Clorinda Canestri verso la metà di novembre si ammalò, essa era, fin da giovanetta, affetta di etisia, quindi il male che per qualche anno aveva fatto sosta, ricomparve nel suo ultimo grado, quindi divenne irrimediabile.

Ricordo che una notte verso le 10,45 andai a chiamare il p. Ab., perché stava molto aggravata, ed essendo una testa molto impicciata e stretta, non trovavo modo di calmarla, né riuscivo a persuaderla di attendere l’indomani. Il p. Ab. venne e l’acquietò, per farla stare più tranquilla fu pensato contentarla col metterle le carte senapate sul petto, io in casa non ne avevo, il p. Ab. mi ordinò di andare in ispezieria a prenderle, andai, ma nel ritorno un uomo cominciò a corrermi dietro per prendermi, io presi una gran corsa e mi raccomandavo con tutto il cuore alla Madonna, che tanto amavo. Quest’uomo raddoppiò la sua corsa nel vedermi fuggire e stava un tre passi da me e certo mi avrebbe presa, ma la Madonna che fortemente invocai mi aiutò; quell’uomo cadde in terra, si rialzò bestemmiando, ma cadde nuovamente e così per tre volte, io intanto arrivai al portone di casa, ebbi appena tempo di chiuderlo, perché quell’uomo rialzatosi aveva preso una corsa più forte e quando vide che io avevo chiusa la porta, si sfogò con bussi e calci sulla porta e diceva tante bestemmie.

Il padrone di casa cominciò ad allarmarsi ed un giorno mi chiamò e mi disse che Egli non intendeva tenere in sua casa Clorinda Canestri, perché stante la qualità della malattia la casa sarebbe stata screditata e più nessuno l’avrebbe abitata ecc. Io ne parlai al p. Ab. e questi mi ordinò di manifestare alla famiglia le intenzioni del padron di casa, la mia posizione a fronte di una morte ed infine pregarla di riprendere Clorinda. La famiglia, dopo aver un po’ contrastato, comprese le cose, e Clorinda tornò a casa sua: essendo molto povera le donai il letto, coperte e tutta la biancheria occorrente. Andata in casa Clorinda, mi presi il pensiero di curarla ed assisterla, quindi sacrificai a questo fine l’attrattiva che sentivo di stare ai piedi di Gesù Sacrnto, ridussi a poco tempo le mie visite al Sacramento.

Però questo anziché apportarmi danno all’anima sentivo nell’intimo del mio cuore come era dolce lasciare Iddio per Iddio, e sempre più mi persuadevo che se io volevo essere veramente tutta di Dio e consolare il suo divin cuore traf. dovevo a Dio sacrificare tutto senza riserva. Fu in questo tempo che io compresi che nei sacrifici da farsi, nelle opere interne ecc., dovevo essere più generosa ossia che tutto dovevo soffrire e tutto abbracciare senza preoccuparmi della violenza che mi dovevo fare, e dopo consigliatami con il p. Ab. presi il sistema di palesare le mie ripugnanze e le mie lotte, ma capito come dovevo comportarmi, non tornavo a ripetere le stesse cose ripugnanti, né il padre Ab. permise più che io, dopo avere palesato i miei contrasti, tornassi sopra a pensarci, egli mi diceva che dovevo essere forte e operare da uomo non già da donna; “...così virile, mi diceva, e avanti”, questo andava molto d’accordo con la mia testa che poco pensa ed è spiccia.

Intanto Clorinda si aggravò e venne agli estremi, io l’assistetti in tutto, le feci pure parecchie nottate, e quando la povera giovane morì, io mi occupai del trasporto, funerale ecc. Teresa Canestri, che durante la malattia di Clorinda era stata sempre a dormire la notte in mia casa, dichiarò la volontà sua di restare con me.

Intanto io presi la casa da Filippo Roncaccia; la mia zia, come ella già sa, mi fece la cauzione per la pigione di casa. La casa era di sei camere e cucina, io ritenni per mio uso 4 camere, le altre due che restavano divise da un pianerottolo dalle altre 4 camere le riservai per ricevere le persone. Mia madre mi arredò la sala da ricevere. In una delle 4 camere feci la cappella. Mgr Fratocchi mi donò il quadro del Cuore di Gesù, dipinto in olio, che ora ho messo nella camera da lavoro, dove Lei ci fa le conferenze; mia madre mi donò le portiere e la tenda per la finestra, la zia Filomena e le cugine mi fornirono di tutto quello che occorreva per l’altare, candelieri, candele, vasi per fiori ecc., più le Via Crucis, il p. Ab. per la festa di S. Teresa mi donò la lampada di argento. Nelle altre 3 camere, una la destinai per il dormitorio, l’altra per il lavoriero e la terza per il refettorio. In tutto il tempo che fui da Filippo Roncaccia penitenze particolari non ne feci, mi attenevo a tutte quelle che il p. Ab. assegnava a tutte e tre, quando fummo riunite (le penitenze le ho fatte poi come le dirò)...

