Il Sacerdote e i martiri

Riflessione di agosto 2021

Il 14 agosto prossimo ricorre l’ottantesimo anniversario della morte di San Massimiliano Kolbe, sacerdote francescano polacco, martire, ucciso ad Auschwitz il 14 agosto del 1941. Quando il comandante condannò, per rappresaglia, dieci innocenti al bunker della fame, Massimiliano, in uno slancio di amore, offrì la sua vita di sacerdote in cambio di quella di un padre di famiglia, realizzando così il sogno del martirio, la estrema testimonianza del suo amore per Dio e i fratelli. Egli portò nell’inferno di Auschwitz la luce di Cristo, umiliò la violenza nazista, ridonò speranza ai prigionieri, così che anche gli aguzzini dovettero affermare: “Questo prete è un santo”. La sua dignità di sacerdote e uomo retto primeggiava fra i prigionieri, un testimone disse: “Kolbe era un principe in mezzo a noi”. Alla fine di luglio fu trasferito al Blocco 14, dove i prigionieri erano addetti alla mietitura nei campi; uno di loro riuscì a fuggire e secondo l’inesorabile legge del campo, dieci prigionieri vennero destinati al bunker della morte. Padre Kolbe si offrì in cambio di uno dei prescelti. La disperazione che s’impadronì di quei poveri disgraziati, venne attenuata e trasformata in preghiera comune, guidata da padre Kolbe e un po’ alla volta essi si rassegnarono alla loro sorte; morirono man mano e le loro voci oranti si ridussero ad un sussurro; dopo 14 giorni non tutti erano morti, rimanevano solo quattro ancora in vita, fra cui padre Massimiliano, allora le SS decisero, giacché la cosa andava troppo per le lunghe, di abbreviare la loro fine con una iniezione di acido fenico; il francescano martire volontario, tese il braccio dicendo “Ave Maria”.

Padre Massimiliano, martire di Cristo, è’ una delle figure più significative del XX secolo per la luminosità della testimonianza che ha lasciato sul senso da dare alla vita e alla morte.

Ma che cos’è il martirio? Dal latino martyrium, testimonianza, è la forma di amore totale a Dio. Il termine martire infatti indica colui che ha testimoniato la propria fede in Cristo fino all'effusione del sangue.

Nella splendida udienza a Castel Gandolfo di mercoledì 11 agosto 2010 il Santo Padre, Benedetto XVI a proposito del martirio diceva: « Da dove nasce la forza per affrontare il martirio? Dalla profonda e intima unione con Cristo, perché il martirio e la vocazione al martirio non sono il risultato di uno sforzo umano, ma sono la risposta ad un’iniziativa e ad una chiamata di Dio, sono un dono della Sua grazia, che rende capaci di offrire la propria vita per amore a Cristo e alla Chiesa, e così al mondo… il martire è una persona sommamente libera, libera nei confronti del potere, del mondo; una persona libera, che in un unico atto definitivo dona a Dio tutta la sua vita, e in un supremo atto di fede, di speranza e di carità, si abbandona nelle mani del suo Creatore e Redentore; sacrifica la propria vita per essere associato in modo totale al Sacrificio di Cristo sulla Croce. In una parola, il martirio è un grande atto di amore in risposta all’immenso amore di Dio.»

Quale fu l’asse portante della vita di padre Kolbe? Un’intensa vita di unione con Cristo, un’offerta continua delle sue sofferenze fisiche dovute alla tubercolosi, un’intensa attività e un immenso amore per la Madonna che venerava, da vero francescano, come l’Immacolata.

Sacerdoti di questa tempra dobbiamo chiedere al Signore, in questo tempo in cui i Sacerdoti non solo sono pochi ma sono anche scoraggiati e confusi.

“'Ave Maria!”: fu l’ultima invocazione sulle labbra di san Massimiliano Maria Kolbe mentre porgeva il braccio a colui che lo uccideva con un’iniezione di acido fenico. È commovente costatare come il ricorso umile e fiducioso alla Madonna sia sempre sorgente di coraggio e di serenità”.

Sono passati ottant'anni

ma il ricordo  di questo

straordinario gesto d'amore

rimane vivo ed indelebile.

