Verso la fine di ottobre del 1884, mio nonno, volendo menare una vita più tranquilla e non occuparsi più degli affari, contrattò con le Figlie del Sacro Cuore per la vendita della casa e campagna (queste Suore acquistarono tutto nel marzo del 1885). Quando il p. Ab. vide che le cose si stringevano e che i nonni si volevano stabilire a Frascati, temette per l’anima mia, ed un giorno chiamatami mi disse se volevo farmi religiosa. Io ricordai bene tutto quello che sempre le avevo detto, ma essendomi messa nelle sue mani dovevo ritenere che Iddio lo ispirava, quindi risposi: “Sto nelle sue mani, sì, mi ci fo”. Egli allora andò in Roma e dopo due giorni mi disse che aveva trovato le Suore della SS.ma Concezione, dette volgarmente Sepolte Vive; mi descrisse la vita, io accettai e dissi che andava bene. Il p. Ab. allora mi ordinò di manifestare la mia risoluzione a mia madre. Quella mattina stessa lo feci, ma quanta pena provai nel vedere mia madre inquietarsi fortemente! Il nonno e lo zio rimasero molto dispiacenti, e dopo aver inutilmente adoprati tutti gli argomenti per farmi desistere dalla risoluzione, presero verso di me un atteggiamento disprezzante e non curante, non permisero più che io stessi vicino a loro nel tempo dei pasti, ma sì bene all’ultimo posto della tavola e mi davano a mangiare quello che avanzava; il mio cuore era molto addolorato, ma non già abbattuto. Il Signore mi ricolmava l’animo di ineffabili consolazioni, e nei momenti in cui più afflitta andavo ai suoi piedi, Egli mi si presentava col suo Cuore trafitto ed allora dimenticavo le mie pene per occuparmi del Cuore trafitto di Gesù! Mi presentai dalle Sepolte Vive, e queste benché consapevoli dello stato di mia salute mi accettarono e fu combinata la mia entrata il 2 febbraio.

Il 31 gennaio 1885 andai nelle ore pom. a confessarmi dal p. Ab., lo ringraziai della bontà e pazienza avuta verso l’anima mia, intesi i suoi consigli e poi mi licenziai da lui. Il mio cuore soffrì, ma offrii tutto al Signore.

La mattina del 1° febbraio mia madre volle assistere con me alla Messa del p. Ab. e terminata che fu, credendo farmi piacere, mi esortò di andare nuovamente a salutare il p. Ab. Ed io le risposi: “Ieri l’ho salutato, basta”. Tornata in casa abbracciai con tanto affetto la nonna ed il mio caro fratello che piangeva, il nonno e lo zio non vollero abbracciarmi né risposero al mio saluto, piangevano: la mamma e la sorella Adele mi accompagnarono in Roma; arrivata volli andare subito al monastero, e le Suore pregarono mammà di farmi subito entrare senza attendere l’indomani, la mamma acconsentì, però mi volle ritenere con sé alcune ore nelle quali mi procurò molte distrazioni, sperava farmi cambiare idea, ma fu inutile, perché alle 4 pomeridiane io entrai risoluta. Il mio cuore soffrì molto nel dividermi, ma mi consolavo pensando che mi davo a Dio; entrai dunque il 1 febbraio 1885.

1885

Entrata dalle Sepolte Vive, ed accolta in clausura da tutta la comunità, fui condotta dalla maestra ed abbadessa al parlatorio per salutare mia madre e la sorella. Questo saluto fu da mia parte molto breve, sia per non accrescere la pena a mia madre, come anche perché io sentivo molto, in quel momento. Lasciata mia madre, fui condotta a salutare una vecchia infermiera, indi le sorelle converse, poi andai in cella, ove la maestra mi lasciò sola, per tre quarti d’ora all’incirca. Ricordo che la prima cosa che feci fu di pormi in ginocchio e promisi al Signore di essere fedele, di amarlo tanto, e di farmi santa, nel fondo del mio cuore intesi una voce che mi disse che lì ero entrata per apprendere la vita religiosa, ma non per restarci. Questo mi sconcertò un poco, perché ero entrata col proposito di morire lì dentro, temendo però che fosse una tentazione, scacciai quel sentimento né mi fermai a considerarlo, però rimase impresso nel mio cuore. Baciai la croce che stava ai piedi del letto, indi, dato uno sguardo alla cella, rinvenni la più stretta povertà: un paglione per letto, una vecchia sedia, un tavolino di legno bianco, tarlato e vecchio, una grande croce di legno, e un teschio da morte. Il mio cuore si intese ben contento, ero povera per amore del Signore e questo era molto per me. Posai i miei sguardi su di una tabella appesa al muro e lessi: Sedebit solitarius et tacebit – levavit super se. Ne compresi il senso e ci pensai sopra; indi mi posi a leggere le costituzioni e mi proposi di leggerne un punto ogni sera e di essere fedele ad esse.

Tornata la maestra mi condusse in giardino (credo) o in altro posto, nello scendere le scale mi voltai alla maestra e le dissi: “Madre, io sono entrata con l’idea di farmi santa, quindi mi metto nelle sue mani”. Ricordo che la maestra si commosse e mi promise che mi avrebbe aiutata. Temendo l’abbadessa e vicaria che la vista della loro povertà, nel refettorio, mi avrebbe fatto troppa impressione e sgomentato il mio spirito, mi fecero per quella sera cenare in noviziato. Dopo la refezione la maestra mi condusse in cella ove mi lasciò. Letto un punto delle regole andai a letto. Il mio cuore era molto contento, mi sentivo pienamente tranquilla e mi addormentai col pensiero risoluto di amare tanto Iddio e di farmi santa. Nel corso della notte mi svegliai tutta agitata, né mi potevo render ragione di tale agitazione, né mi riuscì di prender sonno, passai un poco di tempo così, quando all’angolo della cella, vicino alla finestra vidi una luce rossastra e dal mezzo di questa luce si staccò un essere, come fosse stata una persona e si avvicinò a me. Io la vidi col volto tutto contratto dalla rabbia, quando fu ben presso di me, mise l’indice a traverso della sua bocca e mordendosi il dito, mi disse, minacciandomi con la mano: “Me la pagherai”. Poi più non vidi nulla e nella cella restò una completa oscurità. Il mio animo rimase scosso, agitato, e nel mio intelletto si fece una grande oscurità e confusione. La mattina non dissi nulla alla maestra; questa mi ordinò di andarmi a confessare per poi fare la Comunione. Abituata a tutto riferire, raccontai al confessore quello che mi era accaduto durante la notte e lo stato di animo in cui mi aveva lasciata quella vista. Il confessore mi ascoltò, mi disse che era una fantasia, indi si fece una buona risata e aggiunse che io non ero per quel monastero, che non ci sarei durata, stante che ero troppo signorina, e occorreva per quella vita una salute da contadina ecc. Come rimasi a quel parlare, non sono capace di dirlo, con tutto ciò, mi affidai al Signore e rinnovai la risoluzione di farmi santa; nel mio animo tornò la calma e tranquillità. La notte seguente fui nuovamente svegliata e come la notte avanti mi si presentò quel medesimo essere. Sembrava più furibondo e mi disse: “Se non desisti dalle tue risoluzioni e dalla via intrapresa, ti farò vedere”: ed appressandosi a me fece atto come se mi avesse voluta strozzare, ma non mi toccò, io allora invocai la Madonna, chiamai il Signore in mio aiuto e mi feci il segno della croce; quell’essere sparì e più non lo vidi; però nel mio animo rimase lo sgomento e quasi sarei tornata volentieri in casa, ma nella preghiera ritrovai il coraggio e la forza.

Erano passati tre o quattro giorni, e la maestra venne a dirmi che se desideravo scrivere al p. Ab. la madre abbadessa mi avrebbe dato licenza. Io veramente lo desideravo tanto, ma risposi che nelle costituzioni avevo letto che alle probande e novizie non era permesso di trattare con altri ecclesiastici, all’infuori del confessore della comunità, quindi desideravo fare quanto la regola prescriveva: le feci anche notare che avendo io già fatto il sacrificio al Signore, non era bene che io lo avessi ripreso. La maestra mi disse che essa riteneva che il Signore voleva che l’anima mia fosse diretta dal p. Ab. perché l’abbadessa, prima della mia entrata in religione, si era intesa di domandare al Cardinale una dispensa su questo punto e che il Cardinale aveva acconsentito che fossi diretta dal p. Ab. Assicuratami che in tutto questo io in nulla ci entravo, obbedii e scrissi al p. Ab. Intanto, quell’essere (che io poi ho ritenuto per il demonio) proseguiva a venire ogni tanto; nel mio animo entrò una angustia grande, sentivo un forte aborrimento al monastero, mi sembrava di stare in un carcere, non sapevo più pregare e tentazioni di disperazione si succedevano ai sentimenti di scoraggiamento.

Il confessore non mi aiutava punto, e bene spesso quando gli parlavo dello stato dell’anima mia mi rispondeva in versi declamando (questi poi è morto al manicomio). Avrei aperto il mio cuore alla maestra, ma mi riteneva il pensiero di sbagliare quindi non avevo altro rifugio che sostenermi a quei principi di fede che il p. Abate mi aveva insinuati. Finalmente, dopo una mia seconda lettera il p. Ab. mi rispose e facendomi conoscere la bellezza dello stato religioso mi incoraggiò alla perseveranza ed aggiunse: “Vi esorto di baciare con trasporto le mura della vostra cella, amata prigione che vi divide dal mondo”. Io lessi con fede quella lettera, mi posi, poi, ai piedi della croce e rinnovai i miei propositi, indi baciai le mura della cella dichiarandomi contenta di morire in quella prigione. Il Signore sempre buono mi consolò subito, dal mio cuore partì ogni angustia, ogni tentazione, e tornai nella solita calma e tranquillità, né mai più provai simili angustie e tentazioni.