Quanto più io sentivo pena per il Cuore trafitto di Gesù, tanto più nel mio cuore sentivo bisogno di consolarlo; pensai darmi al disprezzo di me stessa, perciò con il permesso del p. Ab. mi levai il cappello e mi vestii come le donne del paese, cioè una veste scura sdrucita e qualche volta anche rotta, una giacca qualunque ed un grembiule, in testa un fazzoletto; confesso che questa risoluzione mi costò molto, mi vergognavo, ma tirai avanti. Approfittando della nostra povertà, per lo più, andavo solo alla macchia e facevo dei fasci di legna che mettevo sulla testa e portavo in casa, andavo anche a prendere acqua alla fontana pubblica, a lavare l’insalata, e tante altre cose di questo genere che ora non ricordo, confesso che la mia superbia si risentiva tanto.

Domandai al p. Ab. il permesso di andare anche in Frascati senza cappello, ma non mi fu concesso per riguardo alla mia famiglia. Mia madre, stando in Orvieto, mi spediva abiti e cappelli, ed io riuscivo tener uno, gli altri guastavo e donavo via, però quando veniva mammà mi vestivo bene secondo la mia condizione, però questo mi procurava più umiliazione perché la gente mi riputava per matta. Varie persone si presero l’incarico di avvisare mammà del mio modo di vestirmi ecc. Mia madre s’inquietò tanto, ma io la contentai finché stette in Grottaferrata e poi ripresi il mio tenore di vita. In questo tempo il dottore pose affetto a me, e quindi mi dette molto da fare, ma su questo punto non ho nulla da rimproverarmi.

L’amore verso la Madonna crebbe in questo tempo e le promisi che non avrei nulla negato a chi domandava qualche cosa per suo amore.

In quel tempo i monaci facevano in comune gli esercizi annuali e quindi per lo più erano i gesuiti che li davano. Una volta il p. Ab. mi mandò a chiamare e mi ordinò di andare in confessionale e dire al padre gesuita tutto quello che riguardava il Cuor di Gesù. Quest’ordine mi seccò tanto, perché non mi è mai piaciuto dire a tanti le mie cose, ma non replicai, obbedii; mi presentai al confessionale e senz’altro dissi tutto insieme le cose mie senza attendere risposte, questi in ultimo mi disse di essere umile e mi licenziò. Dopo questo abboccamento, il p. Ab. cambiò sistema con me. Non mi sgridava, ma mi portava per altra via e non come mi aveva condotta per il passato, io ero andata sempre alla semplice e alla buona, né avevo mai ripensato a quanto era che accadeva in me. Confesso che ritenevo ed ancora ritengo che quando l’anima si dà a Dio il Signore le fa delle grazie e perciò io non ripensavo mai a niente e il dover fare tante riflessioni su me stessa mi causò una oscurità grande nel mio intelletto, e per quanto volevo obbedire sempre più restavo all’oscuro e non vedevo più chiaro, la pace in fondo al mio cuore non andava via, ma io restavo in pena perché temevo di non obbedire e non trovavo la via di fare questa obbedienza.

Durò il padre Ab. così per un anno, infine un giorno le dissi confidentemente che io non raccapezzavo più niente e che se lui era contento mi avesse lasciato camminare come prima.

Passato un anno i monaci rifecero gli esercizi e li dette un altro gesuita; il p. Ab. mi ordinò nuovamente di andare, io ubbidii con la stessa ripugnanza e le raccontai tutto, questi mi ordinò di ritornare, mi parlava spesso del Signore, infine mi disse di camminare alla semplice ed alla buona come sempre avevo fatto.