Tra il 29 e il 30 luglio del 1941, in quel di Auschwitz, fra' Massimiliano Kolbe si sostituì ad un padre di famiglia, condannato a morire di fame e di sete con altri nove compagni di prigionia. Qualche giorno prima un detenuto era fuggito dal campo e, dal momento che non era stato ritrovato, dieci prigionieri dovevano morire per scoraggiare altri eventi di questo tipo.

Il francescano polacco non era stato scelto, ma, vista la disperazione di uno dei condannati, si fece avanti e chiese di sostituirlo. Il santo compì un gesto di grande coraggio perché agli internati non era consentito muoversi o parlare. E' davvero singolare che a lui sia stato permesso di fare molto di più. Si tratta di un grande gesto d'amore che diede molto coraggio a tutti i prigionieri, perché il bene vince sempre sul male, anche in quel luogo di morte.

Massimiliano realizzò qualcos'altro di importante: accompagnò i nove condannati a morte verso il trapasso. Dal bunker nel quale erano rinchiusi si sentivano preghiere e canti: il santo donò speranza lì dove la disperazione sarebbe dovuta prevalere. E' il miracolo della carità.

Parlando di Kolbe, Giovanni Paolo II ha detto: "Non morì, ma diede la vita".

Questo è il segreto del martire di Auschwitz, un segreto che egli rivela a tutti noi: è possibile compiere grandi gesti d'amore se c'è una preparazione ed un esercizio continuo nella donazione di se stessi. I fatti eroici sono preceduti e preparati da tanti piccoli atteggiamenti quotidiani, improntati alla solidarietà e alla carità.

Grazie, s. Massimiliano, per il tuo esempio, prega per noi perché possiamo amare con tutte le forze come hai fatto tu!

Sacerdoti Santi?

Certo!

Beato Filippo Rinaldi

Sacerdote

 Filippo Rinaldi nacque a Lu Monferrato, in provincia di Alessandria, il 28 maggio 1856. Ottavo di nove figli, il suo temperamento giovanile non fu quello che ci si potrebbe propriamente aspettare da un santo, ma il celebre santo dei giovani, don Bosco, seppe scorgere anche in lui una buona stoffa per farne un buon educatore. Filippo conobbe infatti Don Bosco nel suo paese natio già in tenera età, durante una delle tante passeggiate che il santo sacerdote faceva con i suoi giovani. A dieci anni il padre lo iscrisse al collegio di Mirabello, che per sua volontà lasciò pochi mesi dopo. Don Bosco gli scrisse, tentando di indurlo a tornare, ma Filippo si mostrò irremovibile. Nel 1874 Don Bosco si recò personalmente a Lu per convincere il giovane Filippo a seguirlo a Torino, ma purtroppo senza successo. Solo tre anni dopo Don Bosco riuscì finalmente a persuaderlo conquistando il suo cuore e, all’età di ventuno anni, il Rinaldi intraprese a Sampierdarena il cammino per le vocazioni adulte.

Nel 1880, dopo il noviziato, nelle mani dello stesso don Bosco, emise i voti perpetui. Grazie alla santa insistenza di Don Bosco, nel dicembre del 1882 Filippo rispose alla chiamata del Signore e ricevette l’ordinazione presbiterale. Poco tempo dopo il santo fondatore lo nominò direttore a Mathi, un collegio per vocazioni adulte che poi fu trasferito a Torino. A pochi giorni dalla morte di Don Bosco, Don Rinaldi volle confessarsi da lui e questi, prima di assolverlo, ormai senza forze, gli disse soltanto una parola: “Meditazione”.

Nel 1889 Don Michele Rua, primo successore di Don Bosco, lo nominò direttore a Sarria, nei pressi di Barcellona in Spagna, dicendogli: “Dovrai sbrigare cose assai delicate”. In tre anni, con la preghiera, la mansuetudine e una presenza paterna e animatrice tra i giovani e nella comunità salesiana, risollevò l’opera. Venne allora nominato Ispettore di Spagna e Portogallo, contribuendo in modo straordinario allo sviluppo della Famiglia Salesiana in terra spagnola. In soli nove anni, anche grazie all’aiuto economico dato dalla venerabile nobildonna Dorotea Chopitea, Don Rinaldi fondò ben sedici nuove case. Don Rua dopo una visita ne restò impressionato e, in seguito, lo nominò Prefetto generale della Congregazione. Nel nuovo incarico, don Rinaldi continuò a lavorare con zelo, senza mai rinunciare al suo ministero sacerdotale. Svolse il suo compito di governo con prudenza, carità e intelligenza.