Venne un giorno a trovarmi il p. Ab., allora io le raccontai minutamente le brutte visite di quell’essere che la notte mi si presentava e lo sgomento che rimaneva nell’animo mio, Egli mi rispose che quello era il demonio, ma che non dovevo temere, avessi preso l’acqua santa ogni qualvolta questi tornava. Io obbedii e la prima volta che tornò a minacciarmi, mi voltai per prendere l’acqua benedetta, ma quel cattivo essere me lo impedì e mi atterrì tanto che rimasi abbattuta nelle forze. Tornato il p. Ab. le raccontai tutto ed Egli mi rispose che dovevo obbedire, ed io allora risolsi di non farmi sopraffare ed infatti mi riusciva di prendere l’acqua santa e farmi la croce, il cattivo essere allora mi lasciava; vedendo che questo mi giovava ogni sera prima di pormi in letto benedicevo con l’acqua benedetta la cella ed il letto dicendo queste parole: “In nome di Gesù Cristo e della Madonna e per ordine dell’Abate, brutta bestia non venire a tormentarmi”. In questo modo restai libera; quando riparlai con il p. Ab. gli dissi ogni cosa ed Egli mi inculcò di benedire il letto e la cella in quel modo tutte le sere, e così ho proseguito fino a due anni fa; ma non sempre mi giovava.

Io proseguii a pregare nello stesso modo come stavo fuori, ed il Signore mi riempiva il cuore di grandi consolazioni. Bene spesso alla meditazione il mio animo era attirato a Dio ed allora io non avevo altro pensiero che quel soggetto che mi si presentava alla mente e che occupava tutti i miei sentimenti. Tali soggetti erano sull’amore di Gesù Eucaristia oppure sul Cuore trafitto di Gesù. Il sentimento delle sofferenze del Cuore di Gesù era molto profondo in me e da questo sentivo che sorgeva sempre più nel mio animo il desiderio di portare anime al Signore. Nel mio cuore sentivo crescere l’amore verso il Signore e sentivo che il mio cuore era troppo piccolo per poter contenere quello che sentivo, ed era allora che io soffrivo molto perché il mio cuore si sentiva languire d’amore. Un giorno venne il p. Abate con Mgr Vescovo Contieri (12) , il p. Ab. mi ordinò di aprire a Mgr tutto il mio cuore, io lo feci, ma molto mi costò, perché mi ripugnava, però dissi tutto e soprattutto mi dilungai sul Cuore trafitto di Gesù e sulla spina che in modo speciale lo trafiggeva. Feci anche conoscere la difficoltà che provavo ad uniformarmi alla meditazione della comunità, Mgr mi rispose che avessi seguito la meditazione della Comunità, ma quando il mio spirito sì sentiva attratto da Dio fossi andata con semplicità dietro al Signore, indi mi ordinarono di dipingere il Cuore di Gesù come mi si presentava con quella spina. Mi fu data anche la licenza di aprire il mio cuore alla maestra che era ed è di soda virtù, e col confessore della comunità attenermi alla confessione sola.

Per quanto la mia volontà fosse risoluta di adattarmi in tutto alla comunità, il mio fisico non ce la faceva e dopo ogni atto comune ero costretta a mettermi sul letto perché ero molto affaticata. La maestra e Madre Vicaria mi volevano molto bene, quindi fra giorno mi facevano prendere cose di sostanza e cercavano sostenermi quanto più potevano, ma io ero molto debole. La Vicaria per essere più libera a curarmi mi prese con sé nell’ufficio di speziale, la comunità non sospettò del fine per cui la Vicaria mi voleva in questo ufficio, e venni così pian piano a riprendere le mie forze. Essendo speziale le religiose e le converse trattavano spesso con me e cominciarono a pormi affetto specialmente qualcuna. Allorché vi erano malate la maestra mi conduceva da queste, e mi mandava dall’infermiera, per aiuto, per vestire le religiose dopo la loro morte. Mi fu fatto successivamente passare alla “panneria”, in sacrestia, al suono delle ore per regolare gli atti comuni, in dispensa, tutte queste cose le facevo con vero amore, e cercavo in tutto piacere al Signore.

In questo frattempo, cominciai nell’orazione avere idee più chiare dell’opera, le idee dello spirito di essa mi si presentavano all’intelletto molto nette. Io però allontanavo da me queste idee, perché temevo che fomentandole o ritenendole in testa ero infedele alla mia vocazione di sepolta viva, ma certe volte il mio intelletto era talmente assorto in questa idea, che terminava l’ora di orazione senza che io me ne accorgevo. Di queste mie idee, ne facevo partecipe il solo p. Ab.; alla maestra nulla dicevo, temevo di arrecarle dispiacere. Però queste idee non mi producevano disamore o pentimento per avere abbracciata quella vita religiosa. Io pensavo che ovunque avrei potuto consolare il Cuore di Gesù, e questo mi teneva tranquilla. Debbo però dire che nel fondo del mio cuore vi era un gran desiderio che qualcuno avesse cominciata l’opera, perché l’idea di dare anime a Gesù, e che queste con imitare la vita di G.C. ed unirsi ed offrirsi con Lui quale Vittima di riparazione e di olocausto alla giustizia del Divin Padre, specialmente per le offese che riceve dalle persone a lui consacrate, mi attraeva lo spirito e mi sembrava che il Cuore trafitto di Gesù venisse consolato, vedendo attorno a sé anime con tale spirito. Un giorno stando attorno a Gesù Sacramentato (ero allora sacrestana) e trattando con Lui familiarmente, intesi che Gesù mi chiedeva 12 vittime che si fossero offerte con lui alla giustizia del suo Divin Padre e richiese che questa offerta ciascuna la facesse con il proprio sangue.

Ricordo che alla maestra non lo dissi subito; però questa richiesta mi penetrò fortemente nel cuore, io non ci avevo mai pensato, perciò mi piacque, ma volli attendere il p. Ab. perché temevo di un inganno. Quando venne il p. Ab. io le raccontai la pena che sentivo per il Cuore trafitto di Gesù, le palesai quanto avevo inteso che il Signore mi richiedeva e le esposi bene ogni cosa cioè: come queste anime dovevano col proprio sangue offrirsi, insieme al Cuore Eucaristico di Gesù, vittime d’impetrazione e di olocausto innanzi alla giustizia del Divin Padre. Lo pregai anche che avesse lui scelto le anime e mi raccomandai che queste appartenessero allo stato ecclesiastico – religioso – madre di famiglia – e giovanette. Le dissi allora che il giorno della festa del Cuore di Gesù, che in quell’anno cadeva il 12 giugno, avesse chiesto alla Madre abbadessa di celebrare nel monastero la S.ta Messa ed Egli portando le 12 offerte sul petto le avesse offerte a Gesù, allorché lo aveva fra le sue mani, affinché unite a lui ed ai suoi meriti le presentasse al suo Divin Padre. Il p. Ab. volle che anch’io mi offrissi vittima ed io obbedii, ma alla mia volta pregai che anche lui si offrisse con noi, ed Egli accettò. Le altre vittime furono: D. Teodoro Merluzzi, monaco basiliano e maestro dei Novizi, morto in buon concetto – D. Flaviano, uno dei giovani professi dei monaci Basiliani, anche lui è morto – Fra Silvestro, una santa anima, fratello converso dei monaci Basiliani, e presentemente quasi sempre malato – Teresa Magarelli sposata a Grossi Gondi, vera e santa madre di famiglia – Caterina Magarelli poi sposata a Selcio – una religiosa Orsolina che conosco ma non ricordo il nome – la mia maestra delle Sepolte Vive – Suor M. Stanislaa religiosa delle suore di Santa Maria dell’Orto, morta in concetto di santa – Teresa Canestri che fece parte dell’opera – Lucia Tiberi, zia di Mitissimo, anima molto interna e stimata da Mgr Contieri.

Il 12 giugno il p. Ab. con le dodici offerte ascese all’altare; non so dire quanto il mio cuore fu contento, pensavo che consolavasi il Cuore di Gesù vedendo adempiuto un suo desiderio. Appena il p. Ab. salì i gradini dell’altare, venne un fortissimo temporale, caddero dei fulmini attorno al monastero, il coro tutto era scosso e le invetriate facevano un fracasso, le religiose stavano tutte impaurite; quando fu terminata la Messa cessò subito il cattivo tempo e tornò il sereno e la calma. Tutto questo io poco l’avvertii, il mio pensiero era rivolto a Gesù e all’offerta delle 12 Vittime. Poi il p. Ab. me lo disse, ed io risposi e pensai che era stato il demonio. La sera, insieme alla mia maestra bruciammo le 12 offerte che il p. Ab. mi aveva consegnate affinché le bruciassi io. Dopo questa offerta il mio cuore si intese più unito al Signore e nell’orazione mi trovavo, o meglio dire, mi sentivo tirata da Dio. Procuravo di essere molto esatta nell’osservanza e cercavo di esercitarmi in atti di umiliazione nel pubblico refettorio, evitavo qualunque mancanza volontaria e nel mio poco cercavo consolare Gesù. Il p. Ab., dietro il disegno da me fatto, mi fece fare, dal suo zio Silvio Capparoni, pittore, un Cuore di Gesù e me lo donò, la maestra mi permise di tenerlo presso di me, in cella.