Per accomodare i miei interessi mi portai in Orvieto da mia madre. Qui ci fu un gesuita che mi dette molto da fare. Egli (dietro insinuazione di mammà) mi mise in campo tante e tante ragioni per persuadermi che la vita che io menavo era una vita d’inganno, mi disse che la volontà chiara di Dio era che io avessi rimandato quelle figlie che avevo meco alle loro case, e che fossi rientrata in famiglia ove avrei potuto convertire Nonno, il quale volendomi tanto bene mi avrebbe dato retta, mi parlò infine in tanti modi, tutti atti a sgomentarmi e conchiudeva sempre che il p. Ab. mi ingannava. Il mio cuore era penato, ma non scosso, sfogavo la mia pena ai piedi del Sacramento, indi scrissi a p. Ab., le palesai ogni cosa, Egli mi ordinò di spicciarmi subito e partire, ed io feci quanto il p. Ab. mi aveva ordinato sicché in Orvieto rimasi solo 15 giorni. Tornata, il p. Ab. e D. Teodoro vollero sapere a voce quanto il gesuita ne aveva detto, ed io le raccontai le cose come erano andate.

Come lei già sa, io dovevo ogni tre mesi procurarmi il modo come pagare la pigione di casa ed a quest’effetto andavo a Roma e cercavo il danaro per elemosina.

Confesso che questo per me era una vera mortificazione, schiettamente dico che me ne vergognavo. Spesso ero cacciata dalle case, altre volte mi si chiudeva la porta sul viso, altre poi ricevevo elemosine. Quando andavo in Roma per le strade dicevo sempre il Rosario alla Madonna. Quando vi era a Roma zia Filomena allora risiedevo presso le cugine Salvi ove la zia dimorava, quando poi la zia si trovava fuori di Roma, allora andavo dalla Iannetti; questa durante la stagione estiva, nel tempo che loro stavano ai bagni e poi nella villeggiatura, mi lasciava la chiave di casa, sicché io potevo servirmi dell’appartamento, a mio compiacimento. Ricordo che questi mesi per me erano cagione di molti patimenti. Quel poco danaro che portavo meco per il viaggio, dopo speso per la ferrovia, ciò che mi restava bene spesso lo davo quasi tutto ai poveri, riservandomi quattro o sei soldi, coi quali compravo un poco di pane e qualche altra cosa per la cena e colazione, a pranzo poi non prendevo niente, bevevo un poco di acqua. Mi stancavo e alle volte non ce la faceva perché avevo la febbre e mi sentivo male. Benché la mia umanità si risentiva molto, specialmente la mia superbia, pure confesso che il mio cuore era molto contento e provavo una pace grande.

Quando tornavo da quelle gite (in Grottaferrata), mi ritrovavo subito bene con il Signore, e nel mio animo sentivo crescere il desiderio di patire qualche cosa. In questo tempo io intesi nel mio cuore un desiderio di presentarmi col cuore più purificato al Signore, questo sentimento mi venne dietro il pensiero della perfezione di Dio, a me sembrò di comprendere quanto l’anima si renda grata a Dio allorché nelle sue azioni cerca di operare con quella perfezione che capisce, mi sembrò che il Signore avrebbe un giorno meglio potuto immolarmi se io procuravo corrispondere a questi sentimenti. Io allora dissi a p. Ab. questo pensiero e lo pregai di permettermi di far voto di operare con quella perfezione che capivo, il p. Ab. me lo concesse.

Da quel giorno in poi Egli mi ordinò di andarmi a confessare un giorno sì e un giorno no, affinché l’anima mia venisse più frequentemente lavata nel sangue di Gesù Cristo. Questa particolarità nelle altre penitenti del p. Ab. mi recava dispiacere, però obbedii sempre, ed alle volte ci andavo anche ogni giorno. Fu anche in questo tempo che conobbi p. Bernardino (16) , che mi parlò dell’opera, come ella già sa.

I miei parenti non si accomodavano volentieri alla vita che io menavo, secondo loro era causa di umiliazione alla famiglia, avanti alla società, quivi lo Zio Clauchino, fratello di mio padre, spesso in Roma mi faceva delle forti sgridate e apertamente mi diceva che disonoravo la famiglia. Ricordo che una volta una di queste scene violente me la fece alla stazione di Roma, provai una grande vergogna ed il mio orgoglio si rintese tanto, ma non scattò fuori. Le cugine pure si vergognavano di presentarmi alle persone e di andare in mia compagnia per le strade di Roma. Io provavo pena, però non cambiai sistema. Allorché vendetti la piccola parte dei beni paterni che mi era rimasta, ebbi molti contrasti dalla parte dei parenti, anche un padre Carmelitano (ora morto) mi trattò da esaltata e da matta, aggiungendo che per le mie idee stravaganti un giorno mi sarei trovata sul lastrico per la strada. Lei già sa come vendetti, malgrado tutto, il mio piano di casa e come occupai il danaro.