Dopo la morte del Beato Don Rua, nel 1910 Filippo Rinaldi fu rieletto Prefetto e Vicario di Don Albera, nuovo Rettor Maggiore. Nel 1921 fu eletto egli stesso terzo successore di Don Bosco, il cui spirito dovette adattare ai tempi nuovi, ruolo che evidenziò maggiormente le sue doti di padre e la sua ricchezza d’iniziative: cura delle vocazioni, formazione di centri di assistenza spirituale e sociale per le giovani operaie, guida e sostegno per le Figlie di Maria Ausiliatrice in un particolare momento della loro storia. Grande impulso diede ai Cooperatori Salesiani, istituì le Federazioni mondiali degli ex-allievi ed ex-allieve. Lavorando tra le Zelatrici di Maria Ausiliatrice, intuì e percorse una via che portava ad attuare una nuova forma di vita consacrata nel mondo, che sarebbe in seguito fiorita nell’Istituto secolare delle “Volontarie di don Bosco”.

L’impulso che egli diede alle missioni salesiane fu enorme: fondò istituti missionari, riviste e associazioni, e durante il suo rettorato partirono per tutto il mondo oltre milleottocento salesiani. Compì numerosi viaggi in Italia ed Europa. Dal pontefice Pio XI ottenne l’indulgenza del lavoro santificato. Maestro di vita spirituale, rianimò la vita interiore dei salesiani mostrando sempre un’assoluta confidenza in Dio ed un’illimitata fiducia in Maria Ausiliatrice, titolo con il quale la Madre di Dio è particolarmente invocata dalla Famiglia Salesiana. Il grande salesiano Don Francesia asserì: “A Don Rinaldi manca solo la voce di don Bosco”.

Il 5 dicembre 1931 a Torino Filippo Rinaldi concluse santamente e silenziosamente la sua vita terrena, intento a leggere la vita di Don Rua. Il suo processo di canonizzazione ebbe inizio il 5 novembre 1947 e Don Rinaldi fu dichiarato “venerabile” il 3 gennaio 1987. Papa Giovanni Paolo II lo ha beatificato il 29 aprile 1990 nella piazza antistante la Basilica di Maria Ausiliatrice a Torino, insieme al giovane Pier Giorgio Frassati ed al Canonico Giuseppe Allamano, fondatore dei Missionari della Consolata. Ancora oggi le spoglie mortali del Beato Rinaldi riposano nella cripta della suddetta basilica torinese.

SACERDOTI SANTI?

NON SE NE PARLA MA

CE NE SONO TANTI!

BEATO GIACOMO ALBERIONE

Don Giacomo Alberione, fondatore della Famiglia Paolina, fu uno dei più creativi apostoli del XX secolo. Nato a San Lorenzo di Fossano (Cuneo) il 4 aprile 1884, ricevette il Battesimo il giorno successivo. La famiglia Alberione, composta da Michele e Teresa Allocco e da sei figli, era di condizione contadina, profondamente cristiana e laboriosa.

Il piccolo Giacomo, quartogenito, avverte presto la chiamata di Dio: in prima elementare, interrogato dalla maestra su cosa farà da grande, egli risponde: “Mi farò prete!”. Gli anni della fanciullezza si orientano in questa direzione.

Trasferita la famiglia nel comune di Cherasco, parrocchia San Martino, diocesi di Alba, il parroco don Montersino aiuta l'adolescente a prendere coscienza e a rispondere alla chiamata. A 16 anni Giacomo è accolto nel Seminario di Alba e subito si incontra con colui che gli sarà padre, guida, amico, consigliere per 46 anni: il canonico Francesco Chiesa.

Al termine dell'Anno Santo 1900, già interpellato dall'enciclica di Leone XIII “Tametsi futura”, Giacomo vive l'esperienza determinante della sua esistenza. Nella notte del 31 dicembre 1900, che divide i due secoli, prega per quattro ore davanti al Santissimo Sacramento. Una “particolare luce” gli viene dall'Ostia, e da quel momento si sente “profondamente obbligato a far qualcosa per il Signore e per gli uomini del nuovo secolo”: “obbligato a servire la Chiesa” con i mezzi nuovi offerti dall'ingegno umano.

