accaduto e mi aiutò ad ammirare tanta disponibilità nei confronti degli altri e tanto disinteresse per se stesso e per la propria salute.
Verso sera sua Eccellenza tornò in portineria con un libro in mano, il cui titolo era “L’avventura di un povero cristiano” di Ignazio Silone. Con il suo solito sorriso me lo porse e mi disse: «Suora, lo legga. Le farà bene e l’aiuterà a perdonare la mia scortesia nei suoi confronti».
A distanza di tanti anni, quando mi ricordo di lui, lo rivedo lì in ginocchio davanti a Gesù Sacramentato. Sono certa che anche in Paradiso starà lì in ginocchio ad adorare il Signore che lo ha scelto come suo sacerdote e mi vengono in mente le parole del cardinale Robert Sarah: «Davanti alla maestà e alla santità di Dio noi non siamo in ginocchio come schiavi. Siamo degli innamorati in compagnia dei serafini, abbagliati di fronte allo splendore di Dio che riempie della Sua silenziosa Presenza il tempio del nostro cuore».
Suor Costanza
Oblata del Sacro Cuore di Gesù
E ora lascio la parola ad Augusto D’Angelo.
Parroco della Natività per vent’anni, fino al 1966, poi vescovo, fu tra i primi ad inaugurare a Roma la Messa in italiano nel post-Concilio. Il ricordo del cardinale Ugo Poletti al funerale.
«Due sono gli scopi per cui una parrocchia esiste: rendere bella la Chiesa e fare la carità». Lo ripeteva spesso don Luigi Rovigatti, nel 1937 vice parroco e dal 1947 parroco della Natività per vent’anni, sottolineando la necessità che la Chiesa dovesse essere attrattiva e che per vivere la carità si dovesse uscire dalle sue mura.
Ha accompagnato la sua comunità parrocchiale dal duro periodo del post-conflitto a quelli della sperimentazione post-Conciliare, dagli anni duri della ricostruzione fino al boom economico, vedendo cambiare il suo quartiere, da periferia a quartiere di media borghesia. Una compagnia affettuosa e fedele, la sua, che Giovanni Paolo II, nella sua visita alla parrocchia il 14 dicembre 1980, volle ricordare come determinante per la formazione del tessuto sociale e di fede della zona. Facendo riferimento alla «vasta famiglia dei fedeli» della Natività, papa Wojtyla disse: «Non già una massa anonima, ma una formazione vitale che, anche se di origine relativamente recente, ha potuto fruire fin dall’inizio dello zelo esemplare di Mons. Luigi Rovigatti (a cui elevo ora un memore pensiero) ed ha compiuto in poco più di quarant’anni un lungo e positivo itinerario di fede, operando una felice sintesi tra gli elementi della tradizione ed i provvidenziali fermenti del Concilio».
Don Rovigatti era nato a Monza il 23 aprile 1912, e nel 1930, dopo gli anni del liceo, era entrato nel Pontificio Seminario Romano Maggiore. Ma la fragilità fisica lo costrinse ad un temporaneo ritiro e a continuare la preparazione al sacerdozio in famiglia. Dopo l’ordinazione, avvenuta nel 1935, fu assegnato come viceparroco alla appena sorta parrocchia della Natività, eretta nel 1937 dal cardinale Marchetti Selvaggiani, abile ad utilizzare il Concordato per permettere alla Chiesa la costruzione di nuovi luoghi di culto nei quartieri che accompagnarono l’espansione della Roma fascista.
Dal 1938 iniziò a lavorare in Vicariato e a collaborare con don Ettore Cunial nella neonata parrocchia di Santa Lucia, dove vennero nascosti e salvati diversi perseguitati dal regime. Nel decennale della erezione della Natività ne fu nominato parroco (1947) e vi rimase fino al 1966. Venti anni di servizio che hanno lasciato il segno.
Come parroco si distinse nell’introdurre modalità pastorali capaci di anticipare alcune riforme conciliari, soprattutto dal punto di vista liturgico, da quello della partecipazione del laicato all’azione pastorale. Istituì già negli anni Cinquanta i “gruppi del Vangelo”, momenti di riflessione e studio in cui venivano infranti i muri di separazione che tradizionalmente accompagnavano l’esperienza dei laici: nei “gruppi” si trovavano uomini, donne, e giovani di entrambi i sessi, cosa assai innovativa per l’epoca. Organizzò il “Fraterno Aiuto Cristiano” per il sostegno alla celebrazione comunitaria del battesimo; abolì le tariffe per le celebrazioni. Un suo chierichetto, a cui insegnò a non accettare mance dopo i funerali dai familiari dei defunti, ha raccontato che don Luigi diceva sempre: «Il servizio al Signore si fa gratis».
La sua opera era ben conosciuta a Roma tanto che nel 1960 venne incluso nella commissione per la riforma liturgica, voluta da Papa Roncalli in vista del Concilio. Fu tra i primi ad inaugurare a Roma la Messa in lingua italiana nel post-Concilio e innovò con sensibilità ed equilibrio. Il gesuita Giovanni Caprile, grande testimone e cronista del Concilio, scrisse di lui: «Don Luigi capì e visse la liturgia non come proprietà sua, da manipolare a piacimento, ma come un tesoro affidatogli per il vero bene delle anime. Il suo esempio e le sue intuizioni ci dicono che colpì nel segno, tanto da poter essere proposto a modello».
Il 23 maggio 1966 si separò dalla sua amata parrocchia e fu nominato vescovo ausiliare dell’ottuagenario vescovo di Tarquinia e Civitavecchia Giulio Bianconi. Nel maggio del 1968 divenne ausiliare di Andrea Pangrazio, arcivescovo ad personam della diocesi suburbicaria di Porto e Santa Rufina, che, il 28 dello stesso mese, lo nominò anche vicario generale. Dall’agosto 1969 cumulò a questo incarico quello di amministratore apostolico “sede plena” di Tarquinia e Civitavecchia.
Il 10 febbraio 1973 venne promosso arcivescovo titolare di Acquaviva e nominato vicegerente della diocesi di Roma, accanto al pro-vicario Ugo Poletti, che di lì a qualche settimana divenne cardinale. Ma al nuovo incarico poté dedicare solo poche settimane perché aggredito da una grave e dolorosa malattia che lo condusse alla morte il 13 gennaio 1975.
