buttati nelle foibe

Sacerdoti martiri 

I sacerdoti, frati e suore vittime dei comunisti titini.

Padre Antonio Curcio, parroco di Bencovaz (Dalmazia), don Angelo Tarticchio, parroco di Villa di Rovigno, don Giovanni Manzoni, parroco di Rava (Sebenico), don Ladislao Piscani, vicario di Circhina (Go), don Miroslavo Bullesich, parroco di Mompaderno e vice direttore del Seminario di Pisino, sei suore scomparse da un convento di Fiume e 76 religiosi di cui non si è saputo più nulla, padre Francesco Bonifacio e don Miro Bulesic, uccisi entrambi in “odium fidei” sono alcuni dei numerosi sacerdoti e suore che, dal 1943 al 1948, persero la vita gettati nelle foibe insieme ad un imprecisato numero di persone, colpevoli di essere italiane.

C’è chi dice che gli infoibati siano stati 12.000, chi 15.000 e chi addirittura 30.000. Non sono mai stati censiti gli omicidi efferati perpetrati dalle milizie del leader comunista Josip Broz Tito, ma di alcuni che hanno riguardato sacerdoti e religiosi è rimasta traccia. Tra questi quelli di don Raffaele Busi Dogali e don Giovanni Pettenghi, pugnalati a morte rispettivamente il 15 Giugno ed il 2 Agosto, in Dalmazia, don Antonio Pisic, assassinato il 31 Gennaio 1945, don Lodovico Sluga, ucciso assieme ad altre 12 persone, il seminarista Erminio Pavinci da Chersano (Fianona) ucciso insieme al padre Matteo, il parroco di Golazzo (diocesi di Fiume), prelevato dai titini il 14 Agosto 1947 mentre accompagnava un funerale.

Una legge dello Stato del 2004 ha istituito Il Giorno del ricordo per rinnovare la memoria e rendere omaggio alle vittime dei massacri avvenuti tra il 1943 e il 1948 nelle terre del cosiddetto “confine orientale”. Si tratta di una delle pagine più oscure della storia del nostro Paese.

Sono trascorsi oltre settant’anni e le foibe e gli infoibati sono ancora, per una parte della società italiana, una strage negata, una tragedia spesso usata per creare accese polemiche o strumentalizzazioni. Foibe è un termine che nell’immaginario collettivo è paragonato ad un fenomeno inquietante di cui ancora oggi si tende a far restare imprecisati i contorni, le ragioni e soprattutto gli autori principali.

In un lembo di terra, oggi prevalentemente chiuso nei confini della Croazia, dal 1943 al 1946, sono stati eliminati migliaia di cittadini italiani uccisi per motivi più di natura etnica che politica dall’esercito jugoslavo del maresciallo Tito. I loro corpi, gettati nelle cavità carsiche, appunto le foibe, subirono pure lo sfregio di essere private di una degna sepoltura. Ci furono pure casi di persone vive legate ad un cadavere e gettate in gole profonde 30/40/50 metri. La brutalità umana raggiunge talvolta abissi raccapriccianti.

Gli invasori slavi cercarono di colpire anzitutto coloro che appartenevano alla classe dirigente italiana o che costituivano punti di riferimento, di aggregazione e di ordine civico: intellettuali, imprenditori, insegnanti, medici, militari ed ecclesiastici. L’odio nei confronti di questi ultimi derivava anche dalle convinzioni ideologiche dei partigiani jugoslavi, essendo Tito all’epoca stretto alleato di Stalin.

Dopo il totale annullamento di ogni apparato civile e militare italiano in Venezia Giulia e Dalmazia, erano rimasti sul posto soltanto vescovi e sacerdoti in grado di rappresentare la popolazione italiana, la quale era molto religiosa.

Fra le cause che indussero all’Esodo circa 300mila Italiani della Venezia Giulia, un ruolo importante lo ha svolto la persecuzione religiosa, che fu portata avanti con il preciso intento di spingere gli italiani ad andarsene.

Tantissimi sacerdoti affrontarono con coraggio e determinazione la difficile e pericolosa situazione determinatasi. Uomini di pace e di concordia si prodigavano per soccorrere tutti (italiani e slavi), per aiutare amici e nemici, per dare sepoltura cristiana a tutti coloro che erano vittime dell’odio e delle vendette più feroci. Molti di quei coraggiosi sacerdoti cercarono anche di rintracciare le persone uccise per dare loro una degna sepoltura.

Fra le figure di religiosi balzati alla cronaca e rimasti nei cuori degli esuli giuliano-dalmati possiamo citare monsignor Antonio Santin, che a Capodistria venne assaltato da una folla di titini inferociti sotto lo sguardo indifferente delle guardie del Popolo.

Padre Francesco Bonifacio e don Miro Bulesic, periti in “odium fidei”. Il primo fu sorpreso lungo la strada di casa da quattro guardie popolari; picchiato a morte i suoi resti non furono mai ritrovati (si pensa siano stati infoibati).

Il secondo, parroco di Mompaderno e vicedirettore del seminario di Pisino, fu trucidato il 24 Agosto del 1947 dopo la cresima di 237 ragazzi nella chiesa di Lanischie, sempre in Istria. Alla fine della liturgia don Miroslav e monsignor Jacob Ukmar furono assaliti dai militanti comunisti che volevano impedire la celebrazione delle cresime. Le milizie croate fecero irruzione nella canonica dove sgozzarono don Miroslav e picchiarono a sangue monsignor Ukmar.