L'itinerario del giovane Alberione prosegue intensamente negli anni dello studio della filosofia e teologia. Il 29 giugno 1907 viene ordinato sacerdote. Segue una breve ma decisiva esperienza pastorale in Narzole (Cuneo), in qualità di vice parroco. Là incontra il giovinetto Giuseppe Giaccardo, che per lui sarà ciò che fu Timoteo per l'Apostolo Paolo. E sempre a Narzole don Alberione matura la comprensione di ciò che può fare la donna coinvolta nell'apostolato.

Nel Seminario di Alba svolge il compito di Padre Spirituale dei seminaristi maggiori e minori, e di insegnante in varie materie. Si presta per predicazione, catechesi, conferenze nelle parrocchie della diocesi. Dedica pure molto tempo allo studio sulla situazione della società civile ed ecclesiale del suo tempo e sulle nuove necessità che si prospettano.

Comprende che il Signore lo guida ad una missione nuova: predicare il Vangelo a tutti i popoli, nello spirito dell'Apostolo Paolo, utilizzando i mezzi moderni di comunicazione. Testimoniano tale orientamento due suoi libri: Appunti di teologia pastorale (1912) e La donna associata allo zelo sacerdotale (1911-1915).

Tale missione, per avere efficacia e continuità, deve essere assunta da persone consacrate, poiché “le opere di Dio si fanno con gli uomini di Dio”. Così il 20 agosto 1914, mentre a Roma muore il Santo Pontefice Pio X, ad Alba Don Alberione dà inizio alla “Famiglia Paolina” con la fondazione della Pia Società San Paolo. L'inizio è poverissimo, secondo la pedagogia divina: “iniziare sempre da un presepio”.

La famiglia umana — alla quale don Alberione si ispira — è composta di fratelli e sorelle. La prima donna che segue don Alberione è una ragazza ventenne di Castagnito (Cuneo): Teresa Merlo. Con il suo contributo, Alberione dà inizio alla Congregazione delle Figlie di San Paolo (1915). Lentamente la “Famiglia” si sviluppa, le vocazioni maschili e femminili aumentano, l'apostolato si delinea e prende forma.

Nel dicembre 1918 avviene una prima partenza di “Figlie” verso Susa: inizia una coraggiosa storia di fede e di intraprendenza, che genera anche uno stile caratteristico, denominato “alla paolina”. Questo cammino sembra interrompersi nel 1923, quando Don Alberione si ammala gravemente e il responso dei medici non lascia speranze. Ma il Fondatore riprende miracolosamente il cammino: “San Paolo mi ha guarito” commenterà in seguito. Da quel periodo appare nelle cappelle Paoline la scritta che in sogno o in rivelazione il Divin Maestro rivolge al Fondatore: “Non temete — Io sono con voi — Di qui voglio illuminare - Abbiate il dolore dei peccati”.

L'anno successivo prende vita la seconda congregazione femminile: le Pie Discepole del Divin Maestro, per l'apostolato eucaristico, sacerdotale, liturgico. A guidarle nella nuova vocazione Don Alberione chiama la giovane Suor M. Scolastica Rivata, che morirà novantenne in concetto di santità.

Sul piano apostolico, Don Alberione promuove la stampa di edizioni popolari dei Libri Sacri e punta sulle forme più rapide per far giungere il messaggio di Cristo ai lontani: i periodici. Nel 1912 era già nata la rivista Vita Pastorale destinata ai parroci; nel 1921 nasce il foglio liturgico-catechetico La Domenica; nel 1931 nasce Famiglia Cristiana, rivista settimanale con lo scopo di alimentare la vita cristiana delle famiglie. Seguiranno: La Madre di Dio (1933), “per svelare alle anime le bellezze e le grandezze di Maria”; Pastor bonus (1937), rivista mensile in lingua latina; Via, Verità e Vita (1952), rivista mensile per la conoscenza e l'insegnamento della dottrina cristiana; La Vita in Cristo e nella Chiesa (1952), con lo scopo di far “conoscere i tesori della Liturgia, diffondere tutto quello che serve alla Liturgia, vivere la Liturgia secondo la Chiesa”. Don Alberione pensa anche ai ragazzi: per loro fa pubblicare Il Giornalino.

Si pone pure mano alla costruzione del grande tempio a San Paolo in Alba. Seguiranno i due templi a Gesù Maestro (Alba e Roma) e il santuario alla Regina degli Apostoli (Roma). Soprattutto si mira ad uscire dai confini locali e nazionali. Nel 1926 nasce la prima Casa filiale a Roma, seguita negli anni successivi da molte fondazioni in Italia e all'estero.