Ora comincia il periodo dell’incominciamento della fabbrica della casa, quindi di me poco da dire, perché quasi tutto le ho scritto in altre relazioni. Dirò solo che cominciata la fabbrica il p. Ab. anche cambiò con me. Egli spesso mi diceva che l’avevo portato per il naso, che l’avevo messo in un cumulo di pensieri, impicci ecc. Questi suoi detti mi facevano tanta pena, ed il pensiero di essere un’illusa e di avere ingannato un ministro di Dio mi addolorava il cuore. Il p. Maestro (D. Teodoro) in quei tempi mi sostenne molto. Una volta andai a confessarmi dal p. Ab., questi appena mi misi in confessionale, mi disse che l’avevo ingannato ecc. e terminò con dirmi che S. Teresa non faceva così; io risposi che S. Teresa aveva un padre che l’aiutava. Egli allora mi disse: “E che ti so io? Non ti sono forse padre?”, io non replicai perché mi ero già pentita, ma lui soggiunse: “Da ora in avanti non mi chiamerai più padre”; quest’ordine mi arrivò proprio al cuore e le domandai: “E allora come debbo chiamarla?”. “Chiamami come ti pare” e chiuse lo sportellino. Il giorno dopo scrissi una lettera al p. Ab. e senza nominarlo mai padre, né metterci il titolo, le manifestai la pena che avevo e lo pregai di perdonarmi. Nelle ore pomeridiane venne in casa coi giovani novizi e mi permise di richiamarlo padre. Non ricordo se fu in questo tempo che D. Teodoro Merluzzi si ammalò gravemente, ed il p. Ab. mi ordinò di pregare il Signore di guarire il p. Maestro e se otteneva la guarigione l’avrebbe ritenuta come un segno della volontà di Dio sull’opera. Io pregai molto e alla preghiera aggiunsi la disciplina ogni giorno e l’umiliazione; cioè, che tutti i giorni della novena, sull’ora del mezzogiorno, andavo alla porteria dei monaci e messami in mezzo ai poveri mangiavo con loro la minestra; mi costò tanto questa umiliazione perché me ne vergognavo e mi schifavo tanto di quella minestra.

Un giorno mentre mangiavo venne alla porteria il p. Maestro, e così terminai di fare quell’atto di mortificazione che per la mia superbia tanto mi umiliava e mi costò.

Di cose più particolari io non ricordo.

L’animo mio ricordo che tolti quei tempi di angustie perché temevo di ingannare, si manteneva nella sua quiete; il pensiero del C. di Gesù e del Sacramento mi sosteneva, e così seguitai sino d’entrata, ossia quando con Teresa ed Angelina prendemmo possesso della casa che fu il 17 ottobre 1892. Nella nuova dimora io entrai con il pensiero di essere povera povera, quindi imprudentemente regalai i letti, mobili, ecc.; infine tutto quello che mammà mi aveva donato.

Credo che fu in questo tempo che la Madonna mi liberò da un pericolo. Tornavo un giorno da Roma e smontata alla stazione di Frascati mi accingevo a tornare a piedi a Grottaferrata, perché avevo solo L. 0,50. Quel giorno mi sentivo tanto male – avevo anche la febbre, quindi fare a piedi quella strada mi rendeva molto faticoso. Vicino al cancello della Villa Grazioli e della Villa Aldobrandini stava un legno; non era di Frascati, ma sì bene dei castelli Romani. Il vetturino mi guardò, indi mi offrì di condurmi fino al crocistrada per cent. 50. Io accettai perché in questo modo facevo più di mezza strada. Mentre il legno camminava il vetturino si voltò a me e mi domandò se non avevo timore di girare sola essendo così giovane, le risposi di no perché la Madonna mi avrebbe aiutato se incorrevo in qualche pericolo, egli mi guardò in silenzio e poi aggiunse: “E sicura di questo che dice?”. Io le mostrai la corona che stavo dicendo e dissi: “Certamente che sono sicura, dico il Rosario”. Quell’uomo, stato un poco soprappensiero, soggiunse; “Ebbene, lo vedremo”; e detto questo frustò fortemente il cavallo che prese una grande corsa. Ebbi molta paura, e questa crebbe pensando che dovevamo passare davanti ad una strada che conduce alla macchia della Rocca, però accrebbi la mia preghiera alla Madonna, ed in apparenza stavo tranquilla. Si stava per arrivare alla strada che io temevo, quando dalla via di sopra comparve il Cardinal Nocella con la famiglia; allora mi alzai dritta e dissi forte, per farmi sentire dal vetturino: “Oh, ecco Monsignore!” e dati i 50 centesimi aggiunsi: “Vedete se la Madonna aiuta” e saltai giù dal legno senza aspettare che si fermasse. Il vetturino rimase sorpreso, e frustato il cavallo proferì una brutta bestemmia.