Don Angelo Tarticchio originario di Gallesano d’Istria all’età di 36 anni fu arrestato dai partigiani comunisti, malmenato e ingiuriato insieme ad altri compaesani, dopo orribili sevizie fu gettato nella foiba di Gallignana. Riesumato il corpo fu trovato completamente nudo con una corona di spine conficcata nella testa.

Questi alcuni dei fatti che colpirono quelle terre e che videro sacerdoti e suore vessati dalle milizie titine sia per la loro fede, sia perché difensori e guide di inermi popolazioni.

 Da "Centro studi Giuseppe Federici"

IL CUORE DEL SACERDOTE:

riflessione mese di febbraio 2021

 «Dov'è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore» (Lc 12,34).

Il cuore è il luogo da cui scaturiscono pensieri, sentimenti intimi, progetti, razionalità, autenticità, comportamenti.

Nella Bibbia, con il cuore si pensa, si ascolta, si decide, si ama, si giudica, si ricorda, ci si relaziona. Il cuore può essere puro (cfr. Mt 5,8) e cercare Dio, oppure doppio (cfr. Sal 12,3) e provocare comportamenti cattivi.

Come deve essere il cuore del Sacerdote? Ce lo illustra don Dolindo Ruotolo, sacerdote napoletano, morto in concetto di santità e di cui è in corso la causa di beatificazione.

In una sua lettera al Padre Renato Valente, Marianista, egli mette in bocca a Gesù queste parole rivolte al Sacerdote:

«Il cuore sacerdotale è un tempio vivo di Dio, e deve essere custodito come un tempio, nel silenzio e nella preghiera. Le voci del mondo non debbono penetrarvi, e non può essere profanato da affetti umani. Come il Tempio di Gerusalemme, il cuore del Sacerdote ha l'atrio dei gentili per ricevere i peccatori, l'atrio degli Ebrei per ricevervi le anime buone, l'altare degli olocausti per immolarsi a Dio, il candelabro dalle sette lampade, perché deve essere animato dai doni dello Spirito Santo, l'Altare dei profumi, per la sua costante preghiera, e il Santo dei Santi, perché mi deve custodire nel suo cuore, vivendo di me e con me in una continua unione di intimo amore. Sia questo il tuo cuore, figlio mio, perché tu sei consacrato a me, e vivi della mia potestà. Vivi come vissi io, facendo sempre ciò che piace a Dio. Insegna ciò che hai appreso dalla luce della fede nei tuoi studi. Immolati per la salvezza delle anime, e riposa come riposai io, sul Cuore di Maria. Io ti amo e ti custodisco nel mio cuore».

Ai nostri giorni tanti Sacerdoti, per lo più sconosciuti, hanno il loro cuore rivolto unicamente alla gloria di Dio. La loro vita è adorazione, lode, gratitudine, amore, supplica, espiazione, impegno a diventare il più possibile degni di Dio, della sua maestà e della sua santità. Da tutto ciò scaturisce la loro disponibilità al servizio umile e discreto, ma prezioso, ai fratelli. Da essi i fedeli ricevono luce e incoraggiamento per seguire Gesù in un mondo che fa di tutto per cancellarne le orme.

Ci sono però anche Sacerdoti che, avendo il proprio cuore lontano da Dio, cercano la ricchezza, il successo, la carriera, fanno sfoggio della propria cultura, delle proprie capacità organizzative, delle proprie doti naturali ma sono tutt’altro che “lampade” per il cammino dei loro fratelli.

Nei riguardi di questi ultimi, un giorno il Signore Gesù ebbe a dire alla Beata Teresa Casini: «Il Sacerdote mi è caro come la pupilla degli occhi; è il canale attraverso cui passano le grazie per le anime. Le sue infedeltà mi trafiggono in modo particolare, perché si riverberano sopra le anime».

Cosa possiamo fare noi nel nostro piccolo? Pregare.

Signore tu che hai detto. «Imparate da me che sono mite e umile di cuore», degnati di formare in ogni Sacerdote

• un cuore di povero, che senta profondamente la propria miseria e metta tutte le sue speranze in Dio;

• un cuore puro, interamente distaccato dai beni di questo mondo e liberato dalle ambizioni terrene;

• un cuore umile veramente felice d’essere, come te, ignorato, lasciato nell’ombra, incompreso, maltrattato, disprezzato; • un cuore dolce, che diffonda la soavità e l’incanto del tuo amore;

• un cuore aperto, accogliente, pieno di comprensione per le pene degli altri;

• un cuore benevolo, che sia il messaggero della tua bontà e della tua pace;

• un cuore semplice e allegro, che conservi la sua gioia anche nell’esperienza della propria miseria perché ha fiducia nel tuo amore onnipotente;

• un cuore silenzioso, che sappia tacere il male e che perdoni e dimentichi ogni offesa;

• un cuore generoso, che non rifiuti mai di servire e di sacrificarsi per gli altri capace di offrire in segreto, ma con entusiasmo, le sue prove per la salvezza delle anime! Amen

Padre Leopoldo Mandic:

ministro della misericordia di Dio

Bogdan Mandic nacque a Castelnuovo di Cattaro, una città del Regno di Dalmazia incorporata nell'Impero austro-ungarico e oggi nel Montenegro il 12 maggio 1866, fu battezzato con il nome di Deodato e fu il penultimo figlio di una coppia di croati cattolici. A seguito di un dissesto finanziario, la sua famiglia, un tempo nobile e ricca, era ridotta ad una condizione più modesta; ma tale cambiamento non aveva assolutamente intaccato la fede, né la fedeltà dei Mandic alla Chiesa romana.