Intanto cresce l'edificio spirituale: il Fondatore inculca lo spirito di dedizione mediante “devozioni” di forte carica apostolica: a Gesù Maestro e Pastore “Via e Verità e Vita”, a Maria Madre, Maestra e Regina degli Apostoli; a San Paolo Apostolo. È proprio il riferimento all'Apostolo che qualifica nella Chiesa le nuove istituzioni come “Famiglia Paolina”. La meta che il Fondatore vuole sia assunta come il primo impegno, è la conformazione piena a Cristo: accogliere tutto il Cristo Via, Verità e Vita in tutta la persona, mente, volontà, cuore, forze fisiche. Orientamento codificato in un volumetto: Donec formetur Christus in vobis (1932).

Nell'ottobre 1938 don Alberione fonda la terza Congregazione femminile: le Suore di Gesù Buon Pastore o “Pastorelle”, destinate all'apostolato pastorale diretto in ausilio ai Pastori.

Durante la sosta forzata della seconda guerra mondiale (1940-1945), il Fondatore non si arresta nel suo itinerario spirituale. Egli va accogliendo in misura crescente la luce di Dio in un clima di adorazione e contemplazione. Ne sono testimonianza i Taccuini spirituali, nei quali Don Alberione annota le ispirazioni, i mezzi da adottare per rispondere al progetto di Dio. E in questa atmosfera spirituale nascono le meditazioni che ogni giorno detta ai figli e alle figlie, le direttive per l'apostolato, la predicazione di innumerevoli ritiri e corsi di esercizi (raccolti in altrettanti volumetti). La premura del Fondatore è sempre la stessa: far comprendere a tutti che “la prima cura nella Famiglia Paolina sarà la santità della vita, la seconda la santità della dottrina”. In questa luce va inteso il suo Progetto di un'enciclopedia su Gesù Maestro (1959).

Nel 1954, ricordando il 40° di fondazione, Don Alberione accettò per la prima volta che si scrivesse di lui nel volume “Mi protendo in avanti”, ed esaudì la richiesta di avere alcuni suoi appunti sulle origini della fondazione. Nacque così il volumetto “Abundantes divitiæ gratiæ suæ”, che viene considerato come la “storia carismatica della Famiglia Paolina”. Famiglia che andò completandosi fra il 1957 e il 1960, con la fondazione della quarta congregazione femminile, l'Istituto Regina Apostolorum per le vocazioni (Suore Apostoline), e degli Istituti di vita secolare consacrata: San Gabriele Arcangelo, Maria Santissima Annunziata, Gesù Sacerdote e Santa Famiglia. Dieci istituzioni (inclusi i Cooperatori Paolini), unite tra loro dallo stesso ideale di santità e di apostolato: l'avvento di Cristo “Via, Verità e Vita” nel mondo, mediante gli strumenti della comunicazione sociale.

Negli anni 1962-1965 don Alberione è protagonista silenzioso ma attento del Concilio Vaticano II, alle cui sessioni partecipa quotidianamente. Nel frattempo non mancano tribolazioni e sofferenze: la morte prematura dei suoi primi collaboratori, Timoteo Giaccardo e Tecla Merlo; l'assillo per le comunità estere in difficoltà e, personalmente, una crocifiggente scoliosi, che lo tormenta giorno e notte.

Egli visse 87 anni. Compiuta l'opera che Dio gli aveva affidata, il 26 novembre 1971 lasciò la terra per prendere il suo posto nella Casa del Padre. Le sue ultime ore furono confortate dalla visita e dalla benedizione del Papa Paolo VI, che mai nascose la sua ammirazione e venerazione per Don Alberione. Rimane commovente la testimonianza che volle darne nella Udienza concessa alla Famiglia Paolina il 28 giugno 1969, quando il Fondatore aveva 85 anni:

“Eccolo: umile, silenzioso, instancabile, sempre vigile, sempre raccolto nei suoi pensieri, che corrono dalla preghiera all'opera, sempre intento a scrutare i “segni dei tempi”, cioè le più geniali forme di arrivare alle anime, il nostro Don Alberione ha dato alla Chiesa nuovi strumenti per esprimersi, nuovi mezzi per dare vigore e ampiezza al suo apostolato, nuova capacità e nuova coscienza della validità e della possibilità della sua missione nel mondo moderno e con i mezzi moderni. Lasci, caro Don Alberione, che il Papa goda di codesta lunga, fedele e indefessa fatica e dei frutti da essa prodotti a gloria di Dio ed a bene della Chiesa”.