Qualche settimana prima della morte per don Luigi, splendida figura del clero romano, era andato in visita al suo capezzale anche Paolo VI. La sera del 23 novembre 1974 Papa Montini era uscito dal Palazzo apostolico in forma privata dopo le 21, accompagnato dal segretario personale don Macchi e da due dignitari della Casa pontificia, per raggiungere il Calvary Hospital e fermarsi al capezzale del malato per confortarlo. Dopo i funerali, celebrati a San Giovanni in Laterano, venne temporaneamente sepolto nella cappella funeraria dei parroci romani nel cimitero del Verano, ma il 13 giugno 1977 tornava, per la sepoltura definitiva, nella sua amata parrocchia della Natività in via Gallia.
Ai suoi funerali Poletti (allora pro-vicario) lo ricordò con parole toccanti e sottolineò come l’amicizia rappresentasse il suo modo di far sentire la vicinanza del Signore, il cuore del suo spirito missionario. Diceva Poletti di don Luigi: «Aveva la capacità e il segreto di fare amicizia, di legare a sé gli animi al di fuori e al di sopra di ogni sentimentalismo. Anzitutto aveva il culto della persona altrui, della dignità dell’interlocutore, che poi si tramutava in un discorso tanto più efficace quanto più franco e schietto, che ispirava fiducia… Cercava prima la buona volontà e poi il cuore di chi gli stava di fronte, donando schiettezza per ottenere sincerità e confidenza. La logica stringente della dottrina, che possedeva profonda, veniva poi. Aveva certo il dono del conversare sapido e sostanzioso, senza misurare il tempo, perché il tempo conta poco a paragone dell’amicizia».
IL SACERDOTE
E L’AZIONE CURATRICE
DELL’ADORAZIONE EUCARISTICA
( riflessione del mese di novembre 2019)
Il Vangelo di san Matteo si conclude con questa scena e con queste parole molto rassicuranti, pronunciate da Gesù nell’accomiatarsi dai suoi Apostoli: «Gli undici discepoli, intanto, andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato. Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. Gesù si avvicinò e disse loro: “A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”». (Mt 28,16-20)
Padre Florian Racine, fondatore dei Missionari della Santissima Eucaristia, in una sua conferenza diceva: «L’Eucaristia è il nostro vero tesoro sulla terra: non c’è nulla di più bello, di più grande, di più mirabile di questa presenza del Risorto che, pur senza lasciare il cielo, ha posto la sua dimora in mezzo a noi per arricchirci della sua grazia e rivestirci della sua gloria».
E don Ghislain Roy, sacerdote del Québec, che da anni gira il mondo per diffondere l’adorazione eucaristica perpetua, afferma: «Quando la Chiesa smette di proporla come fonte di guarigione e liberazione, le persone cercano di sanare le loro ferite rivolgendosi al New Age o altri surrogati». Parlando del lavoro svolto in comunità, don Roy spiega: «Nella parrocchia dove mi trovo, a Bauceville in Canada, c’è una cappella per l’adorazione eucaristica perpetua, con più di duecento persone che si danno il turno giorno e notte, tutte le settimane. Sono loro che testimoniano di liberazioni, guarigioni, soluzione di problemi fra le coppie, guarigioni dei cuori di giovani che vivevano grandi difficoltà. Qualcuno è stato liberato da pensieri di suicidio». E aggiunge: «Una signora con un tumore è venuta a chiedermi un consiglio e io le ho risposto: “Vada di fronte a Gesù nel Santissimo Sacramento per essere guarita”. Se noi non proponiamo questo, la gente cercherà la propria guarigione nel New Age, nel reiki, nello yoga … quando la Chiesa ha tutto ciò di cui le persone hanno bisogno. Siamo noi che lo dobbiamo proporre e che dobbiamo convertirci in adoratori. Se non sono uno che fa adorazione, sarà molto difficile parlare di tutto ciò e convincere gli altri».
André Frossard, giornalista e saggista francese, membro dell’Académie Française, era figlio di Louis-Oscar Frossard, uno dei fondatori del Partito Comunista Francese. Cresciuto in una famiglia di atei, a circa vent’anni, l’8 luglio 1935, accompagnò un amico in una chiesetta di Parigi e lo attese fuori. Non vedendolo tornare, decise di entrare e sostò casualmente davanti al Santissimo Sacramento.
Questo il suo racconto: «Entrato alle 5,10 in una cappella del quartiere latino di Parigi, per cercarvi un amico, ne sono uscito alle 5 e un quarto in compagnia di un’Amicizia che non era di questa terra. Entratovi scettico ed ateo… più ancora che scettico e più ancora che ateo, indifferente e preoccupato di ben altre cose che di un Dio che non pensavo neppure più a negare… In piedi accanto alla porta, cerco con gli occhi il mio amico, ma non riesco a riconoscerlo… Il mio sguardo passa dall’ombra alla luce… dai fedeli, alle religiose, all’altare… Si ferma sulla seconda candela che brucia a sinistra della Croce (ignoro di trovarmi di fronte al Santissimo Sacramento). E allora d’improvviso si scatena la serie di prodigi la cui inesorabile violenza smantellerà in un istante l’essere assurdo che sono, per far nascere il ragazzo stupefatto che non sono mai stato… Dapprima mi vengono suggerite queste parole “Vita Spirituale”… come se fossero pronunciate accanto a me sottovoce… poi una grande luce,… un mondo, un altro mondo d’uno splendore e di una densità che rimandano di colpo il nostro tra le ombre fragili dei sogni irrealizzati… l’evidenza di Dio… del Quale sento tutta la dolcezza… una dolcezza attiva, sconvolgente, al di là di ogni violenza, capace di infrangere la pietra più dura e, più duro della pietra, il cuore umano. La sua irruzione straripante, totale, s’accompagna con una gioia che è l’esultanza del salvato, la gioia del naufrago raccolto in tempo. Queste sensazioni, che trovo fatica a tradurre in un linguaggio inadeguato delle idee e delle immagini, sono simultanee… Tutto è dominato dalla Presenza… di Colui del quale non potrò mai più scrivere il nome senza timore di ferire la sua tenerezza, Colui davanti al quale ho la fortuna di essere un figlio perdonato che si sveglia per imparare che tutto è dono».