Nella sua città prestavano servizio i frati Cappuccini e Bogdan, frequentando il convento per il doposcuola e le feste religiose, maturò l'idea di farsi frate.

Nel novembre 1882, accompagnato da suo padre, arrivò a Udine (Italia), e si recò presso il convento dei Cappuccini. Il Padre Guardiano andò premurosamente incontro agli ospiti. Il suo sguardo si volse immediatamente verso il giovane sedicenne, troppo basso per la sua età, magro e pallido. Veramente, il suo aspetto non era dei più belli: aveva un'aria goffa che la timidezza e l'andatura pesante accentuavano ancora di più. Per giunta, parlava male: era balbuziente. Ma l'espressione del volto dai lineamenti regolari, illuminati da uno sguardo vivace e da un sorriso schietto, compensava vantaggiosamente tali difetti. Per di più, le poche parole che aveva pronunciato rivelavano un giovane deciso: vuol farsi sacerdote nell'Ordine dei Frati Minori Cappuccini.

L'atmosfera del seminario «serafico» in cui Deodato entra è buona. Ma i suoi compagni sono ragazzi robusti e ben piantati, e le allusioni alla statura bassa del nuovo arrivato – non supererà un metro e trentacinque – o alla sua pronuncia difettosa, lo feriscono profondamente. Altero per natura e di temperamento vivace, il piccolo Deodato non smentisce il sangue dalmata che gli scorre nelle vene. Si inalbera dolorosamente quando sorprende lo sguardo troppo compassionevole dei Padri addetti alla scuola. Qualche scatto di malumore, senza grande importanza, lo impegna in una lotta coraggiosa e perseverante per domare la propria suscettibilità, per moderare il proprio temperamento troppo focoso e per acquisire una pazienza abituale e una dolcezza conquistatrice. Per avere la forza e il coraggio di fare tutto ciò ricorre continuamente a Gesù Eucaristia per il quale nutre un grande amore.

A diciotto anni entra nel noviziato di Bassano del Grappa e veste l'abito francescano, ricevendo il nome religioso di Leopoldo. Successivamente studia a Padova e a Venezia e nel 1890 è ordinato sacerdote. Viene destinato al convento di Venezia fino al 1897; poi viene inviato a Zara. Dopo tre anni è richiamato a Bassano del Grappa, dove si ferma fino al 1905. Da qui è inviato come vicario al convento di Capodistria, dove si ferma un anno prima di essere richiamato in Veneto. Vuole mantenne la cittadinanza austro-ungarica, ma ciò gli crea problemi allo scoppio della Prima guerra mondiale e nel 1917 è inviato al confino politico nel sud Italia, dove è costretto a soggiornare in alcuni conventi della Campania. Terminata la guerra, nel 1919 torna in Veneto ed è destinato a Padova, dove rimane per il resto della sua vita.

Quando abbracciò la vita religiosa nella famiglia francescana dei Cappuccini, il giovane frate Leopoldo da Castelnuovo coltivava due fermi propositi: essere missionario in Oriente, per riavvicinare alla Chiesa cattolica i fratelli ortodossi, e diventare confessore, usando con le anime dei peccatori tanta misericordia e bontà. Vari fattori, tra cui la salute precaria e l'obbedienza promessa, lo portarono a realizzare soltanto la seconda aspirazione.

Padre Leopoldo spese quasi metà della sua vita nel convento dei Cappuccini di Padova, rinchiuso nella sua cella-confessionale di due metri per tre, dedicando ogni energia all'accoglienza dei fedeli, soprattutto dei poveri e dei peccatori, nella celebrazione del sacramento della confessione.

Così, l'Oriente che desiderava raggiungere da missionario divenne ogni anima che andava a chiedere il suo aiuto spirituale. Egli stesso, il 31 gennaio 1941, scrisse: «Mi obbligo con voto, momento per momento, con tutta la diligenza possibile, tenendo conto della mia debolezza, di dedicare tutte le energie della mia vita per il ritorno dei fratelli separati d'Oriente alla unità cattolica. Per il momento, ogni anima che avrà bisogno del mio ministero, sarà per me un Oriente»

Fu confessore ricercato, anche da diversi professionisti e docenti dell'Università cittadina, per le doti di sapienza e scrutazione dei cuori, dovute alla frequentazione dei testi biblici e patristici. Si distinse pure per la vita di preghiera, l'intensa devozione all’Eucaristia e alla Vergine Maria (che in dialetto veneto chiamava “Parona benedeta”), e soprattutto, per la benevola accoglienza dei penitenti. «Stia tranquillo – usava dire a molti – metta tutto sulle mie spalle, ci penso io», e si addossava preghiere, veglie notturne, digiuni e privazioni volontarie.

A proposito della larghezza di cuore e della mansuetudine proverbiale del cappuccino, padre Ungaro, biografo di san Leopoldo, racconta un episodio della vita del giovane Mandic che spiegherebbe l’ origine del suo peculiare stile di confessore: «All’ età di otto anni fu fatto inginocchiare in mezzo alla chiesa come penitenza da un sacerdote. E promise a se stesso che non si sarebbe mai comportato così, se fosse diventato prete». E ancora: «Il suo modo di confessare assomigliava molto a quello di padre Pio. A volte la sua misericordiosa comprensione veniva scambiata per lassismo, per mano troppo larga. Un giorno accolse un fedele a cui un penitenziere della basilica aveva negato l’assoluzione. Lo mandò perdonato. E incontrandosi, in seguito, con quel frate inflessibile gli motivò la sua scelta differente con una sola frase: “Lei, padre, confessa con la sua coscienza; io con la mia”».