Al Cardinal Nocella nulla dissi, ma compresi che aveva capito e quindi lasciata la famiglia mi accompagnò fino a casa. Fatti di questo genere me ne sono accaduti vari, ma non ricordandoli che in confuso, credo inutile scriverli.

In questo tempo Angelina Mascherucci si era molto aggravata e la figlia soffriva molto. Il p. Ab. disgustato per la fabbrica che si faceva, non veniva quasi mai dalla povera inferma; quindi non so dirle quanta pena io provavo nel mio cuore per l’ammalata e per il p. Abate. In questo tempo D. Teodoro mi sostenne molto e confortò il mio spirito che molte volte era abbattuto ed avvilito; se però mi sosteneva nelle mie pene ed abbattimenti, dall’altro lato mi spingeva all’esercizio delle umiliazioni e del sacrificio, e ciò faceva molto bene all’anima mia, e per questa via mi sentivo più forte. Egli da me voleva molta generosità verso il Signore e non ammetteva ritardo alle ispirazioni. Quando morì D. Teodoro io provai tanta pena ed avendolo sempre avuto in concetto di un santo e di un’anima cara a Dio, mi sono spesso a lui raccomandata. Egli più volte, dopo morto, è venuto a trovarmi e mi ha promesso di tornare quando morirò.

In tutto il tempo che si fece la fabbrica e sino a un mese prima dell’apertura dell’opera, il p. Ab. mi fece molto soffrire non posso nasconderlo, però sono sicura che in quel tempo fu vera permissione di Dio. Debbo dire anche che nel mio cuore sento, per questo lato, molta riconoscenza verso di lui, perché se non faceva così cosa avrei fatto con il mio carattere vivo e subitaneo? Allorché si pensò di dare principio all’opera e si stabilì il giorno dell’entrata che fu il 2 febbraio 1894, il p. Ab. cambiò e si occupò molto per l’opera. Ricordo che il primo febbraio, vigilia dell’apertura, stando a preparare in chiesa per l’indomani, ebbi un presentimento chiaro di tutto quello che si è sofferto in questi anni trascorsi; il cuore mi si strinse e quasi m’intesi smarrire ed ebbi timore, ma mi venne in pensiero il cuore di Gesù trafitto ed a questo pensiero accettai tutto, ma pregai Iddio di sostenermi. Terminato di accomodare la chiesa, palesai a Teresa Canestri il presentimento avuto e la pena provata, ella non mi rispose e stette un poco zitta, e poi disse: “Può essere vero”.

La sera verso le 8 ricevemmo il dispaccio dal Cardinale Vannutelli (17) in cui ci annunciava il permesso avuto per mettere il SS.mo Sacramento; ciò molto mi consolò. La mattina 2 febbraio, festa della purificazione di Maria SS.ma, ci fu la benedizione della chiesa, la Messa e Comunione a cui partecipammo in numero di 6. E così demmo principio all’opera. Fine.

Grottaferrata 18-7-1909.

Desiderando Lei sapere per disteso le penitenze più particolari che io ho fatto, le dirò che fino a tanto che sono stata di casa in affitto ho fatto quelle sole mortificazioni che nel corso di questa storiella ho detto; ora aggiungo: nel 1892 prendemmo possesso della casa presente, quindi io mi trovai più libera. Come ho detto, sentivo il bisogno di consolare il Cuore di Gesù e di riparare, quindi spesso chiedevo di mortificarmi esternamente. Sentivo una ripugnanza grande a farmi battere con il nervo, pensai che questa ripugnanza dovevo superarla, e chiesto il permesso, mi facevo battere da Assunta Centioni. Nella macchia vi erano delle piante di erba spinosa, io pensai di adoprarla e con il dovuto permesso lo feci, ma vedendo poi che di dolore poco ne sentivo ed invece sortiva sangue e questo temetti che mi apportasse compiacenza, lasciai andare. Varie volte ho fatto la disciplina con la catenella, a questo sentivo la ripugnanza e quindi la chiedevo. Mi ero anche formata una croce di tutte punte che mettevo sulle spalle nei giorni di venerdì; questa mortificazione mi ripugnava.