E aggiunge: «Dio esisteva ed era presente, rivelato e mascherato ad un tempo da quella delegazione di luce, che, senza discorsi né figure, dava tutto alla comprensione e all’amore… Una cosa sola mi sorprende: l’Eucaristia; non che mi sembrasse incredibile, ma mi stupiva che la Carità divina avesse trovato questo metodo inaudito per comunicarsi, e soprattutto che avesse scelto per farlo, il pane, che è l’alimento del povero e il cibo preferito dei ragazzi…».
Frossard conclude la sua confessione con queste bellissime parole: «Amore, per parlare di te sarà troppo corta l’eternità».
In questo mese di novembre proponiamoci di fare ogni giorno o molto spesso una visita a Gesù Eucaristia. Quando usciamo per fare una passeggiata o qualche commissione entriamo in una chiesa, inginocchiamoci davanti al Signore e preghiamolo per tutti i sacerdoti defunti che, durante la nostra infanzia, con il loro esempio ci hanno inculcato il rispetto e la venerazione per il Santissimo Sacramento; per i sacerdoti adoratori che insegnano ai fedeli l’importanza e il gusto dell’adorazione eucaristica e soprattutto per i sacerdoti che si lasciano prendere da tante cose e trascurano proprio il sostare in adorazione, ricordandoci che, come dice in una sua omelia il cardinale Robert Sarah, «un uomo in ginocchio è il più potente del mondo. È un baluardo inespugnabile contro l’ateismo e la follia degli uomini. Un uomo in ginocchio fa tremare l’orgoglio di Satana. Tutti voi che, agli occhi degli uomini, siete senza potere e influenza, ma che sapete rimanere in ginocchio davanti a Dio, non abbiate paura di coloro che vogliono intimidirvi».
Mikel Koliqi
testimone forte e silenzioso dell'Amore
Nel concistoro del 26 novembre 1994 il Santo Padre Giovanni Paolo II concesse la porpora cardinalizia, che fu salutata dall’intera Albania come segno di speranza e incoraggiamento a una Chiesa che, dopo la terribile dittatura comunista, a fatica cominciava ad avviarsi verso la rinascita, a un sacerdote di 92 anni che morì tre anni dopo, il 28 gennaio 1997.
Ma chi era questo sacerdote cui il Santo Padre concedeva questo riconoscimento? Era Mikel Koliqi.
Consacrando quattro vescovi albanesi nella Cattedrale di Scutari che i comunisti avevano trasformato in un palazzetto dello sport, il Papa polacco, che già nell’amata Polonia aveva vissuto sulla sua pelle i soprusi delle dittature, si commosse profondamente nel conoscere la storia di quei vescovi, sacerdoti, religiosi e laici che subirono il martirio, dopo anni di prigionia e torture di ogni genere.
Koliqi era uno dei pochi sopravvissuti. Più volte si trovò a un passo dalla morte e il suo nome ha rischiato di finire nella lista dei preti trucidati dal regime: 65 per condanna a morte o tortura, 64 morti nei campi o dietro le sbarre.
Egli ebbe la gioia e la fortuna di raccontare la propria testimonianza al Papa proprio il viaggio in Albania, ovvero la visita a Scutari che Giovanni Paolo II svolse nell’aprile del 1993.
Nato a Scutari, il 29 settembre 1902, Koliqi iniziò in diocesi la sua attività pastorale dopo essere stato ordinato sacerdote il 30 maggio 1931. Dopo un periodo di formazione teologica in Italia, fu nominato nel 1936 parroco della Cattedrale e vicario generale. In questa veste, seguendo il cammino dell’Azione Cattolica, si impegnò a portare il Vangelo fra i giovani attraverso la stampa, le attività ricreative e l’istituzione di una compagnia filodrammatica. Come Wojtyla, nutriva infatti una naturale passione per l’arte, il teatro, la musica.
Nel 1945 fu condannato a 21 anni di lavori forzati, con l’accusa di ascoltare emittenti radiofoniche straniere. Ne dovette però scontare 38, tra prigione e violenze, privazioni di acqua e cibo e frustate sulla schiena, senza mai abiurare la sua fede. Fu liberato nel 1986, un anno dopo la morte del dittatore Hoxha, per motivi di età. Aveva infatti 84 anni.
Il 27 novembre 1994 nell’aula Paolo VI Giovanni Paolo II, rivolgendosi al neocardinale diceva:
"Venerato Fratello,
con grande gioia e affetto La accolgo, insieme con quanti si rallegrano con Lei, in occasione della sua elevazione alla dignità cardinalizia. L’incontro odierno rinnova in me il caro ricordo dell’intensa visita che ho potuto compiere in Albania il 25 aprile dello scorso anno. In Lei saluto ora l’autorevole rappresentante della Chiesa albanese, che ha offerto una coraggiosa testimonianza di fedeltà a Cristo, affrontando le terribili sofferenze causate dalla dura persecuzione scatenata dal regime totalitario.
Il suo servizio alla Chiesa si sviluppa nell’arco di lunghi anni. Dopo aver ricevuto la formazione scolastica e teologica in Italia, Ella ha svolto un’efficace azione pastorale, particolarmente rivolta verso la gioventù, nella sua Arcidiocesi di Scutari. Attraverso svariate iniziative Ella ha saputo portare il Vangelo fra i giovani: seguendo il cammino dell’Azione Cattolica, attraverso la stampa, le attività ricreative, l’istituzione di una compagnia filodrammatica, con cui Ella poté esprimere la naturale passione per l’arte e la musica. Tali molteplici attività si intensificarono con la nomina a Parroco della Cattedrale e Vicario Generale dell’Arcidiocesi di Scutari.
La sua illuminata azione pastorale venne fortemente contrastata dal regime comunista, che La fece arrestare e condannare più volte. Le minacce e le pressioni non frenarono il suo impegno di evangelizzazione e di servizio ai fratelli. Per questo la persecuzione comunista si accanì contro di Lei condannandoLa ai lavori forzati, a cui Lei fu sottoposto per lunghi anni in vari campi di lavoro, fino alla liberazione, avvenuta nel 1986. D
opo il duro inverno della violenta opposizione, la Chiesa albanese insieme con Lei può oggi guardare con speranza al futuro. Desidero esprimerle, Signor Cardinale, profonda riconoscenza per l’esempio di intrepida testimonianza evangelica offerta nello svolgimento del ministero sacerdotale.