Un’ altra volta a chi lo rimproverava per essere troppo largo ebbe a rispondere: «Io troppo largo? Chi è stato largo? È stato il Signore il primo a esserlo: mica io sono morto per i nostri peccati, ma il Signore. Più largo di così col ladrone e con gli altri come poteva essere?».

Fra Barnaba Gabini che ha conosciuto, quando era ancora molto giovane, padre Leopoldo racconta: «Ricordo che si rivolgeva a me chiamandomi “toso”, cioè ragazzo in dialetto, e che fu lui a incoraggiarmi al momento della mia professione con pochissime parole. Non l’ ho mai sentito lamentarsi della malattia che lo stava consumando. Era sempre al confessionale e fuori c’ era la fila per confessarsi da lui».

E riporta anche un episodio profetico, testimoniato in sede del processo per la canonizzazione di padre Mandic: «Un giorno un penitente padovano, amico di padre Leopoldo, andando da lui, lo trovò in preda a un pianto disperato. Interrogato, il santo rivelò che quella notte aveva avuto una orribile visione: il Signore gli aveva mostrato l’Italia precipitata in un mare di fuoco e sangue», prevedendo in altri termini i drammatici eventi bellici che avrebbero straziato il nostro Paese alcuni anni dopo. Il santo in seguito profetizzò pure il bombardamento della città di Padova, precisando inoltre che sarebbero stati colpiti anche il convento e la chiesa dei cappuccini, ma che la celletta si sarebbe miracolosamente salvata. Tutto ciò puntualmente avveratosi il 14 maggio del 1944, confermando la fama di preveggente del piccolo frate dalmata, che nel frattempo era morto da due anni».

Padre Giuseppe Ungaro racconta: ««Veniva ogni mercoledì a confessare i frati al Santo (cioè alla basilica di sant’Antonio); lo faceva spesso in dialetto per mettere a suo agio chi gli stava davanti. Prima andava a pregare davanti alla tomba di sant’ Antonio. Cosa che ripeteva alla fine delle confessioni. Ricordo che per strada talvolta i ragazzini si prendevano gioco di questo religioso bassissimo di statura e la cosa lo faceva un po’ soffrire. Ma era così umile, che si vergognava di farsi accompagnare al Santo in automobile».

La sera prima di morire, nonostante i tormenti della malattia, padre Leopoldo stava ancora in confessionale ad accogliere i penitenti.

Morì il 30 luglio 1942, dopo aver tentato ancora di vestirsi per la Messa.

Il 2 maggio 1976 venne proclamato " Beato " da Paolo VI.

Giovanni Paolo II, nel 1983, lo ha collocato tra i santi.

«Non è mai esistito esorcista più potente» Padre Matteo La Grua

 E’ nato a Castelbuono in provincia di Palermo il 15 febbraio 1914 da Vincenzo e Anna Sottile.

Entrato nel Seminario dei Frati Minori Conventuali di Montevago (Agrigento) il 28 ottobre 1926, ha compiuto gli studi ginnasiali. Ha emesso i voti temporanei nell'Ordine Francescano il 4 ottobre 1930 ed i voti solenni a Roma, presso il Collegio Serafico, il 19 marzo 1935. Compiuti gli studi liceali e filosofici a Palermo e gli studi teologici a Roma alla Pontificia Facoltà di S. Bonaventura, si è laureato in Sacra Teologia nel 1940.

Ha ricevuto l'Ordinazione sacerdotale a Roma il 25 luglio 1937 e ha insegnato teologia nel Collegio dell'Ordine Francescano a Palermo e nel Seminario Arcivescovile e Convitto Ecclesiastico.

È stato ministro provinciale della Sicilia dal 1971 al 1986, vicario episcopale e presidente del Tribunale ecclesiastico diocesano. Il 10 ottobre 1975, il cardinale Salvatore Pappalardo gli affidò il mandato di guidare il movimento carismatico di Palermo e, da quello stesso anno, servì il "Gruppo Maria" del Rinnovamento nello Spirito presso la Chiesa del S. Cuore della Noce.

Padre Matteo è stato e rimane uno dei più grandi carismatici dell’età contemporanea. Uomo di grande umiltà e obbedienza alla chiesa, grande cultura, sobrietà di vita, solidità di dottrina e rara sapienza umana e teologica ma anche uomo semplice che amava stare in mezzo alla gente, mettendo tutti a proprio agio. Pregava per i malati e consolava chi ne aveva bisogno: si sentiva mandato dal Signore per ascoltare la gente che aveva bisogno di aiuto.

Era una delle personalità più importanti del “Rinnovamento nello Spirito Santo”, un movimento nato in America negli anni ‘70, che, secondo gli insegnamenti del Concilio Vaticano II, sottolinea l’importanza della terza figura della Santissima Trinità: lo Spirito Santo. Durante gli incontri di questo movimento i sacerdoti invocano lo Spirito Santo perché possa, attraverso di loro, compiere liberazioni da influssi demoniaci e guarigioni da mali fisici. Lo stesso La Grua pregava per gli ammalati ottenendo molte grazie da Dio.