Ricordo che nel giorno dell’Ascensione di N.S. essendomi la mattina molto internata in questa considerazione stavo con il cuore commosso; nel tempo del pranzo fui mandata sul pulpito a fare la lettura e questa era appunto sull’Ascensione, io m’internai nuovamente a quel mistero ed allorché arrivai al punto che Gesù coperto da una nuvola rimase nascosto agli occhi degli Apostoli e discepoli ecc. io mi intesi tanta pena pensando alla pena che quegli avranno avuto nel non avere né vedere più Gesù, che cominciai a piangere fortemente e mi convenne scendere dal pulpito. Dopo mi vergognai tanto.

Nel giorno di Pentecoste stando a recitare in coro le ore di prima e terza, il mio spirito si intese attratto a Dio, ed in quel giorno per la prima volta nel mio intelletto si presentò il pensiero dell’onnipotenza e grandezza di Dio; io mi intesi sopraffare da esso, ed agli occhi miei mi vidi tanto meschina e povera e mi intesi inabissata nel mio nulla, avanti a tanta onnipotenza, che rimase in me un ricordo vivo. D’allora in poi il pensiero di Dio e delle sue perfezioni cominciò ad essermi più frequente e molte volte il mio intelletto restava assorbito, nel tempo dell’orazione, in questo pensiero.

In questo turno di tempo, mi affezionai in modo troppo umano alla maestra delle novizie. Le sue premure, la sua dolcezza, le sue virtù mi allacciarono il cuore ed io le posi un affetto molto grande. Il Signore però non ne era contento e mi faceva dei grandi rimproveri e minacce, ma io non sapevo come fare per distaccarmi da essa. Il p. Ab. mi avvisava, non solo, ma mi minacciò per la professione. Ricordo che spesso mi chiudevo in cella e prostrata con la fronte per terra, ai piedi della croce, piangendo domandavo perdono al Signore, protestavo di voler troncare ogni affetto dal cuore, di voler amare lui solo, le mostravo la mia debolezza, risolvevo, ma che! Appena rivedevo la maestra il mio cuore ne faceva una delle sue. Quanta lotta nell’intimo del mio cuore provai in quel tempo! Non volevo posporre le creature a Dio, sentivo che il Signore esigeva tutto il mio affetto, ma non riuscivo ad essere superiore ad un affetto così umano.

Lottai lungamente, ma alla fine riuscii a riportare vittoria, e cominciai ad amare la maestra con un affetto meno umano e più puro.

Nel mio cuore nel tempo dell’orazione si succedevano le idee e i pensieri dell’opera e passavo l’ora di meditazione con l’animo assorto in Dio e provavo grandi consolazioni da cui sentivo sorgere un forte desiderio di portare anime a Dio. Il pensiero del Cuore trafitto di Gesù occupava spessissimo tutto l’animo mio, e la pena mia più grande era di vedermi impotente a poter consolare il Cuore trafitto di Gesù unico oggetto del mio amore. Un giorno il p. Ab. mi donò una immagine del Cuore di Gesù, senza effige. Egli l’aveva fatta dipingere dal suo zio Capparoni. Non so esprimere quello che provai nell’avere tra le mie mani quel Cuore così trafitto. Lo tenni presso di me nella cella, e spesso restavo del tempo a mirare quella cara immagine, i lamenti di cui penetrarono un giorno tanto nel mio cuore. Però i pensieri e le idee dell’opera, che si succedevano nel mio cuore, mi misero in pensiero che essi fossero contrari alla mia vocazione di sepolta viva. Un giorno parlando con la maestra, appena le accennai di volo le idee che mi venivano sull’opera, la maestra mi rispose che era una tentazione la mia, e che il demonio mettendomi quelle idee per la testa cercava di disgustarmi della mia vocazione, e mi consigliò di tutto disprezzare e non pensarci sopra. Io obbedii, le idee venivano, ma io tutto disprezzavo, come si disprezzano le tentazioni.

In questo frattempo mia sorella Adele entrò dalle Sepolte Vive come probanda. Intanto andava avvicinandosi il tempo della mia vestizione, la salute però lasciava molto a desiderare. Ricordo che spesso mi mettevano dei vescicanti, ma siccome ciò le superiori lo facevano all’insaputa della comunità, così dovevo seguire tutti gli atti comuni in quello stato. In queste condizioni fisiche dimandai il S.to Abito. Io ero ben felice potere indossare l’abito religioso, e benché le idee dell’opera stavano nel mio cuore pure queste non mi procurarono mai il minimo disgusto della mia vocazione. Il 2 febbraio, un anno dopo la mia entrata in religione, presi l’abito di novizia. Mgr Accoramboni fece la funzione ed il p. Ab. fece il discorso di circostanza. Mi fu posto il nome di Sr. Maria Serafina del Cuore di Gesù trafitto, nome che la comunità volle darmi. Indossato il santo abito ben compresi che dovevo essere più buona, non solo, ma anche dovevo meglio sacrificarmi e distaccare il mio cuore dalle creature per essere meglio di Dio.

Per lo stato della mia salute non potevo fare le mortificazioni esterne, quindi procurai rimediare con ubbidire più perfettamente, con cercare le cose più povere per mio uso, con distaccarmi da tutto, ed in modo particolare intesi nel mio cuore di operare con più purità d’intenzione, infine cercai nel mio poco seguire l’impulso che il Signore mi dava. Nella recita dell’ufficio divino io provavo delle grandi consolazioni, e benché il latino non lo capivo, né lo capisco, pure bene spesso il mio pensiero restava preso da qualche antifona o versetto dei Salmi, in modo che lo spirito mio assaporava quanto è dolce parlare a Dio per mezzo dei Salmi. Non ricordo di aver provato delle forti sensazioni tranne i primi giorni che entrai, come ho detto nella prima relazione. Per lo più la pace risiedeva nel mio animo, e una cosa sola sentivo forte cioè: amare tanto Iddio, consolare il Cuore trafitto di Gesù.

Stavo un giorno (perché ero sacrestana) attorno al Sacramento e trattavo alla familiare con Gesù, il quale versava nell’anima mia delle grandi consolazioni. Sentivo il bisogno di fare qualche cosa per il caro Gesù che tanto attirava l’anima mia; quando intesi che Gesù mi domandò 12 anime che si fossero insieme a lui offerte Vittime innanzi alla giustizia del Divin Padre, e richiese che ciascuna avesse fatto questa offerta con il proprio sangue. Io restai molto sorpresa, di questa richiesta, perché non ci avevo mai pensato, e questa richiesta fu sì penetrante nel mio cuore, che io promisi al Signore di fare tutto quello che potevo per contentare il suo desiderio. Ne parlai alla maestra e decidemmo di attendere la venuta del p. Ab. infatti questi venne a farmi visita ed io con schiettezza le dissi ogni cosa, le mostrai il desiderio che sentivo nel cuore di contentare il Signore e la pena che provavo per il Cuore trafitto di Gesù, infine lo pregai di occuparsi lui a trovare 12 anime per offrirsi vittime con Gesù e aggiunsi che le avesse scelte, fra i Sacerdoti, laici, madri di famiglia e giovani.

Il p. Ab. accettò l’incarico che io le detti, ma mi ordinò di essere anch’io una delle 12 vittime. Io obbedii, però pregai dal mio canto il p. Ab. di offrirsi anche lui, ed Egli acconsentì. Il 12 giugno il p.Ab. portando sul petto le 12 offerte ascese all’altare, ed offrì queste 12 vittime al Cuore trafitto di Gesù. Ero molto contenta di avere almeno in una cosa appagato il desiderio del Cuore di Gesù. Durante la S. Messa ci fu un forte temporale, esso cominciò appena il p. Ab. ascese i gradini dell’altare, ad un tratto il tempo si abbuiò e durante la Messa caddero sui d’intorni del monastero vari fulmini, e tale fu il fracasso che le invetriate tutte del coro si scuotevano, le religiose ebbero molta paura. Appena terminata la Messa tornò il sereno e la calma. Dopo il p. Ab. mi parlò del temporale ed io pensai e dissi che era stato il demonio.

Dopo quest’offerta nel mio cuore crebbe un amore più forte verso il mio Dio, ricordo che spesso dicevo al p. Ab. (non sapendomi esprimere meglio) che io sentivo nel mio cuore il desiderio di sperdermi in Dio come una goccia d’acqua si sperde nell’oceano, altre volte le dicevo che io volevo unirmi a Dio come l’acqua si unisce al vino, queste espressioni mi venivano perché il mio cuore sentivasi desideroso di Dio. Mi trovavo felice solo quando potevo rinnegare la mia volontà o sacrificarmi un poco.

Uno dei pensieri che allora più m’impensierivano era questo, io pensavo: “Quando sarò sortita dal noviziato potrò io stare così ad una ubbidienza immediata come nel noviziato?” e mi sembrava che se io non fossi stata sempre sotto all’obbedienza il Signore non era contento, né io avrei potuto fare molto avanzamento nell’amor di Dio, perché un piccolo che, che facevo di mia volontà provavo tanti rimorsi perché sentivo che il sacrificio di tutta me non era perfetto.

Stetti nel noviziato 10 mesi e andavo cercando di piacere al Signore levando piano piano quelle cose che non erano conforme all’esercizio della virtù. In quel turno di tempo, sotto la protezione del Cardinal Vicario Lucido Maria Parocchi, si doveva in Roma, iniziare un’opera simile a questa nostra da una certa Maria Rosaria nativa di Martinafranca. Il p. Ab. che sapeva le mie idee ne parlò al Cardinale, questi rispose: “Teresa sta bene dove sta, la lasci professare, se Iddio la vuole penserà da sé a farla uscire”. Il p. Ab. non replicò. Egli a mia insaputa aveva parlato al Cardinale, sperando che questi, prima di farmi emettere i voti, gli avesse detto di farmi sortire, tanto il p. Ab. mi disse venendomi a trovare. Risposi al p. Ab. che quelle anime le invidiavo perché essendo le prime pietre avrebbero avuto molto da soffrire, però io non avevo rammarico alcuno di professare, che ero convinta che Iddio mi voleva lì; del resto ero contenta che l’opera cominciasse e che il Cuore di Gesù venisse consolato, ottenuto questo che dovevo desiderare o volere di più?