Mentre invoco la celeste protezione della Madonna del Buon Consiglio tanto cara agli Albanesi, imparto di cuore a Lei, e a quanti oggi La circondano, e alla diletta Nazione albanese la benedizione apostolica”.
Quanti Sacerdoti sono stati e sono ancora oggi testimoni della fede tra sofferenze di ogni genere! Perché allora si cerca in ogni modo di mettere in evidenza quei Sacerdoti che rattristano il Cuore di Cristo con il loro comportamento e oltre tutto si fa di tutt’erbe un fascio?
Alziamo gli occhi e, guardando con grande ammirazione ai primi, preghiamo intensamente per i secondi, perché il Signore conceda loro la grazia di un sincero pentimento e di una proficua penitenza e tornino a brillare come stelle nel cielo ad imitazione di coloro che per Gesù hanno avuto il coraggio di donare la vita.
IL SACERDOTE: APOSTOLO DEL ROSARIO
( riflessione di ottobre 2019)
San Luigi Maria Grignion de Montfort diceva: "Un sacerdote, che recita e predica il Santo Rosario, ottiene più frutto in un mese che altri in un anno".
San Giovanni Paolo II, chiamava il rosario la sua "preghiera preferita". Egli lo recitava quotidianamente.Fin dall'inizio del suo pontificato ha incoraggiato tutti a pregarlo regolarmente. Il 1° ottobre 1997 scrisse: "Cari fratelli e sorelle! Recitate il Rosario tutti i giorni! Chiedo vivamente ai Pastori di recitare e insegnare il Rosario nelle loro comunità cristiane. Per il fedele e coraggioso adempimento dei doveri umani e cristiani propri della condizione di ognuno, aiutate il Popolo di Dio a ritornare alla recita quotidiana del Rosario, questo dolce colloquio dei figli con la Madre che hanno accolto nella loro casa (Gv 19, 27)".
Nell'udienza generale di mercoledì 16 ottobre 2002 così diceva: “Il centro della nostra fede è Cristo, Redentore dell'uomo. Maria non l'offusca, né offusca la sua opera salvifica. Assunta in cielo in corpo e anima, la Vergine, la prima a gustare i frutti della passione e della risurrezione del proprio Figlio, è Colei che nel modo più sicuro ci conduce a Cristo, il fine ultimo del nostro agire e di tutta la nostra esistenza”.
Il suo successore, Benedetto XVI, nella sua visita Pastorale al Pontificio Santuario di Pompei, il 19 ottobre 2008, si esprimeva in questi termini: “Per essere apostoli del Rosario, occorre fare esperienza in prima persona della bellezza e della profondità di questa preghiera, semplice ed accessibile a tutti. È necessario anzitutto lasciarsi condurre per mano dalla Vergine Maria a contemplare il volto di Cristo: volto gioioso, luminoso, doloroso e glorioso. Chi, come Maria e insieme con Lei, custodisce e medita assiduamente i misteri di Gesù, assimila sempre più i suoi sentimenti e si conforma a Lui… Il Rosario è scuola di contemplazione e di silenzio. A prima vista, potrebbe sembrare una preghiera che accumula parole… in realtà, questa cadenzata ripetizione dell’Ave Maria non turba il silenzio interiore, anzi, lo richiede e lo alimenta… A ben vedere, il Rosario è tutto intessuto di elementi tratti dalla Scrittura. C’è innanzitutto l’enunciazione del mistero, fatta preferibilmente con parole tratte dalla Bibbia. Segue il Padre nostro: nell’imprimere alla preghiera l’orientamento “verticale”, apre l’animo di chi recita il Rosario al giusto atteggiamento filiale, secondo l’invito del Signore: “Quando pregate dite: Padre…” (Lc 11,2). La prima parte dell’Ave Maria, tratta anch’essa dal Vangelo, ci fa ogni volta riascoltare le parole con cui Dio si è rivolto alla Vergine mediante l’Angelo, e quelle di benedizione della cugina Elisabetta. La seconda parte dell’Ave Maria risuona come la riposta dei figli che, rivolgendosi supplici alla Madre, non fanno altro che esprimere la propria adesione al disegno salvifico, rivelato da Dio. Così il pensiero di chi prega resta sempre ancorato alla Scrittura e ai misteri che in essa vengono presentati”.
Infine Papa Francesco nell’udienza generale del 1° maggio 2013 diceva: “Vorrei richiamare all’importanza e alla bellezza della preghiera del santo Rosario. Recitando l'Ave Maria, noi siamo condotti a contemplare i misteri di Gesù, a riflettere cioè sui momenti centrali della sua vita, perché, come per Maria e per san Giuseppe, Egli sia il centro dei nostri pensieri, delle nostre attenzioni e delle nostre azioni”.
In questo mese di ottobre preghiamo il rosario per i Sacerdoti, perché riscoprano la bellezza e la potenza di questa preghiera e la facciano amare anche dai fedeli affidati alla loro cura pastorale.
DON MATTEO NARDELLA
“sempre meno se stessi
e
sempre più Cristo”
Il 13 febbraio 2019 alle ore 16:00 nella Chiesa di San Bernardino in San Marco in Lamis (Fg) nel giorno del 43° anniversario della sua morte ha avuto inizio il processo di Beatificazione e Canonizzazione di Mons. Matteo Nardella.
Chi era quest’”uomo che, quando lo incontravi, ti faceva venire la voglia di Dio"?
Mons. Matteo Nardella è nato a San Marco in Lamis il 15 luglio 1921 da Donato e Marianna Delle Vergini. Battezzato pochi giorni dopo la nascita nella chiesa di San Bernardino, in questa comunità parrocchiale è cresciuto e ha maturato la sua vocazione sacerdotale. Dopo gli studi della scuola primaria, ha frequentato il Seminario interdiocesano di Troia (FG) sotto la guida amorevole di Mons. Mario De Santis e poi quello di Benevento. Viene ordinato sacerdote il 02.09.1945 nella Chiesa Collegiata in San Marco in Lamis dal Vescovo Mons. Fortunato Maria Farina, la cui cura paterna ha segnato la vita religiosa di tanti giovani del periodo.
Mi piace presentare la figura luminosa di questo Sacerdote attraverso la testimonianza di due Sacerdoti di san Marco in Lamis, che lo hanno conosciuto personalmente. Il primo è don Pierino Giacobbe che ha rilasciato una bella intervista al notiziario “Vita ecclesiale”; il secondo è don Donato Coco, che ha scritto un opuscolo, nel quale mette molto bene in risalto la personalità affascinante di quest’uomo tutto di Dio.