Grande esorcista, cacciava i demoni e si dice che guarisse da mali incurabili. Possedeva il carisma del comando, ovvero possedeva la capacità di comandare alle malattie di guarire. Nella Chiesa cattolica il rito dell’esorcismo consta, fin dalle origini, di due elementi: una preghiera a Cristo perché venga in aiuto di colui che è posseduto dallo spirito maligno e un’apostrofe di comando (o scongiuro), espressa in termini o gesti minacciosi rivolti contro il demonio nel nome di Gesù, perché lasci il possesso di quella creatura di Dio. La funzione di esorcista in genere è affidata dal vescovo a un sacerdote per particolari motivi ed esigenze.

La fama di Padre Matteo La Grua si estese da Palermo a tutto il mondo grazie ai molti prodigi legati alla sua figura. Di lui, padre Gabriele Amorth diceva: «Non è mai esistito esorcista più potente». Giovanni Paolo II lo volle come suo Esorcista personale.

Diverse sono le testimonianze di persone liberate dal demonio grazie ai suoi esorcismi, oltre che di tante altre che sarebbero state guarite da mali incurabili per mezzo della potente preghiera del sacerdote. Non parlava a chiare lettere di esorcismo, padre Matteo, forse perché, come sottolineava, «cerchiamo sempre di mettere in ombra ciò che può arrecare troppa meraviglia. È meglio lavorare con i piedi per terra. Come dice il Vangelo: non sappia la tua destra ciò che fa la sinistra».

Per quanto riguarda la possessione diabolica diceva: «Di queste cose non parlo. I casi sono tanti, a centinaia. Il diavolo si presenta attraverso le opere degli uomini, e non nei cosiddetti indiavolati. Le presenze diaboliche esistono, qualche volta si fanno avanti, ma nella maggior parte dei casi si tratta di turbe psichiche. E queste, affidate soltanto alla cura del medico, senza preghiere, senza comprensione, né una voce amica, difficilmente guariscono». Rilevava che oggi basta accendere il televisore per capire che «Gli occultisti prendono campo, perché venendo meno la fede, l'uomo, religioso per natura, cerca altri espedienti. Imbocca vie occulte, nella speranza di provare sensazioni nuove e risolvere i propri problemi. Ma l'occultismo non risolve proprio nulla: nel migliore dei casi, offre solo una certa soddisfazione momentanea».

Di se stesso diceva: «Sono un umile servo di Dio al servizio della Chiesa. La liberazione è un dono di Dio. Soltanto Dio può liberare: quando e come vuole. Se Satana è potente, Dio è onnipotente. Il Signore può liberare anche senza l’intervento di intermediari umani». "Sono una candela accesa che si sta a consumare..."

La cosa più importante che ha connotato in maniera decisa la sua vita è stata la Preghiera: il Signore era il suo Tutto.

Ci sono testimonianze di diversi episodi straordinari. Un giorno fu chiamato a benedire un uomo che era morto da poche ore. Fece la consueta preghiera di circostanza, benedisse la salma, ma dopo poco l’uomo si risvegliò e disse per tre volte “Gesù mio misericordia”, dopodiché ritornò morto: era ritornato in vita per chiedere perdono dei suoi peccati.

Altro episodio capitò a Siracusa alla presenza di 16000 persone. Una donna con in braccio una bambina che non aveva mai camminato salì sul palco: Padre La Grua disse: «Dammela», la prese sulle sue gambe e le chiese: «Cosa vuoi?». La bimba rispose che voleva camminare. A questo punto cominciò a mettersi in piedi, un po’ barcollando a poco a poco il passo si sciolse ed incominciò a camminare.

Un altro episodio si verificò con un uomo che non poteva camminare: dopo un incontro di preghiera Padre La Grua mandò tutti a casa, ma un uomo era rimasto  seduto. Padre La Grua gli ripeté di andarsene a casa, ma lui rispose che non poteva camminare. La Grua allora insistette dicendogli di alzarsi e di andarsene: egli si alzò e se ne andò camminando.

Durante la celebrazione della Santa Messa a volte si manifestavano fenomeni misteriosi: si udivano ad esempio  dei suoni che assomigliavano al canto degli angeli, durante i quali avvenivano guarigioni e consolazioni, e tutti riuscivano a sentirli.

Avere contatti con Padre La Grua era un esercizio di buona volontà. La gente che chiedeva, che telefonava, che esigeva un contatto diretto era tanta. Il religioso non rispondeva al telefono. Le chiamate erano smistate da due addette, che ascoltavano e prendevano appunti. Lo si poteva incontrare per qualche minuto nel salone accanto alla sacrestia, il lunedì. Per chi proprio non poteva rinviare, in casi di emergenza, si poteva provare a bussare alla porta in fondo a via Ruggerone a Palermo, sul retro della chiesa Sacro Cuore di Gesù, alla Noce, anche se soltanto per una rapida benedizione.

Egli diceva: «Vengono qui per pregare. È un'esigenza importante perché oggi viviamo l'invadenza del male un po' in tutti i campi, ma credo che il resistervi sia una prova di fede nella presenza di Dio nella storia. Io sono sempre ottimista, mai pessimista. So che Dio crede nell'uomo». «I più vengono qui per trovare un indirizzo di luce ed una risposta». «Io sono a riposo per raggiunti limiti di età, ma è anche vero che i bisogni della gente non vanno mai in pensione. Di conseguenza, nemmeno i sacerdoti. Qui viene gente da ogni parte della città e da tutta la Sicilia».