Il 25 giugno 1996 Papa Giovanni Paolo II firmò il Decreto con il quale venivano riconosciute le virtù eroiche del futuro Beato e  lo beatificò la II Domenica di Pasqua, 27 aprile 2003

 IL CORPUS DOMINI E IL SACERDOTE Riflessione di giugno 2021

 Gesù disse alla folla: «Io sono il pane vivo disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno; e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo». (Gv 6,51-58)

Domenica prossima 6 giugno, la Chiesa celebrerà la festa del Corpus Domini.

Questa festa nacque in Belgio nel 1246. Il suo scopo era quello di celebrare la presenza reale di Cristo nell’Eucaristia. L’introduzione di questa festività nel calendario cristiano si deve principalmente a santa Giuliana di Cornillon (o di Liegi), una monaca agostiniana vissuta nella prima metà del tredicesimo secolo. Da giovane ebbe una visione della Chiesa con le sembianze di una luna piena, ma con una macchia scura, a indicare la mancanza di una festività. In seguito, santa Giuliana ebbe un’altra visione, ma questa volta di Cristo stesso, che le chiese di adoperarsi affinché venisse istituita la festa del Santissimo Sacramento, per ravvivare la fede dei cristiani nell’Eucaristia ed espiare i peccati commessi contro questo sacramento.

Quando fu nominata priora del convento di Mont Cornillon, sostenuta dal suo direttore spirituale, il canonico Giovanni di Losanna, sottopose al vescovo la proposta di istituire una festa che celebrasse il Corpo di Cristo al di fuori della Pasqua. La proposta venne esaminata da diversi teologi e, nel 1246, la festa venne fissata da Papa Urbano IV per il giovedì dopo la solennità della Santissima Trinità.

A convincere il Pontefice della necessità di istituire questa festa fu, oltre alla proposta di Giuliana de Cornillon, il miracolo eucaristico di Bolsena. Nel 1245 Pietro da Praga, un sacerdote boemo, di ritorno da un pellegrinaggio a Roma, si fermò presso la chiesa di Santa Cristina a Bolsena per celebrare la messa. Mentre spezzava l’Ostia consacrata, fu colto dal dubbio dell’effettiva presenza di Cristo in quel pane consacrato. Mentre lo sfiorava questo dubbio, dall’Ostia stillarono alcune gocce di sangue che caddero sul corporale di lino e sulle pietre dell’altare. Il Papa allora mandò il vescovo di Orvieto a verificare l’accaduto e a recuperare il corporale e le pietre, che vennero deposte nel sacrario della cattedrale di Santa Maria ad Orvieto, e successivamente nel Duomo di quella città, costruito appositamente per ospitarle.

Il significato della festa del Corpus Domini è l’adorazione eucaristica. L’Eucarestia viene esposta, perché tutti possano dare prova della propria fede e della propria venerazione verso il Corpo di Cristo. Gesù ha offerto la Sua carne e il Suo sangue come nutrimento per tutti gli uomini, come strumento di salvezza e promessa di eternità.

In occasione del Corpus Domini, l’Ostia consacrata viene posta dentro l’arredo sacro, utilizzato proprio per contenere l’Ostia, chiamato “ostensorio”. Il sacerdote usa l’ostensorio per benedire i fedeli. L’adorazione eucaristica viene accompagnata in genere da una solenne processione che simboleggia Gesù che cammina tra gli uomini, attraverso le loro le strade.

Nell’omelia del Corpus Domini del 15.6.2006, papa Benedetto XVI diceva: «Il passaggio di Gesù fra le case e per le strade della nostra Città sarà per coloro che vi abitano un’offerta di gioia, di vita immortale, di pace e di amore. … già ora noi ascoltiamo la sua voce che ripete, come leggiamo nel Libro dell’Apocalisse: “Ecco, io sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Ap 3,20). La festa del Corpus Domini vuole rendere percepibile, nonostante la durezza del nostro udito interiore, questo bussare del Signore. Gesù bussa alla porta del nostro cuore e ci chiede di entrare non soltanto per lo spazio di un giorno, ma per sempre».