Trascrivo da entrambi ampi stralci.
DALL’INTERVISTA A DON PIERINO
1) Con la pubblicazione e l'affissione dell'Editto del nostro Arcivescovo entra nel vivo la fase diocesana d'inchiesta sulle virtù di santità del nostro concittadino don Matteo Nardella. A 43 anni dalla sua scomparsa, la vita di don Matteo Nardella come interpella i cristiani di oggi della nostra città?
Ho sempre ritenuto che per la nostra comunità di S. Marco Dio ha avuto e continua ad avere uno sguardo e un'attenzione particolare di benevolenza e di paterna predilezione. Sono anche convinto che non sono gli anni che passano che possono sminuire la validità della testimonianza di un "amico di Dio" e io non ho difficoltà a definire d. Matteo in questo modo. Il ricordo di d. Matteo Nardella, dopo 43 anni dalla sua nascita al cielo, è sempre vivo, attuale in chi ha avuto il dono di averlo conosciuto personalmente, come me, e in chi, pur non avendone avuto esperienza diretta, ne ha sentito parlare come persona dalla grande umanità e come sacerdote dal grande cuore. S. Paolo VI affermava che oggi più che mai "abbiamo bisogno più che di maestri, di testimoni". D. Matteo per la nostra comunità è stato un autentico testimone e oggi, in particolare, la sua figura ci interpella per aiutarci a ritornare all'autenticità di una vita cristiana, spesso diventata così stanca e mediocre; a riscoprire i valori veri che devono caratterizzare ogni persona e ogni comunità, valori che purtroppo stiamo perdendo; a ricordare a ciascuno di noi che la strada per la realizzazione e la riuscita della propria vita è una sola: quella della santità; un ricordo indispensabile per noi che spesso ci lasciamo abbagliare da altre strade più comode, forse, ma tanto inutili e dannose. Un cammino verso la santità fatto non di cose eccezionali e grandiose, ma di quotidianità, di piccole e semplici cose, di rapporti autentici, di attenzione a chi è nel bisogno, di accettazione della volontà di Dio. In poche parole affermo che il santo (e d. Matteo per me lo è!) è sempre attuale perché vive l' "oggi di Dio", che è l'eternità.
2) L'introduzione della causa di beatificazione e canonizzazione di don Matteo Nardella è la prima che viene aperta per un uomo di fede della nostra comunità. Lei ha conosciuto ed è stato discepolo di don Matteo. Ha mai avuto la sensazione di essere stato a contatto con un uomo che emanava santità?
Il Signore ha fatto dono a me (come a tantissimi altri) di mettere sulla mia strada d. Matteo e di rimanere affascinato della sua persona e del suo sacerdozio… Tempo fa mi colpì la testimonianza di un’attrice, intervistata dopo la tragica morte, in un incidente stradale, di un sacerdote, l'abbé Amedeo Ayfre, creatore della teologia dell'immagine. Involontariamente di lui fece questa meravigliosa epigrafe: "Cosa volete che vi dica - confessò a un giornalista che la intervistava - ... era un uomo che, quando lo incontravi, ti faceva venire la voglia di Dio". Io, don Matteo, l’ho conosciuto bene e lo stare con lui… mi ha fatto venire la voglia di essere sacerdote! Mi ha affascinato con la sua gioia di essere prete. Se oggi sono contento e felice di questa mia scelta, tanto merito lo devo senz'altro al suo modo di essere sacerdote che mi ha contagiato. S. Giovanni Paolo II rivolgendosi ai sacerdoti affermava che "soprattutto oggi, in questo nostro tempo è bello essere preti!". E’ ciò che don Matteo mi ha comunicato col suo modo quotidiano, semplice e autentico di vivere il suo sacerdozio. Inoltre, facendo riferimento alla figura di un altro grande testimone, Giovanni Battista, posso senz’altro affermare che don Matteo per me è stato il "dito" che mi ha indicato e mostrato l’Agnello di Dio che, passando sul cammino della mia vita, mi chiamava a seguirlo (non potevo non tener presente questa sua indicazione, anche perché lo avevo scelto padrino di Cresima…). E con estrema sincerità confesso che non mi sono mai pentito di aver seguito quel "dito" indicatore!
3) Alle tante persone che non hanno conosciuto don Matteo Nardella e si domandano chi era. Quali sono i tratti della sua personalità che la gente dovrebbe conoscere?
Di fronte a questa richiesta la mia “preoccupazione” e il mio “timore” più grande è ciò che affermava un giorno il grande scrittore e filosofo Albert Camus: “A questo mondo c’è chi testimonia e chi guasta. Appena un uomo testimonia e muore, si guasta la sua testimonianza con le parole”. Non voglio assolutamente guastare con queste mie povere parole la testimonianza di don Matteo. Ribadisco che per me don Matteo è stato uno dei tanti testimoni, che il Signore ha donato alla sua Chiesa e in particolare alla nostra Chiesa di Foggia-Bovino e, ancora più in particolare, a questa nostra Chiesa di S. Marco! Il testimone è colui che è presente e fa esperienza diretta (non per sentito dire) di un avvenimento. Giovanni nella sua prima lettera scrive: “…Ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita… Noi l’annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi…” (1, 1-3). Basandomi su questa citazione posso delineare così la persona di Don Matteo. E' stato colui che: ha udito, ha ascoltato quella chiamata di Dio, dando una risposta adeguata e totale: il suo sì ad essere tutto di Dio nei fratelli; ha visto con i suoi occhi durante tutto il suo cammino formativo, prima, e il suo ministero sacerdotale, dopo, la presenza di quel Dio che lo voleva suo stretto collaboratore, ma anche i tanti bisogni e le tante necessità dei fratelli a cui donare la sua esistenza (e in questo non si è mai tirato indietro!); ha contemplato quotidianamente, nella preghiera (spesso lo vedevo inginocchiato davanti al tabernacolo), quell’amore di Dio di cui si nutriva e da cui attingeva per andare verso gli altri, specialmente verso i tanti in difficoltà; ha toccato con le sue mani il Verbo della vita consacrando e spezzando il pane della vita per offrirlo come nutrimento per gli altri; ha annunciato sì con le parole, ma soprattutto con la sua persona, con l’autenticità della sua vita, con tutto se stesso.In poche parole è stato un "vero uomo" e un "vero sacerdote".