Era convintissimo che gli strumenti più efficaci nella lotta contro il maligno sono l'Amore di Dio, l'Eucarestia, la preghiera, il Santo Rosario. Eppure, dopo 77 anni di Sacerdozio, il Frate della Noce, poco tempo prima della morte, che sentiva ormai prossima, provato dalla sofferenza, dichiarava: "Non cambio un giorno di sofferenza con un giorno di potenza, perché Cristo non salvò il mondo con la potenza, ma con la Croce; non con i miracoli che lo accomunano a Dio ma con la sofferenza che lo ha reso vicino ad ogni uomo nel dolore. Se il Signore mi dicesse di ritornare come prima, nel tempo dei miracoli, io direi di no."

Fino alla fine ha esortato sacerdoti e laici a non mollare nella battaglia contro il maligno. Di sé diceva: «Sono un semplice figlio della Vergine Maria. Sono strumento del Suo grande Amore. Non ho alcun merito».

Padre Matteo è morto il 15 gennaio 2012 a Palermo; aveva quasi 98 anni quando il suo Signore gli ha detto: « Vieni, servo buono e fedele, entra nella gioia del tuo Signore».

Adolf Kajpr, sacerdote e martire

Adolf Kajpr nacque il 5 luglio 1902 a Hředle, fu battezzato il 12 luglio 1902 nella Chiesa di San Lorenzo (sv. Vavřinec) nel vicino paese di Žebrák. I genitori Adolf (1859-1906) e Anna Kytková (1861-1905) avevano in affitto una taverna e una macelleria a Hředle. Dopo la morte della madre, il padre tornò al paese natio di Bratronice con i figli ma morì poco tempo dopo. Del ragazzo divenuto orfano si occupò la zia Klara, una donna buona e severa e il marito Josef Bůžek. Adolf crebbe nella fede cristiana. Dal 1908 al 1916 studiò in una scuola pubblica in seguito, però, dovette abbandonarla per motivi economici. Si occupò di umili lavori, imparò il mestiere di calzolaio e alla fine tornò a studiare nel vicino paese di Roučmídův mlýn. Mostrava un grande interesse per lo studio e si preparò da autodidatta per poter accedere al liceo. Nel 1924-26 prestò servizio nell'esercito cecoslovacco e successivamente, all'età di 24 anni, entrò nel Liceo Arcivescovile di Praga, gestito dai gesuiti.

Dopo aver concluso la sesta classe, dal 1928 al 1930 trascorse il noviziato nella Compagnia di Gesù a Velehrad e contemporaneamente si preparò per l’esame di maturità, che superò con lode. Il 15 agosto 1930 prese i voti a Velehrad. Nel 1930-32 studiò filosofia nella città belga di Eegenhoven e dal 1932 al 1936 teologia a Innsbruck (Austria). Il 26 luglio 1935 fu ordinato sacerdote. Pochi giorni dopo celebrò la sua Prima Messa Solenne nella Chiesa di Sant'Ignazio (kostel sv. Ignáce) di Praga e nella Chiesa di Tutti i Santi (kostel Všech svatých) di Bratronice. Subito dopo gli esami finali, nel 1936-37, fu inviato a Paray-le-Monial, in Francia, per il terzo anno di noviziato (terza probazione) e dopo la formazione tornò in patria.

Dal 1937 Kajpr visse e lavorò presso la comunità di Sant’Ignazio a Praga, dove si occupava del ministero cristiano e teneva gli esercizi spirituali. Insegnò filosofia cristiana nella Scuola Teologica Arcivescovile di Praga. La sua attività principale fu nel settore della stampa. Divenne editore di quattro riviste dell'ordine religioso, alle quali portò anche il suo personale contributo: Revival (Obrození) (1939-1940), Gioventù (Dorost) (1939-1940), Nuove direzioni (Nové směry) (1940-1941) e il Messaggero del Sacro Cuore di Gesù (Posel Božského Srdce Páne) (1937-1941).

Nel 1939 il giornale Gioventù (Dorost) destò i risentimenti dei nazisti occupanti poiché nella prima pagina vi era un fotomontaggio nel quale Eracle (figura di Cristo) trionfava sul cane a tre teste Cerbero, tradizionale custode della gente nel regno delle tenebre e della morte, nella cui bocca era disegnata una svastica, simbolo nazista.

I redattori Alois Koláček S.I.e Adolf Kajpr S.I. furono più volte ammoniti dalla Gestapo. Nel marzo 1940 Koláček fu arrestato e ad aprile fu bloccata la pubblicazione della rivista Gioventù (Dorost). Kajpr, tuttavia, aveva molto a cuore i giovani e iniziò a pubblicare senza l'approvazione delle autorità il volantino Nuove direzioni (Nové směry). Incoraggiò i suoi lettori alla fede, alla speranza e all'autentico patriottismo.

Ricordava che l'unica vera Guida dell'umanità è Cristo e che il cristiano dovrebbe stare dalla parte dei difensori del bene, della giustizia, dell'uguaglianza di tutti i popoli e le nazioni anche se ama la propria patria. Proprio per questi motivi nel febbraio del 1941 si oppose ai collaboratori dei tedeschi. Ciò attirò l'attenzione della Gestapo che bloccò la pubblicazione del volantino.