Intanto il mio fisico si andava sempre più deperendo ed ero ridotta a sforzarmi molto a stare in piedi. Malgrado il mio male, non mi passava mai per la testa che sarei stata mandata via, io consideravo quel convento come casa mia ed avevo in esso e a tutte le religiose posto un vero affetto. Un giorno stando in mezzo al coro a cantare le litanie con un’altra novizia, intesi nel cuor mio una voce che mi disse: “Presto uscirai di qui”; fu tale l’impressione e la pena che ebbi che scoppiai in un dirotto pianto né potetti più proseguire a cantare. Fui condotta, dalla maestra, al noviziato ove giunta mi domandò la causa del mio pianto così veemente. Io risposi che la causa di questo pianto era stata la voce che nel mio cuore avevo inteso e le raccontai tutto; la maestra mi tranquillizzò ed io mi quietai. Non erano passati che pochi giorni da questo, e stando a leggere nel refettorio in tempo della mensa la stessa voce si fece risentire nel mio cuore.

Quel giorno terminavo di leggere le regole e la voce mi disse al cuore: “Questa è l’ultima volta che le leggi, presto sortirai”. Io sospesi la lettura e cominciai a piangere proprio di cuore; mi fecero scendere dal pulpito ed io schiettamente ripetetti alla maestra ed abbadessa quello che mi era accaduto, fui anche questa volta rassicurata ed io mi tranquillizzai.

Intanto mia madre venne a sapere lo stato di mia salute e fortemente s’inquietò, e volle un consulto medico. Io di tutte le inquietudini di mia madre nulla seppi perché la maestra mi tenne tutto nascosto. Un giorno fui chiamata all’infermeria e trovai tre dottori che erano venuti per un consulto, fui visitata accuratamente; ricordo che un dottore, fingendo di visitarmi, in un momento che le religiose assistenti si erano discostate, mi strinse fortemente la mano e mi disse: “Sorta che questo monastero non è per lei”. Non so dire come rimasi. Il risultato del consulto medico fu che trovarono in me il terreno preparato per una tubercoli, con febbre intermittente. Per allora però io non seppi altro che i medici avevano ordinato una cura ricostituente; infatti mi furono dati cibi differenti dalla comunità, e fui in parte assentata dagli atti comuni, ma non in tutti (in questo tempo mia sorella venne meno alla sua vocazione e tornò in casa).

Io passavo fiduciosa i giorni e stavo tranquilla; di tanto in tanto dicevo alla maestra che avesse detto alla comunità che se loro avevano difficoltà a tenermi in religione, causa la mia salute, io ero pronta occuparmi in uffici che non avevano contatto con le religiose e mi offrii di attendere al gallinaio e ad altro che non ricordo. Un giorno nelle ore antimeridiane fu dato il segno per il capitolo, la maestra ci ordinò di ritirarsi ciascuna nella propria cella, ed Ella andò al capitolo. Sola nella cella mi posi vicino alla finestra a guardare un poco il cielo, indi messami in ginocchio ai piedi della croce feci un atto di abbandono di tutta me nelle mani di Dio, e le feci l’offerta della vita religiosa che tanto amavo, e ricordo che piangendo, ma con tutto il cuore, dissi: “Signore, eccomi qui, fate quello che volete di me, se mi volete rimandare dalla vostra casa, vado, se volete ritenermi, resto e vi servirò”.

Fatta questa preghiera rimasi tranquilla, ed una pace profonda scese nel mio cuore. Dopo alcun tempo la maestra tornò al noviziato, si sentiva male e si mise a letto. Io le fui attorno. Passato qualche giorno, la maestra verso sera venne da me in cella e cominciò a parlarmi che bisognava che sortissi ecc., io nel modo come parlava la maestra presi la cosa, come se fosse stato un ordine del governo e dimenticando me stessa cominciai a prendermi pena per quelle Suore e converse che da poco avevano emessi i loro voti. Dietro questo mio parlare la maestra mi fece capire che si trattava di me e non delle altre, allora capii tutto, ebbi molta pena e pena tale che non so descrivere, ma avevo fatto il sacrificio al Signore potevo forse lamentarmi? Perciò quando fui sola in cella mi prostrai nuovamente ai piedi della croce e rinnovai il mio atto di abbandono. I giorni che rimasero li passai facendo continui atti di rassegnazione nell’interno del mio cuore. Il 2 dicembre mia madre venne a prendermi; allora io per l’ultima volta mi prostrai ai piedi della croce, promisi al Signore di far bene il sacrificio e di non abbandonarmi al pianto e alle sciocchezze, indi mi tolsi l’abito religioso, lo baciai e lo deposi sopra il letto, e vestitami degli abiti secolari mi presentai alla maestra. Confesso che la mia volontà era pronta e voleva far bene il mio sacrificio, ma il mio cuore era lacerato.

Ricordo che mi venne in quel momento doloroso questo pensiero: “Ecco che sono le creature, solo Iddio è fedele”... Questo pensiero mi spinse a posare il mio cuore più a Dio che alle creature. Condotta dalla abbadessa, Vicaria e maestra, alle quali la sera antecedente avevo domandato perdono e ringraziato di tutto, le abbracciai, e salii in legno ove trovai la mamma ed il nonno che piangevano di consolazione per riavermi con loro e mi ricoprivano di abbracci ai quali corrisposi. Sortii il giorno di venerdì.

Tornata in famiglia, che allora risiedeva in Frascati, fui subito circondata da affettuose cure. Il dottore di famiglia mi sottopose subito ad una energica cura di nutrimento e dopo quindici giorni mi trovai di molto migliorata. Quando fui migliorata, mia zia Filomena mi accompagnò dal p. Ab. Nel sortire dalle Sepolte Vive la maestra mi aveva donato alcuni suoi ricordi, più tenevo presso di me delle lettere del p. Ab. e alcuni miei scritti. Sentendomi spinta ad essere più povera e temendo che in tutte queste cose ci fosse un poco di affetto da mia parte, le portai al p. Ab. e consegnandogliele le dissi: “Che non volevo tenerle presso di me, volendo avere il cuore libero di tutto”.

Col p. Ab. combinai che appena la Poveretta, Maria Rosaria avesse aperto l’opera io ci avrei preso subito parte. Non potendo per la mia salute fare delle mortificazioni esterne, domandai al p. Ab. il permesso di alzarmi tutte le notti e per un’ora prostesa lunga per terra con le braccia in croce fare l’orazione. Il p. Ab. me lo concesse. Il giorno poi passavo molto tempo in chiesa nella parrocchia di S. Rocco. Ivi vi era una cappellina dedicata al Cuore di Gesù, ma era tenuta in uno stato di vero deperimento, con il permesso della mammà l’ornai di tutto ciò che occorreva, indi ordinai che ogni giorno a mie spese si tenesse una lampada accesa. Stavo volentieri in quella chiesa perché Gesù nel Sacramento, stava sempre solo ed io le tenevo compagnia. Intanto il p. Ab. mi ordinò di andare in Roma e di mettermi in comunicazione con Maria Rosaria. Avuto il permesso da mia madre, mi portai in Roma ove ebbi un abboccamento con Maria Rosaria, l’esito dell’abboccamento fu che io non rimasi bene impressionata, le idee di Maria Rosaria erano grandi, ma non sode. Tornata in Frascati, mi portai dal p. Ab. e le dissi le mie impressioni, egli mi rispose: “Va’, entra e soffri qualunque cosa, purché l’opera s’incominci e vada avanti”. Mia madre si oppose a tutto suo potere a questa mia nuova entrata, ma io tutto superai, ero risoluta obbedire al p. Ab. e mia madre dovette anche questa volta cedere, ma mi disse: “Tu vai là, ma sortirai, non è lì che Iddio ti vuole”.

Il p. Ab. mi portò dal Cardinal Lucido Maria Parocchi, al quale mi fece parlare delle mie idee, ed il p. Ab. parlò al Cardinale anche dei miei scritti. Però non ricordo l’esito di questo colloquio.

Fu decisa l’apertura dell’opera nel gennaio 1887. Mia madre benché a malincuore pure mi provvide di tutto quello che mi occorreva, e sapendo che dove entravo vi erano le sole mura mi fornì o meglio dire mi dette parte del mobilio di casa, e degli utensili per la cucina. Il 17 gennaio entrai dalla Poveretta, che così si faceva chiamare Maria Rosaria, mia sorella volle anch’essa venire, ma dopo due mesi sortì e andò al Carmelo.

Entrata dalla Poveretta mi proposi di non indietreggiare dinanzi a qualunque sofferenza e di prestarmi a tutto. L’unico mio pensiero era l’opera. Entrando però dalla Poveretta, deposi tutte le mie vedute e cercai uniformarmi ad essa. Io consideravo e vedevo nella Poveretta l’istrumento di Dio per fare l’opera, quindi era giusto che i miei sentimenti e desideri li mettessi da parte. Ero molto contenta che l’opera s’incominciava, ed il pensiero di appagare il desiderio del Cuore di Gesù mi ricolmava il cuore di gioia.