DALL’OPUSCOLO DI DON DONATO COCO
“ Don Matteo ha scelto di essere sacerdote a tempo pieno che tende con tutte le proprie energie alla santità come all’adempimento di un preciso dovere, nella fedeltà a tutta prova alla propria vocazione di uomo di Dio, nello spendersi per il bene spirituale del gregge, certo che, così facendo, contribuiva all’edificazione del Regno di Dio.
Nel ’43, due anni prima dell’ordinazione sacerdotale, don Matteo scriveva: “La santa Messa…considerarla come il sole che illumina, riscalda e feconda tutta la nostra giornata» e «Far sì che tutta la giornata sia orientata verso una pietà veramente eucaristica, per raggiungere quell’alto grado di vita interiore che è l’unione eucaristica». E ancora: «Il primo apostolato è la santa messa celebrata santamente».
All’altare egli ritrovava la gioia e la passione di offrirsi nella giornata, quale pane spezzato per tutti. Don Matteo è stato il vero uomo di Dio, che in tutta la sua vita, con la sua singolare e profonda pietà, ha cercato di configurarsi a Cristo Sommo ed Eterno Sacerdote. Da suddiacono aveva chiesto alla Madonna che lo aiutasse a capire quella che sarà (come sacerdote) la sua «condizione di vittima espiatrice».
Nel 1966, dopo undici anni di sacerdozio scrive nel suo diario: «E’ dovere del sacerdote morire per la salvezza delle anime…un vero sacerdote sa farsi preda delle anime… L’orario del prete è da mezzanotte a mezzanotte. E’ sempre di stazione. Non dice mai basta».
Don Matteo non ha avuto tempo che per fare il sacerdote.
« Il bene che Don Matteo riusciva a fare con mano furtiva e pudica trovava la sua ragion d’essere nel silenzio dell'opera compiuta. Egli aveva un senso profondo della vacuità delle cose terrene. - scrive di lui il prof. Tommaso Nardella- Ne derivava un distacco dai beni, un rifiuto dell’avere a favore dell’essere. Don Matteo donava molto agli altri, poco riservava per sé».
«Egli, -dice di lui Mons. Lenotti- era un sacerdote di grande vita interiore. Nello stesso tempo si teneva sempre aggiornato alle esigenze dei tempi. Sapeva conciliare in modo perfetto l’apertura ai nuovi problemi con lo spirito della Tradizione».
In don Matteo gli “esercizi di pietà” sono stati accompagnati da una ricerca incessante della Volontà di Dio nell’oggi di ogni giorno, nella chiara consapevolezza del proprio limite e quindi del bisogno di porre la propria fiducia in Colui che dà conforto.
Il suo amato Signore lo ha chiamato al premio eterno, a soli 55 anni, la sera del 13 febbraio 1976.
Signore, ti preghiamo: dona alla tua Chiesa numerosi Sacerdoti, che vivano soltanto per Te, di Te e in Te.
UN DIAMANTE NASCOSTO:
DON PIER CARLO LANDUCCI
Di sacerdoti santi la Chiesa ne ha sempre avuti, ne ha e sempre ne avrà, nonostante ciò che i mezzi di comunicazione, ostili alla Chiesa, vogliono far credere, propagandando le malefatte o gli errori di qualcuno e dimenticando la santità di tanti altri.
Tra i sacerdoti, la cui santità è stata dimenticata dai mezzi di comunicazione, ma che brilla come un faro è annoverato monsignor Pier Carlo Landucci. E un faro, la cui la lanterna è in grado di inviare i suoi raggi di luce fino a decine di chilometri, per permettere ai naviganti di evitare tutti gli ostacoli pericolosi per la navigazione , continua ad illuminare anche se i naviganti sono liberi di non volerlo vedere.
Pier Carlo Landucci nacque il 1º dicembre 1900 a Santa Vittoria in Mantenano (Ascoli Piceno) in via del Corso, numero 27. Suo padre, Tito, era magistrato. Egli morì a soli 37 anni nel 1905, quando Pier Carlo aveva solo 5 anni. La mamma Teresa Naldini era una donna bellissima, intelligente e forte. Fu capace di condurre avanti la sua famiglia, pur nelle difficili condizioni economiche, ed essere la guida spirituale dei suoi figli. Anche lei morì all’età di 51 anni quando Pier Carlo ne aveva soltanto 24.
Egli soffrì molto per queste due perdite ma non si lasciò abbattere, anzi affrontò la vita con la forza che gli era venuta proprio dal dolore.
Nello studio Pier Carlo si distinse per la sua intelligenza pronta e il suo impegno e conseguì la maturità con brillanti risultati, dopo di che si iscrisse alla Facoltà di Ingegneria dell’Università di Pisa. Per problemi economici però la famiglia fu costretta a trasferirsi a Roma e Pier Carlo frequentò il III ed il IV anno, all’Università di Roma “La Sapienza”, laureandosi in Ingegneria civile il 31 luglio 1923 a soli 22 anni e mezzo.
A Roma Pier Carlo incontrò un grande e noto sacerdote, il padre gesuita Agostino Garagnani, che divenne suo confessore e direttore spirituale. Questi gli fece conoscere e apprezzare la spiritualità ignaziana e lo aiutò a dare questa impronta alla sua vita.
Dopo il servizio militare Pier Carlo insegnò matematica alla Scuola Agraria di Cagliari. Lì rimase due anni e furono anni di solitudine, di riflessione, di preghiera, durante i quali sentì, come spesso amava raccontare, la voce di Dio gli diceva «Tu sarai mio sacerdote».
Col permesso ed il consiglio del suo padre spirituale nel 1926 entrò nel Seminario Maggiore di Roma, dove iniziò l’iter della formazione al Sacerdozio e s’iscrisse alla Pontificia Università Lateranense.
In seminario ritrovò un suo compagno di studi universitari e ingegnere come lui: Roberto Ronca, col quale continuò l’antica amicizia. In circa cinque anni completò il corso filosofico/teologico e, con anticipazione, venne ordinato sacerdote il 25 maggio 1929.