In soffitta avevo messo una grande croce sulla quale mi appendevo per lo spazio di circa dieci minuti; questa mortificazione mi fece tanto penetrare le pene di Gesù in croce che non posso dimenticare le impressioni che ne ebbi, però questa mortificazione non potetti proseguirla per causa dei miei incomodi.

La mortificazione che più mi piaceva ma che tanto mi ripugnava, era il bruciarmi; io sentivo che questa mortificazione scendeva al mio cuore. Mi bruciavo con la candela, oppure con il cerino, ma causando queste bruciature febbri e piaghe, cambiai sistema e chiesi licenza di bruciarmi con un ferro grosso di calze, lo arrossivo e poi me lo applicavo e così facevo per varie volte. Questo modo di bruciarmi non mi causava piaghe profonde né febbri.

Non ho mai fatta la più piccola mortificazione, senza permesso.

Ora le dirò le mie disposizioni in queste mortificazioni, così sul punto dell’anima mia le ho detto tutto quello che ricordavo, senza tenerle volontariamente nulla di nascosto. Io pensavo che per riparare e consolare il C. di Gesù, dovevo mortificarmi, però quelle mortificazioni che più mi ripugnavano, quelle appunto dovevo chiedere. Ero anche persuasa che il Signore non avrebbe mai accettata una mortificazione esterna ove in questa avessi cercato la soddisfazione. Parimenti sentivo nel mio cuore questo sentimento, che la mortificazione esterna deve essere sempre accoppiata con l’interna, quindi se io non mortificavo le mie passioni e su tutto non davo addosso al mio io ed alla mia volontà, non ardivo fare mortificazioni esterne, perché nel mio cuore sentivo che il Signore non le accettava, e se qualche volta ho voluto farle senza accoppiare l’assidua mortificazione interna, e questo accadeva quando non ero tanto vigilante e pronta a vincermi, quelle mortificazioni esterne lasciavano nel mio cuore un vuoto, una freddezza e come per meglio spiegarmi, un rilasciamento; quand’era così, mi vergognavo tanto da offrire al Signore quello che avevo fatto. Altro sentimento che avevo era anche quello che al Signore non piacevano quelle mortificazioni che m’impedivano l’osservanza, e quando qualche volta ciò mi è accaduto, sentivo tanti rimorsi, sicché le lasciavo e cambiavo. In genere le mortificazioni mi hanno sempre lasciato (tranne alcune che lei sa) molto raccoglimento e un impegno più assiduo alla mortificazione interna.

Quando capii che al Signore non piaceva che io insistevo per le mortificazioni esterne (come le ho scritto), venendomi negate restavo tranquilla e non replicavo.

Riguardo alle mortificazioni esterne non ricordo più altro di speciale. Avendo lei detto in conferenza che è bene dire al direttore lo stato di salute, e non volendo tenere nulla di nascosto, perché desidero che mi porti a Dio davvero, le dico: “La mia salute da piccolina è stata sempre cagionevole, come lei ben sa. Prima che l’opera si cominciasse definitivamente, io feci una caduta, dalla quale riportai un rene spostato, questo dopo un poco di mesi mi causò una nefrite o meglio dire forti coliche nefritiche, indi la cistite; quando mi riebbi dal periodo acuto, passò la violenza del male e le convulsioni che questo mi causava e mi rimasero degli incomodi renali, che di tanto in tanto risento dei dolori dalla parte della cistite e delle piccole coliche renali, e questi prima e dopo mi danno un poco di febbre.

Dopo qualche anno che si era aperta l’opera, per vari dispiaceri avuti e per la troppa sensibilità del mio cuore, mi venne il cardiopalmo e fui malata vario tempo ed anche costretta due mesi in letto. Calmato questo mi lasciò una grande debolezza di cuore, debolezza che ancora persiste e che molte notti non mi fa riposare e dei giorni non posso seguire neppure la comunità, perché con la debolezza di cuore mi prende un abbattimento generale da non essere buona a niente. Il caffè mi rianima un poco ed anche le iniezioni di olio canforato, ma le iniezioni saranno più di due anni che non le fo. Nelle grandi debolezze di cuore mi è stata data anche un poco di caffeina ma in piccole dosi. In genere io sono come mio fratello, che non crediamo alle medicine e quindi ben poche ne ho prese.