Ben presto però dovetti avvedermi che le cose non convenivano. Mgr Guidi (13) , a cui il Cardinale aveva affidata l’opera, era un santo uomo, ma occupato da tanti affari, lasciò molta libertà alla Poveretta; questa, abituata a vivere sola e senza ordine, non seppe mantenersi ferma né all’orario, né alle prescrizioni, sicché un giorno si faceva in un modo un giorno in un altro, questo però poco mi infastidiva perché pensavo che col tempo si sarebbe rimediato ma mi arrivava al cuore il vedere la poca sodezza delle idee, idee secondo me non dritte, come p. es. quella della scuola di perfezione che noi dovevamo fare ai secolari, adducendo per ragione che nella chiesa romana mancava questa scuola. Questo sonava male alle mie orecchie, ma mi guardai bene di parlarne con chicchessia, mi contentavo di pregare.

Vi erano poi tante altre cose che non camminavano e non erano giuste però stimai prudenza tacere e pregare. Oltre l’adorazione notturna avanti Gesù Sacrnto, dovevamo alzarci la notte per la recita del mattutino. Eravamo in numero di 8, sei sole si alzavano per l’adorazione e mattutino, quindi si riduceva il riposo di un tre ore all’incirca per ciascuna, ed il sonno ci opprimeva; dipiù stavamo in abitazione nel ghetto in una casa dove abitavano tutti ebrei, stavamo in 4 camere senza né giardino né terrazza, sicché non si prendeva mai aria, non nascondo che si soffriva. Ricordo che la notte quando mi alzavo per l’adorazione dopo un poco mi addormivo, senza avvedermene, ma spesso ero svegliata: sentivo chiamarmi forte per nome, per lo più questo mi accadeva alla fine dell’ora, ed infatti io guardavo l’orologio ed era tempo di chiamare l’altra sorella. Io dissi a Mgr Guidi come ero sorpresa dal sonno e che poi mi sentivo chiamare all’ora giusta per svegliare le altre; egli mi rispose di non stare in pensiero, perché il Signore ben vedeva che noi non ce la facevamo, con il poco riposo ed anche interrotto a stare deste, e che Egli riteneva che era Gesù che ci svegliava all’ora giusta, perché a più di una accadeva lo stesso.

Teresa Canestri, anch’essa faceva parte all’opera ed io mantenni con essa per vario tempo relazione segreta, ricordo che sostenevo molto Teresa a stare forte e su tutto procuravo tenerla ferma per quella via di umiltà in cui il p. Ab. l’aveva messa, ma un giorno pregando mi venne in mente che quella amicizia particolare, per quanto fondata con fini santi, non era cosa ben fatta, allora io temendo che veramente al Signore dispiacesse, scrissi un bigliettino a Teresa in cui le dicevo che mi sembrava che al Signore non poteva piacere la nostra segreta relazione, e che io intendevo subito troncare, che essa si fosse mantenuta umile e avesse pregato, del resto l’avvertivo che se mi scriveva o mi veniva a parlare io non le avrei risposto. Con questo biglietto troncai ogni relazione.

Iddio permise che la Poveretta, avendo saputo le idee che io avevo per l’opera (avendogliele dette il p. Ab.) cominciò a diffidare di me, essa credette, permettendolo Iddio, che di queste mie idee me ne servissi presso Mgr e che ne parlassi alle figlie e siccome tutte si erano affezionate a me, ritenne che io le attiravo. Io veramente le mie idee le avevo deposte con l’entrata e quindi a Mgr non gliene parlavo mai, molto meno poi alle figlie. Queste spesso venivano da me a sfogarsi, ed io cercavo di metterle in calma e difendevo la Poveretta a tutto mio potere, sicché procuravo che le figlie stessero unite alla Poveretta, ma nel medesimo tempo cercavo imprimerle il pensiero che bisognava amare tanto il Signore; le figlie si affezionarono a me, ma io non ebbi colpa alcuna. Malgrado tutto questo la Poveretta (che io lasciai nella sua persuasione senza discolparmi) mi ordinò di non volgere più a nessuna delle figlie la mia parola, m’impose che in tempo di ricreazione dovevo parlare sempre in genere e far ridere ecc., più mi dette ordine espresso che in confessionale non dovevo trattenermi più di cinque minuti. Non mi permetteva che andassi a pregare, infine m’interdì tutte quelle cose, che essa credette bene interdirmi. Questi ordini mi arrivarono al cuore, specialmente non potere andare dal Signore; però li eseguii esattamente. In ricreazione facevo il burattino e tutte si divertivano alle mie spalle; alle figlie non volsi mai più una parola di conforto e quando venivano da me, le rimandavo senza risponderle. Dal Signore andavo solo quando mi ci mandava la Poveretta, ma io non lo chiedevo mai. Dal confessore mi trattenevo il tempo solo di una breve accusa. Nell’esterno poi stavo come fossi stata sempre contenta. Di tutti questi ordini io non ne feci parola ad alcuno, pensavo che era meglio tenere tutto a me e obbedire. Un giorno Mgr Guidi mi intrattenne in confessione un quarto d’ora. Egli mi parlava su alcuna tentazione che avevo, ed io procurai non fare domande onde non allungare il tempo, appena sortita dal confessionale ebbi una forte sgridata e fui penitenziata. Ricordo che una volta avevo il cuore molto stretto, e la Poveretta (non ricordo il perché) sospettò che io avevo parlato a una figlia, mi sgridò, e per buona fortuna mi mandò a pregare. Io fui ben contenta, raccontai a Gesù le mie pene ed Egli mi parlò al cuore e mi disse: “Soffri e taci”. Queste due parole mi penetrarono sì fortemente, che ogni mestizia fuggì dal mio cuore, e mi vergognai tanto di essere sì fiacca nel soffrire, ripresi la mia solita fiducia in Dio, e mi trattenni molto tempo a pregare (la Poveretta si era dimenticata di chiamarmi). Quando verso sera fui chiamata, andai: mi sentivo contenta e in pace, questa mia tranquillità e gioia, si vede che trasparì sul volto, perché la Poveretta mi riprese fortemente, per essere stata tanto tempo in cappella, e da quella volta in poi il mio posto fu fuori la porta della cappella.

Io non avevo il conforto di aprire il mio cuore al p. Ab. perché questi vedendo che le cose non camminavano bene, si era ritirato quindi non vi era altro che Mgr, da cui non potevo punto trattenermi a parlare, perciò risolsi di abbandonarmi a Dio e pensare a servirmi bene di quelle pene, onde dar prova al Signore che lo amavo, quindi interdissi a me stessa qualunque lamento o compatimento, che da me, potevo fare su me.

Venne intanto il tempo destinato per la vestizione. Confesso che io internamente ripugnavo a questo passo, mi sembrava immaturo il passo che ci facevano fare ma i Superiori volevano ed io pensai sottomettermi. Ricordo che la Poveretta mi chiamò e mi ordinò di scrivere al p. Ab. e manifestarle la gioia che avevo di vestirmi. Scrivere una lettera simile mi sembrò ingannare p. Ab. quindi feci osservare alla Pov. che non venendo più il p. Ab. ritenevo inutile scriverle. Allora la Pov. mi ordinò recisamente di scrivere quanto ella mi avrebbe dettato, ed io obbedii, pensai che il p. Ab. avrebbe conosciuto che lo stile della lettera non era mio (la Poveretta era molto istruita) e quindi non poteva essere un inganno da mia parte.

Mi misi a scrivere sotto dettatura, mi costò molto, ma pensavo: il p. Ab. mi ha detto di tutto soffrire purché l’opera vada avanti, quindi obbediamo e soffriamo. La lettera fu mandata ed il p. Ab. vide il mio carattere, ma lo stile non era mio, perché ho scritto sempre alla buona

Venuto il tempo della vestizione andai a prendere l’abito religioso. Quanto soffrii in quel momento! L’animo mio si trovò immerso in una grande amarezza e in una oscurità completa, il cuore sentiva tutto l’amaro di quel passo, però non feci un lamento col Signore, le offrii le mie pene per l’opera, e mi abbandonai a lui. Mi fu imposto il nome di Suor Filomena. Tutto il giorno mantenni allegra la piccola comunità con le mie chiacchiere.

Teresa Canestri ben presto dimenticò la via dell’umiltà, la Pov. la lodava e la faceva andare per altra via, quindi questa povera anima andava sempre indietro. Teresa era intelligente, ed anche istruita, quindi non guidata come si doveva si rovinò. Confesso che tra tante pene, la pena che più mi arrivava al cuore, era il vedere quell’anima ripiena di sé. A me non era dato altro che pregare. Il Signore permise che dopo un mese di vestizione (la vestizione fu fatta nel mese di agosto del 1887 il giorno 15) Teresa cominciò a sentirsi male, io pure mi ammalai e mi venne un ascesso al petto e subii una piccola operazione. La Pov. però non permise che né io né Teresa stessimo in letto e malgrado la febbre che avevamo ci convenne stare dritte. A me poi venne una bronchite e a Teresa una polmonite. Mgr Guidi ordinò di metterci a letto.

Stando di letto vicino a Teresa, cominciai a parlarle, e siccome vedevo che fisicamente soffriva molto, dimenticando il poco mio male mi alzavo spesso e andavo a darle conforto. Io mi guarii, ed allora fui rimessa alla vita comune. Teresa dopo poco anch’essa si rimise apparentemente e riprese la vita comune. Intanto la Pov. era già da anni malata di petto si mise in letto, dal quale più non si rialzò. Io vedevo Teresa deperire di giorno in giorno e sentivo tanta pena per quella povera anima; una sera Teresa ebbe degli sputi e sbocchi di sangue, io mi trovai sola, confortai Teresa e poi ne avvisai la Poveretta, questa rispose che non era niente; l’indomani avvisai Mgr Guidi e Teresa fu messa sotto cura. Stando malata la Pov. Mgr mise me sopra alle altre, ma nulla potetti fare, perché la Pov. dal suo letto tutto interdisse; quindi curavo Teresa nel corpo e procuravo farla rientrare in se stessa, ma non ci riuscii, sicché persuasi i parenti (dietro ordine di Mgr) di riprendersi la figlia il che fecero subito, ed io sperai che tornando sotto la guida del p. Ab. si sarebbe rimessa per la retta via.