Dopo l’ordinazione sacerdotale don Pier Carlo prestò servizio presso la Congregazione dei Seminari. Qui fu molto stimato dai cardinali Giuseppe Pizzardo ed Ernesto Ruffini. Quest’ultimo lo scelse addirittura come suo confessore.
Nel 1932 gli venne affidata la cattedra di Filosofia delle scienze presso l’Università Lateranense, ma dopo non molto dovette lasciare l’insegnamento, perché fu nominato Direttore spirituale del Seminario Maggiore Romano, ove don Roberto Ronca era Rettore già dal 1934. Nel 1935 don Pier Carlo fu, a sua volta, nominato Rettore del Pontificio Seminario Romano Minore. Qui profuse i tesori della sua sapienza e della sua profonda spiritualità, formando alla preghiera e all’amore per il Signore sette generazioni di nuovi sacerdoti. Tra i suoi figli spirituali al Seminario Romano Maggiore spicca come esempio di virtù la figura del Venerabile Bruno Marchesini, seminarista, morto in concetto di santità nel luglio 1938.
Tutto sembrava andare per il meglio, ma ad un certo punto cominciarono a nascere, non si sa come, delle incomprensioni tra lui e il suo amico di vecchia data e Rettore del Seminario Romano Maggiore: don Roberto Ronca. Si creò una situazione difficile che offrì a mons. Landucci materia abbondante per la propria santificazione. Egli allora, piuttosto che recare danno ai giovani che si preparavano al Sacerdozio, preferì lasciare l’incarico.
Purtroppo non gli venne assegnato nessun altro compito, non una retribuzione mensile, neppure l’offerta di messe da celebrare. Si ritirò allora presso la Clinica “Madonna della Fiducia”, dove la benevolenza e la generosità delle Suore della Carità di Namur rese la sua situazione meno tragica, seppur sempre disagiata.
Mons. Battista Proja, seminarista all’epoca dei fatti, grande ammiratore di mons. Landucci, suo figlio spirituale e postulatore della sua causa di beatificazione scrive: “Il Signore aveva posto sulle spalle del Servo di Dio una croce pesante costituita da umiliazioni, incomprensioni, isolamento, maldicenze, povertà… Umanamente era un sacerdote fallito, dinanzi al cui sguardo si profilava solo il buio”.
Sarebbe potuta essere “la notte oscura” dell’anima, invece fu l’inizio di una straordinaria missione: Don Pier Carlo infatti colse l’occasione per offrire tutta la sua sofferenza al Signore per la santificazione propria, dei propri confratelli Sacerdoti e per le vocazioni sacerdotali.
E presso la clinica Madonna della Fiducia in Roma, dove trascorse 44 anni, la sua vita di Sacerdote, fatta di preghiera intensa e prolungata, di mortificazione, di studio, di confessioni e di direzione spirituale, non poteva rimanere ignorata. Infatti in quegli anni dolorosi ma pieni di luce e di forza tenne circa 250 corsi di esercizi spirituali di sei/otto giorni al Clero, ai Seminari, agli Studentati religiosi, ai laici dell’Azione Cattolica, viaggiando per l’Italia, fino in Svizzera e a Malta, e qualche centinaio di corsi più brevi, ritiri, conferenze. Ogni anno, alla Verna, predicava uno speciale corso di esercizi agli Ordinandi, suscitando grande entusiasmo nei giovani. “Quella sua Messa così raccolta e devota, quelle parole profonde, chiare, vitali, espresse con l’energia e la convinzione della verità fatta norma di vita, non le potremo dimenticare e il loro ricordo sarà per noi stimolo di santità”, gli scrissero alcuni giovani ordinandi. Tutto questo gli venne soltanto dalla sua vita vissuta in totale unità con Cristo, nell’adorazione a Lui, dall’amore appassionato all’Eucarestia, che come Sacrificio e Comunione, è il tesoro più caro, l’unico vero tesoro della vita sacerdotale, perché è il tesoro più caro, l’unico vero tesoro della Chiesa.
Nel frattempo riuscì a scrivere e a pubblicare circa 160 libri di elevato contenuto teologico ed ascetico, che ebbero grande diffusione e varie riedizioni, anche all’estero.
La mattina del 26 maggio 1986, alla veneranda età di 85 anni e mezzo, dopo una vita di santità, don Pier Carlo Landucci, maestro e guida di vescovi, sacerdoti, seminaristi, e semplici fedeli improvvisamente andò incontro a Dio, lasciando scritto nel suo testamento: «Ringrazio il Signore per il dono ineffabile del Sacerdozio; chiedo perdono per le mie tante incorrispondenze; mi rifugio nella infinita misericordia del Divin Cuore e nella tenerezza materna di Maria, nostra Fiducia. Accetto ed offro il dono e la sofferenza della morte in ispirito di riparazione per me e di propiziazione per il Papa, la Chiesa, le anime, le persone care.»
Il Santo Padre Giovanni Paolo II, informato e vivamente commosso di questa offerta per lui, con lettera dell’11 novembre 1986, lo definisce “degno prelato” e “generoso ministro del Signore”.
Il suo corpo venne tumulato nel cimitero Verano, ma nel 1994 è stato traslato alla parrocchia di S. Giovanni Battista de Rossi.
Una vita molto difficile e dolorosa quella di don Pier Carlo Landucci, ma luminosa e preziosa come un diamante, perché vissuta soltanto per dar gloria a Dio.
Don Pier Carlo, ti chiediamo di pregare per tutti i sacerdoti ma in modo particolare per quelli che, non comprendendo che il Sacerdozio è un “dono ineffabile”, lo vivono indegnamente, procurando così dolore al Cuore di Gesù e scandalo ai fedeli.
MONSIGNOR BATTISTA PROJA
UN GIGANTE SILENZIOSO:
Mons. Battista Proja Mons. Battista Proja nasce a Colli di Monte San Giovanni Campano (FR) 14 giugno 1917 da Eriste uomo di una bontà sconfinata, paziente ed umile e da Maria Luisa Ermerica Vecchiarelli, una persona intelligente ed attiva.
Avverte la chiamata al sacerdozio quando ha soltanto quattro o cinque anni.
Fin dalla prima infanzia Battista è preposto alla custodia dei fratelli più piccoli, mentre la mamma e il papà vanno a Roma in cerca di lavoro per il sostentamento della famiglia, a causa della grave crisi economica di quel periodo. Egli attende a questo compito con amore con dedizione, come una missione, che sente radicata nell’anima e che sembra essere nata con lui: la dedizione agli altri.