Ora non ho altro a dirle. Mi aiuti per essere buona, per amare tanto il mio Dio, e divenire tutta sua.

Note (1) Padre Joseph Gallois, padre marista, nel 1908 fu designato dal Card. Francesco Satolli, direttore dell’Opera, come nuovo confessore di Teresa e della comunità. Fu trasferito in Francia nel 1912.

(2) Tommaso Casini, ingegnere, figlio di Luigi e di Teresa Intreccialagli, nacque in Frascati il 16 luglio 1836, morì in Frascati il 19 gennaio 1874.

(3) Melania Rayner, nata a Lilla, in Belgio, nel 1845, sposò l’ingegnere Tommaso Casini e rimase vedova nel 1874. Si sposò in seconde nozze e visse l’ultima parte della vita ad Orvieto. Morì il 20 luglio del 1898.

(4) Teresa Casini fu alunna delle Dame del Sacro Cuore nel collegio di Santa Rufina, in Trastevere, nel 1875-76.

(5) Melania Iossart, nacque a Chaumont Gistoux (Belgio) il 4 aprile 1820, visse lungo tempo in Russia. Morì a Grottaferrata il 26 febbraio 1885

(6) Fedeli all’originale, i numeri sono riportati in cifre e non in lettere

(7) Paul Rayner nacque a Bouttencourt, dipartimento della Somme, in Francia, ma risiedette lungamente in Russia. Tecnico di grande valore, oltre alla direzione della cartiera di Subiaco, accettò la direzione della cartiera di Grottaferrata il 6 ottobre 1856. Morì a Roma nel 1898, il 10 luglio.

(8) Melania Joseph Iossart nacque in Belgio il 4 aprile 1820, visse lungo tempo in Russia. Morì a Grottaferrata il 26 febbraio 1885.

(9) La sigla originale p. Ab., che si troverà molte volte in seguito, corrisponde a padre Abate.

(10) Padre Arsenio Pellegrini, nato a Roma il 22 giugno 1849, fu battezzato con il nome di Alessandro. Venne ordinato sacerdote nel 1872. Eletto archimandrita nel 1882, svolse un ruolo di primo piano nella riforma del monastero basiliano di Grottaferrata, da lui riportato al rito greco.

(11) Suor Maria Stanislaa Rebold nacque in Svizzera nel 1859 e morì a Grottaferrata in concetto di santità nel 1886.

(12) Mons. Augusto Contieri, nacque a Bari nel 1899, monaco Basiliano, prima di essere Vescovo di Gaeta, era stato abate del monastero presso la Badia di Grottaferrata.

(13)Monsignore Augusto Guidi era nato a Roma nel 1840 da Michele e da Livia Moracchini. Ordinato sacerdote il 30 marzo 1861 dal cardinal Patrizi, canonico di San Lorenzo in Damaso.

(14) Si riferisce a Monsignor Gabriele Boccali.

(15) Monsignor Salvatore Fratocchi, nato a Roma il 23 ottobre 1855. Divenne vescovo nel 1903 della Chiesa titolare di Melfi, fu poi trasferito nella diocesi di Orvieto nel 1905. Morì nel 1941.

(16) P. Bernardino dell’Incarnazione (Filippo Vicaro), nacque a Terracina il 1° maggio 1819 e morì a Roma nel convento presso la chiesa di S. Crisogono il 12 settembre 1893. Il Papa Leone XIII, che lo conosceva bene, appena informato della sua morte esclamò: “È volato al cielo un altro santo”.

(17) Serafino Vannutelli nacque a Genazzano il 26 novembre 1834. Fu ordinato sacerdote a Roma il 22 dicembre 1860. Nel 1869 venne consacrato Arcivescovo e gli fu assegnata la sede titolare di Nicea e fu inviato come delegato apostolico in numerosi paesi dell’America Latina. Papa Leone XIII lo elevò al rango di Cardinale nel concistoro del 14 marzo 1887. Nel 1893 divenne Cardinale Vescovo di Frascati. Morì il 19 agosto 1915.

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