Il 20 marzo 1941, Kajpr fu arrestato per articoli "feroci" e "pieni d'odio" contro il Reich. All'inizio fu imprigionato a Pankrác, poi nel campo di concentramento di Terezín, con una "pausa" in cui fu assegnato al lavoro forzato nell'unità esterna di Nová Huť (ora Nižbor) vicino Beroun per la costruzione di un edificio e un giardino adibito a scopo ricreativo per la Gestapo.

Dopo una permanenza temporanea nel carcere di Pankrác fu trasferito nel settembre 1941 nel campo di concentramento di Mauthausen dove gli fu assegnato il lavoro nella terribile cava di pietra. Nel maggio 1942 fu deportato a Dachau; qui sopravvisse fino alla fine della guerra nel cosiddetto "Blocco dei sacerdoti" dove dovette lavorare anche alla costruzione della "Piantagione". Rimase, comunque, sempre in contatto con i gesuiti di Praga.

Il 29 aprile 1945 fu liberato da campo di Dachau e meno di un mese dopo, il 21 maggio 1945, Kajpr fu trasportato in patria nella comunità di Sant'Ignazio a Praga. Il 12 agosto 1947 ricevette due onorificenze dal Presidente della Repubblica.

Il 15 agosto 1945 Kajpr prese il quarto voto e divenne professore alla Compagnia di Gesù. Fu un famoso predicatore e tenne esercizi spirituali e di rinnovamento spirituale. Riprese la pubblicazione della rivista Gioventù (Dorost). Divenne editore esecutivo del periodico Il Cattolico: giornale di cultura e vita nella fede (Katolík: list pro kulturu a život z víry) che divenne, insieme alla predicazione, il pulpito principale dal quale negli anni dal 1945 al 48 diffuse il Vangelo, il suo concetto di vita cristiana, di apostolato e la percezione del presente.

La rivista ebbe una grande influenza sul modo in cui i credenti percepivano lo sviluppo della Cecoslovacchia del dopoguerra, dove si stava manifestando il crescente potere del Partito comunista. Lo stesso Kajpr era un uomo di pensiero marcatamente sociale. Tuttavia, la necessità di contestare il marxismo-leninismo era dovuta dal periodo storico. Avvisò apertamente che qualsiasi umanesimo ateo avrebbe portato in modo ineluttabile a campi di concentramento, prigioni, esecuzioni e a molte altre forme di persecuzione. Già nel febbraio 1948, il periodico Il Cattolico fu dichiarato contro lo Stato e reazionario e fu revocato il permesso di stampa facendone così cessare la pubblicazione.

Kajpr si dedicò in seguito solo all'opera pastorale, nelle sue omelie rafforzò la fede degli ascoltatori e continuò nella polemica contro il materialismo e la critica marxista della religione.

Il 14 marzo 1950 Kajpr fu arrestato per mandato di Alexej Čepička, Ministro di Giustizia e Presidente dell'Ufficio di Stato per gli affari ecclesiastici. Si voleva dimostrare agli Ordini religiosi che la chiesa è un nemico socialmente pericoloso con cui era necessario confrontarsi. Il processo avrebbe dovuto aver luogo anche contro tutti gli ordini religiosi maschili. Kajpr fu scelto per la sua fama e la sua critica dell'ideologia e pratica comunista.

Come fu con i nazisti, anche i comunisti lo arrestarono per gli articoli "sediziosi" contro il sistema democratico popolare, a causa delle prediche "sovversive" e "spionaggio" a favore del Vaticano. Il processo ebbe luogo dal 31 marzo al 5 aprile 1950. Kajpr lo affrontò in modo coraggioso, sobrio e veritiero. Fu riconosciuto colpevole di tradimento e condannato a 12 anni di prigione e ad altre pene aggiuntive.

Dopo la condanna, Kajpr fu imprigionato a Pankrác, poi a Mírov, Valdice e infine a Leopoldov in Slovacchia. Le testimonianze dei suoi compagni di prigionia parlono della profonda fede e umile devozione di Kajpr, dei suoi interventi spirituali destinati ai sacerdoti imprigionati, delle esortazioni inviate segretamente ai laici, degli esercizi, della preparazione segreta dei novizi della Compagnia di Gesù, della vita con i gesuiti incarcerati, dei rapporti con i carcerieri e i compagni di prigionia , delle lezioni e discussioni di filosofia, liturgia, letteratura e altro.

Il 13 settembre 1959 fu colpito da infarto durante il lavoro. Fu trasportato all'ospedale della prigione. Il 17 settembre 1959 Kajpr subì un secondo infarto e morì all’età di 57 anni. La direzione della prigione, in accordo con le autorità superiori, decise di seppellirlo in un cimitero locale in una tomba indicata solo con il suo numero. Il 24 ottobre 1968, il suo corpo fu riesumato, trasferito a Praga e il 25 ottobre fu deposto in una tomba a Vyšehrad.

Kajpr fu membro della Compagnia di Gesù per 31 anni e per 24 sacerdote. Per la sua fede in Cristo e per la fedeltà alla Chiesa fu imprigionato per 12,5 anni e in conseguenza di ciò morì.

La richiesta di beatificazione è iniziata già dalla morte di Kajpr. Lo stesso Papa Giovanni Paolo II lo presentò come uno dei religiosi che, anche nelle condizioni dei campi di concentramento nazisti e della prigionia, aveva dato "un esempio di grande dignità, vivendo nelle virtù cristiane" (26 aprile 1997), disse inoltre che "morì in odore di santità" (20 maggio 1995).