Nel suo “Piccolo Catechismo”, il santo Curato d’Ars spiegava ai fedeli: «Quando siamo davanti al SS.mo Sacramento, invece di guardarci attorno, chiudiamo gli occhi e la bocca; apriamo il cuore; il nostro buon Dio aprirà il suo; noi andremo a Lui. Egli verrà a noi, l’uno chiede, l’altro riceve; sarà come un respiro che passa dall’uno all’altro».

Chiediamo al Signore numerosi Sacerdoti assidui adoratori dell’Eucaristia e capaci di inculcare nei fedeli l’amore e la venerazione per questo augusto Sacramento.

San Charbel Makhlouf,

il padre Pio del Libano.

San Charbel Makhluf (della serie Sacerdoti santi) San Charbel nacque in Beqakafra, paese distante a 140 Km. della capitale del Libano, Beirut, il giorno 8 di maggio dell'anno di 1828; quinto figlio di Antun Makhlouf e Brigitte Chidiac, pia famiglia di contadini. Otto giorno dopo la sua nascita, ricevette il battesimo, nella chiesa del suo paese dedicata a “Nostra Signora”. I suoi genitori gli imposero il nome di Yusef.(Giuseppe)

Trascorse i primi anni della sua vita in pace e tranquillità, circondato dall’affetto della famiglia e soprattutto dalla devozione di sua madre, che per tutta la vita praticò con la parola e le opere la sua fede religiosa, dando un grande esempio ai suoi figli, i quali crebbero così nel santo timore di Dio.

Quando il bambino aveva solo tre anni, il padre fu arruolato dall'esercito turco, che combatteva in quel momento contro le truppe egizie e morì mentre ritornava a casa. Sua madre, passato po' di tempo si risposò con Lahhoud Ibrahim, uomo devoto e perbene, che successivamente riceverà il diaconato e poi, dato che l’uso orientale lo permette, sarà ordinato sacerdote, col nome di Abdelahad (corrispondente al nostro “Domenico”). Anche il padre acquisito fu d’esempio per Youssef, che lo aiutava sempre in tutte le cerimonie religiose, rivelando così una grande inclinazione alla vita di preghiera.

Imparò le prime nozioni nella scuola parrocchiale del suo paese, in una piccola stanza adiacente alla chiesa. All'età di 14 anni si dedicò a curare un gregge di pecore non molto lontano dalla casa paterna. In questo periodo si ritirava spesso in una caverna che aveva scoperto vicino ai pascoli e là passava molte ore a pregare, inginocchiato davanti a un’immagine della Vergine Maria. Qui iniziarono le sue prime e autentiche esperienze di preghiera.

Due suoi zii da parte di madre erano eremiti appartenenti all'Ordine Libanese Maronita, e da essi accorreva con frequenza, trascorrendo molte ore in conversazioni, riguardanti la vocazione alla vita monastica, che ogni volta gli appariva sempre più essere il suo ideale di vita.

All'età di 20 anni, Yusef è un uomo fatto e sostegno della casa. Sa che presto dovrà contrarre matrimonio, tuttavia, resiste all'idea e dopo tre anni di riflessione e preghiera decide di ascoltare la voce di Dio: "Lascia tutto, vieni e seguimi". Per timore di essere distolto dal suo proposito dall’affetto dei suoi, senza salutare nessuno, nemmeno sua madre, una mattina dell'anno di 1851 si diresse al convento della Madonna di Mayfouq, dove fu ricevuto prima come postulante e poi come novizio, facendo una vita esemplare sin dal primo momento, soprattutto riguardo all'obbedienza. Qui Yusef prese l'abito di novizio e rinunziò al suo nome di battesimo per scegliere quello di CHARBEL, che significa “racconto di Dio” o “storia di Dio”.

Passato qualche tempo fu trasferito al convento di Annaya, dove nel 1853 fece la sua professione perpetua come monaco. Subito dopo, l'obbedienza lo destinò al monastero di San Cipriano di Kfifen , dove oltre a studiare filosofia e teologia, faceva una vita esemplare soprattutto nell'osservanza della Regola del suo Ordine. Fu ordinato sacerdote il 23 luglio 1859 da Mons. Jose al Marid, sotto il patriarcato di Paulo Massad, nella residenza patriarcale di Bkerke. Dopo poco tempo dall’ordinazione sacerdotale il P. Charbel ritornò al monastero di Annaya per ordine dei suoi superiori. Lì passò lunghi anni, sempre come esempio per tutti i suoi confratelli nelle diverse attività, che svolgeva: l'apostolato, la cura dei malati, la cura di anime ed il lavoro manuale.