Le cose andavano sempre peggio ed io soffrivo molto, desideravo sortire, lì non si faceva niente di buono, ma due pensieri mi trattenevano, uno: di tutto soffrire per l’opera, purché fosse andata avanti, l’altro il permesso che non avevo dal p. Ab. E siccome egli mi aveva messo per l’opera, così il sortire senza permesso mi sembrava cosa non giusta; quindi soffrivo da me sola e andavo avanti confidando nel Signore. Avendo io la direzione della casa, e vedendomi chiudere tutte le vie per rimettere l’ordine mi misi ad assistere la Pov. In questo periodo di tempo passai dei brutti momenti col dottore, ma Iddio mi aiutò, grazie a Dio non ho nulla da rimproverarmi.

In mezzo a tutte queste pene, il mio cuore provava una profonda pace, e sentivo che la sofferenza purificava il mio cuore da tanti sentimenti non del tutto puri, più il mio cuore tanto bisognoso d’amore, non trovandolo nelle creature, si rivolgeva più a Dio, e quindi procuravo contentare in tutto il Signore. Mi feci una legge di obbedire ciecamente alla Pov. di non lamentarmi mai e nulla ricusare al Signore. Ricordo che benché mi era stato interdetto di andare in cappella ai piedi del Sacramento, il mio cuore stava sempre lì. Gesù non era tenuto bene, io ci soffrivo tanto, non potevo nulla fare, molto meno andarle a far compagnia, ma io sentivo che l’animo mio stava ai piedi di Gesù Sacrnto. Nel mio cuore provavo tanto desiderio del Signore e di farmi santa, quindi quando sentivo che la natura ripugnava in qualche cosa, io pensavo di sottometterla per amore del Signore, perciò spesso con molta mia ripugnanza facevo diverse croci nei luoghi più ripugnanti della casa.

Essendo la Pov. malata di petto quindi sputava e vomitava sempre in terra, ed io lambivo gli sputi e li maneggiavo con le mani, e di queste cose ne facevo spesso (tutte non lo ricordo bene) ossia quando sentivo il mio stomaco in rivolta. Facevo tutto questo senza dirlo a nessuno neppure a Mgr, io pensavo una cosa sola, vincermi per amore del Signore. Però il Signore mi ricolmava poi il cuore di grandi consolazioni.

Sortita Teresa Canestri questa informò il p. Ab. del vero stato delle cose, e le disse ancora che io non sarei uscita senza il suo permesso. Il p. Ab. per mezzo di Petronilla e Clorinda Canestri, sorelle di Teresa, mi mandò a dire che egli era contento che fossi sortita. Una mattina parlando con Mgr le domandai il permesso di scrivere a p. Ab. (io desideravo scrivere prima di fare qualunque passo per manifestarle i sentimenti del mio cuore e per essere sicura che non vi era nulla contro la volontà di Dio facendo il passo). Mgr me lo accordò, con la condizione di domandarne il permesso alla Pov. Io compresi bene che in questo modo mi si dava un coperto rifiuto ma obbedii, e andato via Mgr, con tutta quella prudenza e gentilezza che era necessaria sia per carattere della Pov. come per il suo stato fisico, cominciai piano piano a chiederle il permesso, ma non ebbi tempo di terminare la proposizione che la Pov. s’inquietò tanto e me lo proibì espressamente, vedendo questo chiesi scusa alla Pov. della pena arrecatole e le promisi che non avrei scritto, allora io andai ai piedi del Sacramento e scrissi questo biglietto al Signore e lo lessi: “Signore io non dirò più niente, né sortirò di qui se non quando Mgr da se stesso mi dirà che è necessario che io esca”.

Fatto questo biglietto l’offrii al Signore e proseguii la mia vita di sofferenza, sofferenza più intensa perché non sapevo più se facevo bene o male a restare; in ogni modo mi affidai a Dio.

Le sorelle di Teresa tornarono a trovarmi e mi dissero come il p. Ab. era rimasto meravigliato che io non avevo scritto nulla a lui dopo l’ordine di sortire che mi aveva mandato; io risposi che non avevo permesso di scrivere, esse allora insistettero affinché scrivessi e si offrirono a portare la lettera al p. Ab. dicendomi che io l’avessi scritta di nascosto; risposi risoluta che questo non l’avrei mai fatto e che lo dicessero pure al p. Ab. e le licenziai.

La Pov. andava sempre in peggio e non ci era affatto speranza che si fosse potuta riavere un poco, Mgr, vedendo come andassero le cose e il disordine che vi era, parlò al Cardinal Parocchi, allora Vicario, e questi ordinò di mettere me formalmente a capo. Mgr una mattina mi chiamò, dopo la Messa, e mi comunicò l’ordine del Vicario, io provai una grande ripugnanza, il mio cuore si strinse, fu un momento di vera pusillanimità, temetti gli ostacoli, all’ordine che sarei stata costretta di mettere; però pensai all’opera, quindi volli essere fedele al Signore, soffocai tutto ed accettai, feci nonostante notare a Mgr che se la Pov. sapeva la decisione del Cardinale avrebbe il suo male tracollato, quindi decidemmo di attendere, intanto però Mgr raccomandò alle figlie di obbedirmi, ma lo spirito di rilasciatezza era subentrato e convenne attendere e avere prudenza. La Pov. faceva degli alti e bassi; sicché si arrivò al gennaio sempre così, entrati in questo mese la Pov. si aggravò fortemente, le sopravvisse un principio di paralisi al cuore e le furono amministrati gli ultimi sacramenti. La Pov. sopravvisse ancora altri giorni.

Una mattina Mgr mi chiamò e dopo aver parlato di varie cose riguardanti la casa, mi domandò se avevo scritto al p. Ab. e se questi mi aveva risposto.

Io allora le dissi che non avendo avuto il permesso dalla Pov. non avevo scritto, Egli allora mi rispose: “Scrivi al p. Ab. perché io credo necessario che tu esca; di questo parere è pure il Cardinale. Però promettimi che dopo 40 giorni tu ritorni” ed aggiunse che era necessario per la mia salute. Non so dire come rimasi a un tal parlare, però mi convinsi che era la volontà di Dio, quindi scrissi a mia madre, che allora si trovava a Tagliacozzo; questa venne subito e voleva portarmi subito via, ma io le feci notare lo stato della Poveretta e come il dottore mi aveva detto che bisognava evitarle qualunque emozione, quindi la pregai di attendere qualche giorno assicurandola che sarei tornata in casa. Mia madre si persuase.

La Pov. andò sempre più aggravandosi sicché si arrivò agli estremi. Negli ultimi tre giorni io l’assistetti sempre e spesso la facevo riposare sul mio petto, la poverina soffriva tanto, e le altre figlie non volevano avvicinarcisi, temevano della malattia, io sentivo tanta pena vedendola così soffrire. L’ultima sera Mgr mi mandò a riposare un poco, ma non appena fui sul letto che la Pov. entrò in agonia, fui richiamata ed assistetti alla sua morte. Morta la Pov. ordinai alle figlie di andare in cappella e recitare l’ufficio da morto, ed io aiutata da una donna vestii la Poveretta, cambiai il letto, e misi sotto chiave tutte le carte appartenenti ad essa, e poi mi ritirai.

La Pov. rimase esposta per tre giorni, nei quali ci fu un concorso grandissimo di popolo e sacerdoti. La Pov. era da tutti tenuta in concetto di santa. Il quarto giorno, aiutata da una donna, misi la Pov. nella cassa, e chiusala la portai fuori della clausura, ove vi erano gli uomini che la portarono in chiesa. Nel prestare questi ultimi sevizi alla Pov. provai tanta pena ed il mio cuore rimase commosso, e una volta di più compresi cosa è la nostra vita.

Morta la Pov. le figlie non volevano più sentire di soggezione. Mgr mi aveva lasciata tutta la libertà per riaccomodare le cose, ma non potetti nulla di bene, qualcuna di quelle figlie si era messo in testa, che alla morte della Pov. tutto lo spirito di essa era sceso in loro, quindi non si potette far niente. Mgr Guidi prima che mia madre venisse a prendermi definitivamente, mi propose di andare con le altre presso le Suore del Preziosissimo Sangue, in attesa di provvedere altra casa, ed intanto lì proseguire la vita incominciata. Io non accettai. Il consenso del p. Ab. non l’avevo e quindi temevo di sbagliare; conoscendo poi l’indole delle figlie compresi bene l’impossibilità di proseguire con quelle anime un’opera che conveniva del tutto ricominciare e perciò non vedendo le cose chiare stimai miglior partito ritirarmi.

Le figlie poi entrarono al Preziosissimo Sangue, ma dopo pochi giorni alcune si erano ritirate e due avevano abbracciato l’istituto del Preziosissimo Sangue. Dalla Pov. rimasi 11 mesi, furono mesi di vera sofferenza e non nascondo che soffrii molto, debbo però confessare che quel tempo fu prezioso per l’anima mia, e quelle umiliazioni e disprezzi che continuamente mi piombavano sopra apportarono al mio animo un distacco più grande dalle creature e un bisogno più forte di essere tutta di Dio. Fu in mezzo alle umiliazioni e sofferenze che sentivo più vivo ed intenso il desiderio di farmi santa, ed il pensiero di soffrire per consolare il Cuore trafitto di Gesù mi sosteneva, malgrado le ripugnanze della natura e del mio amor proprio, anelavo al patire e alle umiliazioni, sentivo spesso nel mio cuore una voce che mi diceva di prepararmi perché il Signore qualche cosa voleva da me. Io procuravo di essere fedele al Signore e le promisi di osservare, sotto peccato veniale, tutte le prescrizioni della regola e cercare in esse sempre il meglio nel metterle in esecuzione. Sentivo anche il bisogno di spogliarmi di tutto, non solo dei beni, ma anche di donare al Signore tutti quei meriti che in vita potevo acquistare, e tutto quel bene che dopo morta mi si sarebbe fatto; ed io ne feci dono al Signore a pro dei sacerdoti defunti.