Una delle caratteristiche che distinguevano Kajpr era la capacità di essere "al servizio della Parola di Dio", ovvero portare con gioia la Parola di Gesù Cristo e la sua opera con diverse forme di predicazione. Fu in grado di mostrare come può essere la comunione dell’uomo in Cristo, il cui altro nome è la Chiesa, vissuta nella vita di tutti i giorni e come dovrebbe manifestarsi nelle azioni umane. Seppe leggere i segni del tempo e mostrare che "il messaggio di Cristo ha una risposta valida e bella a tutte le domande, anche le più scottanti" e che "tutti gli eventi quotidiani rimangono per l'eternità".

Realizzava le sue prediche soprattutto in forma di sermoni: era conosciuto come un predicatore abile, sbalorditivo, eccellente, "potente nelle parole" (cfr. Luca 24,19). L'altro campo della sua attività fu la redazione di riviste dell'Ordine, alle quali contribuiva lui stesso, in particolare nel periodo del dopoguerra, con il giornale Il Cattolico: giornale di cultura e vita nella fede. Il punto centrale della predicazione di Kajpr è stato quello di incentrare l'intera vita umana in Cristo. Per vivere questo tipo di vita l'uomo deve partecipare alla Santa Messa ed è quindi chiamato a rendere testimonianza a Cristo e a Dio, sia nella parola che nella vita, in modo che i suoi contemporanei lo comprendano il più possibile.  Il credente è invitato a partecipare alla vita della società, ad impegnarsi in essa, ad essere consapevole degli eventi come essere pensante e cristiano.

Il compito della stampa cristiana non è solo di informare, ma anche di plasmare.ino è necessario familiarizzare con i bisogni e le sofferenze umane.

IL SACERDOZIO E' L'AMORE

DEL CUORE DI GESU'

Riflessione gennaio 2021

IL SACERDOTE E L’ANNO NUOVO

 «Che cos'è il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so più». (Sant'Agostino confessioni 14.17)

È davvero curiosa la mente umana: ha bisogno di scadenze, di limiti temporali per fermarsi e porsi domande sulla vita. L’anno appena concluso ci ha portato a guardarci indietro e fare un bilancio di quello che abbiamo vissuto negli ultimi mesi e nel cuore è nata una certa malinconia per le cose che la pandemia da covid-19 non ci ha permesso di vivere, per i desideri non realizzati, per le vicende tristi che abbiamo dovuto affrontare, per le lacrime che abbiamo versato. Forse ci è venuto alla mente il detto popolare: “Anno bisesto, anno funesto!” e tutto sommato non ci dispiace affatto che sia finito.

Contemporaneamente però si è accesa anche la speranza per un futuro migliore.

I Romani dicevano: “Spes, ultima dea”. E’ proprio vero: non smettiamo mai di sperare che tutto possa cambiare, che il sole dentro al cuore possa tornare a brillare e ci auguriamo di realizzare i nostri sogni, di sorridere di nuovo, di essere sereni e di avere pace, perché ci rendiamo conto che se abbiamo queste cose, abbiamo tutto.

Allora facciamo tanti propositi perché siamo convinti che una buona parte di quel che accadrà dipenderà anche da noi e dai nostri comportamenti. Einstein diceva: “Le persone più felici non hanno necessariamente il meglio di ogni cosa; soltanto traggono il meglio da ogni cosa che capita sul loro cammino.” Sappiamo però che, perché ciò si realizzi in pieno, abbiamo bisogno della benedizione del Signore.

Nell’Antico Testamento veniva data molta importanza alla benedizione e alla maledizione dei patriarchi. La benedizione veniva impartita da Dio ma poteva essere esercitata anche da parte dei ministri di Dio, pronunciando la “parola efficace”.

Nel libro della Genesi si legge che Melchisedek, sacerdote del Dio altissimo, benedisse Abramo, dicendo: «Benedetto sia Abramo dal Dio altissimo, padrone dei cieli e della terra!» (Gen 14,19) e si legge anche che Il Signore disse a Mosè: “Parla ad Aronne e ai suoi figli e riferisci loro: Voi benedirete così gli Israeliti; direte loro: Ti benedica il Signore e ti protegga. Il Signore faccia brillare il suo volto su di te e ti sia propizio. Il Signore rivolga su di te il suo volto e ti conceda pace. Così porranno il mio nome sugli Israeliti e io li benedirò”. (Numeri 6:22-27)

All’inizio dell’anno al termine della santa Messa il Sacerdote impartisce la benedizione ai fedeli con queste parole: “Dio, sorgente e principio di ogni benedizione, effonda su di voi la sua grazia e vi doni per tutto l’anno vita e salute. Vi custodisca integri nella fede, pazienti nella speranza, perseveranti nella carità. Dio disponga opere e giorni nella sua pace, ascolti ora e sempre le vostre preghiere e vi conduca alla felicità eterna”, mettendo così tutta la nostra vita sotto la protezione di Dio.

San Tommaso d’Aquino ci spiega che “la benedizione di Dio sta a significare il conferimento dei suoi doni e la loro moltiplicazione” (Commento alle Sentenze, libr. 2, dist. 15, 3, 3).

Allora cosa augurarci ancora di meglio?

Il Signore ci conceda ancora tanti santi sacerdoti che continuino a benedirci nel Suo nome.

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