A soli quattro anni, il 12 giugno 1921, riceve la santa Cresima e il 1° maggio 1927 la sua prima Comunione, alla quale si prepara con grande fervore, guidato dai religiosi dei “Fratelli delle scuole cristiane”, detti popolarmente a Roma “Carissimi”, presso i quali frequenta la scuola elementare in via San Giovanni in Laterano.
A dieci anni entra nel preseminario dei “Piccoli Amici di Gesù” in viale delle Mura Aurelie n. 2 presso le Suore Oblate del Sacro Cuore di Gesù. Qui ha la fortuna di conoscere la Fondatrice, la Beata Teresa Casini, mistica, vissuta nella contemplazione del Cuore di Cristo, Sommo ed eterno Sacerdote, dalla quale impara ad amare Gesù Sacramentato.
Quest’amicizia sincera e profonda con Gesù Sacramentato sarà la forza e la luce di tutta la sua vita sacerdotale.
A dodici entra nel seminario di Frascati e frequenta la scuola media presso il convitto dei Salesiani di don Bosco.
Continua la sua formazione nel Seminario Romano Maggiore, frequentando la Pontificia Università Lateranense, nella quale poi si laurea in Teologia a pieni voti e lode.
Viene ordinato sacerdote il 14 febbraio 1942, durante la Guerra, nella Cappella del Pontificio Seminario Romano Maggiore da mons. Francesco Pascucci, Cappella nella quale troneggia l’immagine di Maria “Mater mea, Fiducia mea”, della quale ogni seminarista è particolarmente devoto.
Svolge il suo primo incarico pastorale nel quartiere popolare della Garbatella bassa, nella parrocchia di “S. Galla” e in quella di “ S. Francesco Saverio”. Prosegue il suo ministero pastorale fino all’estate del 1948.
Viene poi chiamato come Direttore Spirituale del Pontificio Seminario Romano Minore e vi rimane per poco più di venti anni. In seguito viene nominato Direttore spirituale al Seminario diocesano di Caserta. Negli anni della permanenza a Caserta promuove con grande impegno la devozione alla Madonna della Fiducia, l’incoraggiamento allo studio serio e assiduo e la diffusione della memoria del seminarista Bruno Marchesini, suo compagno di seminario, di cui nutre una grandissima stima e della cui causa di beatificazione è postulatore. Ai seminaristi raccomanda caldamente di affidarsi alla sua intercessione e di prenderlo come modello per la propria vita.
Sarà Direttore spirituale per complessivi 23 anni e tra i suoi figli spirituali si contano circa 140 sacerdoti, tredici vescovi e un cardinale.
Dal 1971 fino a qualche anno prima della sua morte, svolge l’ufficio di canonico della Basilica di S. Giovanni in Laterano in Roma.
Nell’agosto 1986 gli giunge da parte del Cardinal Vicario, Ugo Poletti, senza nessuna richiesta da parte dell’interessato e senza il suo consenso, il conferimento del ministero di esorcista; lo eserciterà per più di venti anni, e la sintesi della sua esperienza è narrata nel suo libro “Uomini Diavoli esorcismi–la verità sul mondo dell’occulto”.
Una caratteristica sacerdotale, a cui mons. Proja è molto legato, è quella della confessione. Addirittura negli anni santi 1975, 1983 e 2000 nella Basilica di San Giovanni riesce a confessare anche nove ore di seguito.
Mons. Proja è un uomo di Dio nel vero significato del temine, cioè Gli appartiene interamente ed è per questo che è un uomo capace di vera attenzione ai suoi fratelli, che incontra, non soltanto nel ministero sacerdotale, ma anche nella vita reale. Prega molte ore al giorno, amministra i sacramenti ma fa anche vita ascetica: è poverissimo, si accontenta dello stretto necessario alla vita e, mettendo insieme i suoi risparmi e le offerte ricevute, contribuisce, per circa un ventennio, in maniera concreta alla costruzione di una chiesa a Djougou, e di diversi pozzi, nel nord del Benin, dove si reca per tre volte anche a predicare. La chiesa del Benin è stata consacrata nel febbraio 2003 dal Vescovo di quella città, Sua Eccellenza mons. Paul Kouassivi Vieira ed è stata dedicata alla “Beata Vergine della Fiducia”. In occasione di tale consacrazione insieme al clero locale è presente anche monsignor Proja.
Negli ultimi anni della sua vita mons. Proja, trascorre le giornate in preghiera. Ha però un dolore segreto, ovvero il non poter più celebrare la Santa Messa, che è stato il fulcro attorno a cui ha ruotato tutta la sua vita, perché non si regge in piedi. Confessa infatti: “Mi manca tanto”.
La sua morte avviene il 29 settembre 2017, ovvero nel giorno della festa del Principe degli Arcangeli e delle schiere celesti , San Michele, noto per la sua lotta contro il maligno e che lui che costantemente invocava.
Dopo i solenni funerali svoltisi nell’Arcibasilica di San Giovanni in Laterano, per sua volontà il corpo viene tumulato nel piccolo cimitero di Colli, di Monte San Giovanni Campano, suo paese di origine, in un loculo semplice, quasi anonimo, semplice come era lui soprattutto nell’ animo.
Monsignor Proja si è realizzato nell’esercizio del suo sacerdozio.
Tra i tanti elogi che sono stati fatti nei suoi riguardi, l’elogio più bello in assoluto e certamente il più sincero è quello del Cardinale Camillo Ruini, per tanti anni Vicario del Papa per la città di Roma: «In tutti questi tanti anni, nei quali ha servito la Diocesi di Roma, ha dato davvero un grande esempio. Ha contribuito a costruire l’immagine più bella, più positiva della Chiesa di Roma, senza mai strafare, senza mettersi in mostra, ma stando al posto che la Chiesa gli assegnava con grande umiltà. Ma in quel posto però compiendo fino in fondo il proprio dovere. Per questo credo che la Diocesi di Roma gli deve essere molto grata e riconoscente, come io personalmente gli sono grato e riconoscente e penso che per me è stata una esperienza molto positiva averlo conosciuto e avergli voluto e volergli bene, con la certezza che lui vuole più bene a me».
Don Battista, ora che sei presso il tuo Signore, chiedigli ancora numerosi e santi Sacerdoti.