Tuttavia, egli desiderava ardentemente essere eremita, e per questo chiese l’autorizzazione al superiore, il quale, vedendo che Dio era con Lui, redasse l'autorizzazione il 13 di febbraio del 1875. Padre Charbel si ritirò nel vicino eremo di Annaya, situato a 1400 m. sul livello del mare dedicato ai santi Pietro e Paolo, dove si dedicò al colloquio intimo con Dio, perfezionandosi nelle virtù, nell’ascesi, nella santità eroica, nel lavoro manuale, nella coltivazione della terra, nella preghiera (Liturgia delle ore 7 volte al giorno), e nella mortificazione della carne, mangiando una volta al giorno e portando il cilicio. Qui rimase per il resto della sua vita.

Mentre celebrava la s. Messa in rito Siro-maronita, il 16 dicembre 1898, al momento della sollevazione dell’ostia consacrata e del calice con il vino mentre recitava la preghiera eucaristica, lo colse un colpo apoplettico; passò otto giorni di sofferenze ed agonia finché il 24 dicembre lasciò questo mondo.

Non lasciò nulla di scritto, ma alcuni mesi dopo la sua morte si verificarono alcuni fenomeni straordinari: la sua tomba iniziò a brillare e tra coloro che pregavano sul sepolcro del monaco, che trasudava sangue misto ad acqua, si moltiplicarono guarigioni inspiegabili, richiamando gente da tutta la vallata e di differenti religioni. A quel punto i monaci furono costretti a riesumarne il corpo, che venne trovato intatto e rimase morbido, conservando la temperatura dei corpi viventi, fino alla beatificazione. Il Papa Paolo VI lo beatificò nel 1965 durante la chiusura del Concilio Vaticano II.

Il 5 dicembre 1977 lo stesso Paolo VI, che lo proclamò santo, disse: «Un nuovo membro di santità monastica arricchisce con il suo esempio e con la sua intercessione tutto il popolo cristiano. Egli può farci capire, in un mondo affascinato per il comfort e la ricchezza, il grande valore della povertà, della penitenza e dell’ascetismo, per liberare l’anima nella sua ascensione a Dio».

A Padre Charbel sono attribuiti migliaia di casi di guarigioni. Uno fra i miracoli più famosi di San Charbel avvenne il 22 gennaio del 1993. In quella notte Nouhad Al-Chami fu guarita da un'emiplegia con doppia ostruzione alla carotide. I medici avevano detto chiaramente che le speranze che l'operazione potesse riuscire erano quasi nulle, così il primogenito dei 12 figli della donna si recò presso la tomba di San Charbel ad Annaya, pregando che la madre venisse guarita. Durante la notte lo stesso santo operarò la donna che la mattina seguente si svegliò con due cicatrici di 12 cm. I medici dell'ospedale di Beirut, togliendo i punti di sutura dal collo, dichiararono la guarigione e la notizia raggiunse tutto il Libano, tanto che il parroco ed il medico di famiglia suggerirono a Nouhad di allontanarsi da Annaya, ma San Charbel le riapparve in sogno dicendole: «Ti ho operata perché tutti ti vedano e la gente torni alla fede. Ti chiedo di partecipare alla messa presso l'Eremo di Annaya ogni 22 del mese».

Il monaco libanese eremita non si separava mai dalla figura della Regina del Rosario e la invocava giorno e notte. Un quadro era presente sull’altare dove celebrava la messa e un altro nella sua stanza dove la Madonna vegliava sul suo riposo. La devozione per la Madonna è una caratteristica dei cristiani d’Oriente e per tutta la vita San Charbel non smise mai di amarla con passione e di esortare tutti a votarsi a Lei. È stato il suo maestro teologo a trasmettere a San Charbel l’amore per la Madonna. Si tratta di San Nimatullah, uno dei quattro santi maroniti insieme a santa Rafqa e al beato Stefano. Sono quattro santi che rappresentano diverse vie di santità, perché ciascuno di noi ha una vocazione e ci sono diverse strade per diventare santi. Forte però era il loro legame con Maria e sia san Charbel che San Nimatullah dicevano che chi si consegna totalmente a Maria non conoscerà mai l’inferno». 

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