Venne infine mia madre a prendermi ed io sortii il 17 gennaio 1888. Mammà mi condusse subito dal p. Ab. che stava attendendomi a S. Basilio, Egli mi accolse con molto affetto, e ritiratasi mammà restai sola a parlare con il p. Ab. Egli volle sapere come erano andate le cose ed io lo soddisfeci, poi le chiesi il permesso di ritirarmi a Grottaferrata, presso le Suore della Div. Provv. in qualità di convittrice, ma il p. Ab. mi fece osservare che era necessario che io rimanessi libera per conoscere meglio la volontà di Dio su di me, e oltre a questo mi fece anche capire come non sarei stata libera di fare l’adorazione, ora santa, discip. ecc. Allora io acconsentii a prendere una camera e vivere sola, ed infatti il 20 gennaio presso Enrichetta Spalletta presi in affitto una camera, che la mammà mi arredò, avendo lasciato tutto dalla Poveretta.

Tornata mia madre in Tagliacozzo io rimasi libera di me. Avevo un desiderio grande di essere tutta di Dio quindi mi formai, per prima cosa, un orario onde vivere con regolarità, la distribuzione di questo orario non lo ricordo tutto. Mi alzavo alle 4 dopo 7 ore di riposo, poi andavo in chiesa e restavo sino alle 7. Nelle ore pom. passavo due ore ai piedi di Gesù Sacrnto.

Portavo per qualche ora, ogni giorno la cat. alla gamba, nel venerdì la mettevo alla vita. Facevo la disciplina una o due volte la settimana, (non ricordo preciso) digiuni non ne ho fatti mai, eccetto quelli comandati dalla chiesa, ma nella Quaresima il digiuno non mi era concesso altro che una volta la settimana. Questa era la mia vita ordinaria.

Il tempo che stavo in casa lo passavo a scrivere. Gettavo sulla carta i miei sentimenti, scrissi alcune mie idee sopra alcune antifone dell’ufficio della Madonna, per es: Nigra sum ecc. – Surge Virgo amica mea ecc. – Trahe me post te ecc., cose tutte che nella recita dell’ufficio, sia dalle Sepolte Vive come dalla Pov. mi avevano fatto impressione all’anima. Sentendo in me crescere sempre il desiderio di essere tutta di Dio, pensai di crescere la mortificazione mia interna quindi proposi più circospezione nel parlare, più modestia negli occhi, mi interdissi qualunque domanda che mi stimava di fare la mia curiosità, andai più dimessa nel vestito, infine con il permesso del p. Ab. facevo quelle mortificazioni interne alle quali sentivo ripugnanza sia dalla parte della natura come dal mio amore proprio.

Fu in questo tempo che il Signore mi fece capire le pene del suo Cuore trafitto. Io per solito andavo a pregare senza aver prima preveduto quello che dovevo meditare, mi mettevo ai piedi di Gesù Sacrnto e pregavo come mi veniva, senza preoccuparmi di altro che trovarmi ai piedi di Gesù Sacrnto, farle compagnia, compatirlo delle sue pene, offrirmi tutta a lui, chiederle da patire, prometterle qualche umiliazione, amarlo tanto ecco per lo più qual era la mia orazione, ed in questo modo passavo le ore, stavo tanto bene con Gesù Sacrnto!

Quando lo ricevevo poi, restavo sola sola con lui, e affidavo i peccati e poi lo pregavo di essere lui il solo ed assoluto padrone di me. Ricordo che una volta Gesù mi disse che lo zelo della gloria del suo Divin Padre e della salute delle anime era in molti suoi ministri affievolito, mi richiedeva riparazione, preghiere ed anime affinché unendosi alla sua vita eucaristica avesse placato lo sdegno del suo Divin Padre. Questo fece molta pena al mio cuore, volevo consolare Gesù, ma che potevo fare io? Come potevo riparare? Chiesi qualche mortificazione di più, ma mi fu accordato solo il non bere il venerdì. Io desideravo molto mortificarmi, mi sembrava, che non potendo fare nulla per il Signore e per mostrarle il mio amore, la mortificazione esterna era un mezzo per soffrire qualche cosa per amore di G.C. e per consolare il suo Cuore.

Con questa idea, io insistevo per avere le mortificazioni, e siccome per lo più mi venivano negate, così io mi servivo delle immagini della Madonna per farmi dire di sì, ora ne do un esempio: allorché la Medolago mi donò Maria Bambina, io la portai con tutta la culla al p. Ab, acciò la benedicesse, ma sul petto della Bambina misi un bigliettino concepito a un dipresso così: Figlio mio perché non mi concedi, per Teresa la tal mortificazione?... Ed in questo modo ottenevo quanto desideravo. Però ben presto il Signore mi fece capire che da me voleva un’obbedienza più perfetta, e che quelle mortificazioni ottenute così non piacevano perché c’entrava la mia volontà; capito questo io non lo feci più, e quando desideravo fare qualche cosa, lo chiedevo semplicemente, e al diniego non replicavo punto. Con l’andare del tempo poi chiedevo semplicemente la mortificazione non stabilendo il tempo da me, ma lo lasciavo disporre al p. Ab. Io pensavo così di fare cosa più gradita al Signore, levando in questo modo tutta la mia volontà. Quando mi misi ad operare così non provai più turbamento allorché mi veniva in parte o in tutto negata la mortificazione. Le mortificazioni che chiedevo per lo più, in questo periodo di tempo era la discip. (mai a sangue) e il prolungare a tenere la cat. Però debbo dire che nel mio cuore sentivo molto desiderio di far penitenza, però non potevo fare l’esterno se non accoppiavo maggiormente la mortificazione interna; quando il mio amor proprio si risentiva, oppure la natura ripugnava a qualche sacrificio, mi veniva subito in testa: “A che mi giova l’esterno, se non mortifico queste passioni?”, e mi sembrava che il Signore non poteva accettare l’esterno se non vi era insieme l’interno. Il pensiero mio predominante era consolare il Cuore traf. di Gesù. Quel Cuore occupava tutti i miei pensieri e tutti gli affetti del mio cuore, provavo tanta pena per Gesù! Io vedevo bene che non ero buona a niente e che ero incapace di consolarlo, un giorno che stavo a compatire Gesù, io glielo dissi confidentemente e le mostrai la mia incapacità ed Egli mi rispose che si serviva degli esseri più incapaci, ed in questa circostanza fu che Gesù mi disse che un desiderio ben vivo stava nel suo Cuore cioè che desiderava una riunione di preti che unendosi a lui si offrissero vittime per i loro confratelli dedicandosi, pur restando nella società, alla riforma del clero secolare. Io intesi quanto Gesù mi richiedeva, ma che potevo fare io? Quando mi andai a confessare raccontai ogni cosa al p. Ab.

Dico la verità che io non potevo arrivare a persuadermi che il Cuore di Gesù si lamentava così e che la spina che mi mostrava nel suo cuore e che tanto lo trafiggeva, fosse causatagli dai suoi ministri. Io temevo tanto d’ingannarmi e quindi cercavo di essere più buona affinché il Signore mi avesse aiutata a non cadere negli inganni, però il pensiero del Cuore di Gesù non mi lasciava un momento ed io volevo accontentare le brame del Signore.

Una volta, ricordo che stando ai piedi del Sacrnto e pensando come mai poteva essere che il Cuore di Gesù era così trafitto, Gesù mi disse: “Il Sacerdote è parte delle mie viscere, pupilla degli occhi miei, e il carattere sacerdotale è al disopra di ogni dignità. Io ho chiamate queste anime al mio servizio, dandole una vocazione così sublime, li circondo di lumi e grazie dello Spirito Santo e li ho messi in mezzo alla società affinché, trattando in mezzo ad essa, mi fossero tanti canali in cui le anime passassero per venire a me, ma – aggiunse tutto mesto – non tutti corrispondono alla loro vocazione e con le loro ingratitudini ed infedeltà trafiggono il mio cuore, conficcandogli una spina”. Mi chiese di consolarlo e di riparare.

Io provavo tanta pena quando sentivo così, avrei messo il mio corpo in pezzi, se mi fosse stato concesso, desideravo patire e mi sembrava che solo in questo provava un poco di sollievo la pena che sentivo per il Cuore trafitto di Gesù. Non era un mese che stavo dalla Enrichetta Spalletta che cominciarono delle giovanette a venire da me, sul principio furono semplici visite, indi cominciarono a portare i loro lavori, e così il dopopranzo per qualche tempo le tenevo con me, le parlavo del sacramento, le inculcavo di essere buone, infine mi adattavo alla loro capacità, in ultimo le facevo fare una visita a G. Sacrnto, portandole alla parrocchia con me. Fra queste giovanette vi era anche Angelina Mascherucci.

Un giorno il p. Ab. mi mandò una lettera da Roma, in cui mi ordinava di andare da lui a S. Basilio, volendomi condurre da Mgr Bogali, io partii subito.

Prima di dire quello che passò tra me e Mgr Bogali (14) debbo dire una cosa che mi sono dimenticata. Io abitualmente avevo una pace profonda nel mio cuore, vivevo tranquilla nell’animo e niuna cosa mi turbava. Una volta però mi vennero delle forti tentazioni contro la fede, in modo particolare sulla verità della nostra religione, sulla verginità della Madonna, sulla presenza reale di Gesù Sacrnto; il mio intelletto era talmente offuscato che non capivo più niente, l’andare a ricevere la Comunione poi era per me un martirio; due sentimenti oppostissimi si cozzavano insieme, uno di disprezzo verso il sacramento l’altro di disperazione perché mi sembrava di essere sacrilega. Il p. Ab. mi ordinò di non lasciare mai la Comunione, di disprezzare queste tentazioni e proseguire per via di fede a servire Iddio come prima, io cercai dal canto mio essere più fedele al Signore, e pregavo di più, benché la mia preghiera era arida, secca ed il mio cuore oppresso di tristezza. Una mattina andai a ricevere il Signore, avevo l’inferno nel cuore, ma disprezzando tutto, mi comunicai; non appena avevo ricevuto il Sacrnto che vomitai. Andai dal p. Abate e non so dire in che stato di pena mi trovai, il p. Ab. mi fece animo, mi ordinò di non lasciare mai la Com. io obbedii, ma da quel giorno crebbero le mie pene interne, e queste si accrescevano quando dovevo comunicarmi ed uno stimolo al vomito mi scuoteva tutto lo stomaco.

Questo stimolo al vomito era prodotto da una nausea grande verso la Com. e da immagini che mi si presentavano alla immaginazione di cose più atte a rivoltare qualunque stomaco forte e robusto. Il p. Ab. però tenne forte e mi ordinò per obbedienza la Com. sempre.

Intanto proseguendo questo mio stato con l’animo ottenebrato, ebbi ordine dal p. Ab. di condurmi a Roma. Il p. Ab. mi portò da Mgr Bogali, e mi ordinò di aprirle schiettamente il mio cuore. La prima cosa che io le dissi fu della Com., le narrai tutto, ed egli mi animò a confidare nel Signore, mi sollevò lo spirito che era abbattuto, e mi ordinò di non lasciare mai la Com. e ricordo che mi disse: “Se si potesse, ve la farei fare due volte al giorno”. Dopo questo fu parlato del Cuore trafitto di Gesù, egli mi fece molte domande e fra le altre se quando vedevo Gesù era vestito, se era bello, adorno, se stava su di un trono, se l’altare era illuminato ecc. Io non seppi cosa rispondere, e dissi che quando vedevo Gesù io non avevo fatto caso di queste cose, perché i miei sentimenti erano occupati delle pene del Cuore trafitto di Gesù, promisi però di starci attenta, ma non mi riuscì mai, perché me ne dimenticai. Fu parlato anche dell’opera, e dopo aver lui messo in campo una quantità di difficoltà, infine disse che si poteva incominciare con due o tre figliuole. Mgr poi mi ordinò di andare ogni settimana da lui, da cui ricevetti molti aiuti spirituali. Lo stato dell’animo mio si manteneva sempre così tribolato, mi si aggiunse uno spirito di bestemmia contro il Sacrnto, e perché io mi raccomandavo alla Madonna, mi venne in pensiero che il rivolgersi ai santi e alla Madonna era una idolatria e questo pensiero era tanto forte che certe volte non sapevo più che fare, Mgr Bogali e il p. Ab. mi sostennero e dopo qualche mese rimasi libera dal vomito e dalle altre tentazioni.

Dalla Enrichetta Spalletta io non potevo più starci sia perché le persone che la sera passavano avanti alla mia porta, bussavano e la scuotevano, sia anche perché stavo troppo in mezzo al paese, ed io amavo stare in un luogo più nascosto. Allora decisi di prendere due camere e cucina da Lorenzo Consoli. Mammà anche questa volta concorse e mi fornì dei mobili per la casa.

Da Lorenzo Consoli andai il 1 giugno 1888. Tutto il mese di giugno stetti sola, ma essendo morta la padrona di casa (che abitava sopra di me) io ebbi paura di star sola e quindi pregai Clorinda Canestri di venire a stare con me, il che fece. Nella nuova casa mantenni il solito orario e facevo la solita vita, Clorinda prendeva parte anch’essa, ma si occupava molto presso gl’infermi.

Intanto Teresa Canestri, che era sortita dalla Pov., malata, si era rimessa in quanto al corpo; ma l’anima, ohimè, come si era guastata! Io portavo a Teresa sempre lo stesso affetto, ma essa non lo aveva più per me. La mia presenza la irritava, le mie parole la inquietavano, e benché vedendola così, io non le dicevo nulla di buono, ma solo cercavo prevenire i suoi desideri, mi sacrificavo a portarla a passeggio dove, come e quando voleva, pure non ottenni altro che un bel giorno mi mandò a dire che non fossi più andata a casa sua perché non mi avrebbe ricevuto. Mi fece molta pena questo, ma pensai di accrescere le preghiere. Passarono alcuni mesi ed io non sapevo più nulla di Teresa, solo il p. Ab. mi diceva di pregare, perché Teresa era cattiva.

Un giorno stando in chiesa a pregare m’intesi spinta a scrivere a Teresa. Tornata a casa, le scrissi come avevo nel cuore, le manifestai i suoi sentimenti, lo stato dell’animo suo, le parlai di Gesù, l’esortai a tornare al Signore. Scritta la lettera pensai consegnarla al p. Ab., questi la lesse e mi domandò chi mi aveva detto queste cose, le risposi: “Nessuno”. Allora Egli andò da Teresa che in quei giorni stava in letto e le donò la mia lettera, questa la lesse e presa da rabbia la fece in minuti pezzettini e gettatili in terra disse al p. Ab.: “Dica a Teresa quello che ho fatto alla sua lettera”; dopo un poco soggiunse: “Chi ha dato l’ordine a Teresa di scrivermi queste cose?”. Il p. Ab. le domandò se era vero quello che aveva scritto, essa rispose di sì e poi voltatasi verso il muro, non parlò né rispose più al p. Ab. Quando rividi il p. Ab. questi mi disse tutto l’accaduto, ed io pensai che quell’anima a tutti i costi doveva tornare a Dio, perciò fingendo di essermi dimenticata del divieto di andare in sua casa, mi portai da Teresa. Fui mal ricevuta, ma non m’importò, proseguii le mie visite, le portavo dei regaletti, le parlavo di cose indifferenti, secondavo i suoi capricci, infine tornò a volermi bene ed io potevo star quasi sempre con essa. Sacrificai a questo fine anche il desiderio che avevo di stare ai piedi di G. Sacrnto. Teresa però non si ravvedeva e ciò mi dava molta pena. Un giorno pregai Teresa di accompagnarmi al passeggio. Teresa venne volentieri e nell’andata parlammo di cose molto indifferenti; giunte al Camposanto condussi Teresa sulla tomba di Sr Maria Stanislaa, ci inginocchiammo ed io feci nel mio cuore questa preghiera: “Signore, se voi avete accettata quest’anima per Vittima vostra, cambiate Teresa e fatela tornare ai sentimenti di prima”. Restammo un poco a pregare e ricordo che pregavo Maria Stanislaa di pregare il Signore per la conversione di Teresa. Intanto mi avvidi che Teresa piangeva e piangendo restò vario tempo sulla tomba; io sperai bene e raddoppiai le mie preghiere. Ritornammo in casa, Teresa mi parlò dell’anima sua, io entrai subito nel discorso, le parlai molto del Signore, del Cuore trafitto di Gesù, e fu conchiuso che alle ore pom. sarebbe andata a confessarsi da p. Ab. e avrebbe cambiato vita. Infatti nel dopopranzo si confessò, si riaccostò alla Com., lasciò la vanità ecc. Io fui contenta; però Teresa tornata a Dio non fu più quella di prima, essa si rimise a servire Iddio ma non corse più con generosità la via della perfezione.

Quante volte io dicevo a me stessa: “Come sono imperscrutabili i giudizi di Dio; è capace che un’anima, dopo datasi a Dio, ritorna addietro e pecca nuovamente, ed ecco che poi quest’anima pentita ritorna a Dio, si umilia, ripara e finisce per farsi santa davvero, un’altra invece, la perdona sì, ma poi rimane buona, ma non corre più come prima della caduta”. E questi pensieri mi venivano considerando Teresa e sentendola che spesso, dietro le mie esortazioni ed incoraggiamenti, mi rispondeva che essa non ritrovava più la strada di prima. Nello scrivere questi pensieri, io penso, padre, che lei ha proprio ragione di dirmi che non merito di essere amata neppure da Dio avendolo tanto offeso, ed invece?... Padre mio, come mi sento confusa davanti a Dio! Eppure Iddio mi ama e mi ama tanto!

Fu in questo tempo che il p. Ab. mi fece conoscere e parlare con Mgr Fratocchi (15). Anche in questo tempo il p. Ab. mi volle fare un dono e fu che dal suo zio Capparoni mi fece dipingere il Cuore di Gesù con la spina, il cuore era della grandezza naturale. Capparoni stesso me lo portò, questi era un sant’uomo.

La mattina, dopo tornata dalla chiesa, mi mettevo a scrivere; proseguii a gettare sulla carta le mie idee sulle antifone della Madonna, scrissi i miei sentimenti sul Cuore di Gesù, la sera poi per due o tre ore stavo ai piedi di Gesù Sacrnto. Ricordo che per quegli scritti ebbi una buona sgridata e penitenza da p. Ab. Questi mi aveva ordinato di non stracciar nulla di quanto scrivevo (io scrivevo alla buona senza far copia), un giorno dopo aver scritto, mi venne in testa che io ingannavo e quindi stracciai ogni cosa. Dopo però ebbi tanti rimorsi perché avevo disubbidito, e scrissi al p. Ab. dicendole la mia mancanza e Clorinda Canestri le portò la lettera. Il p. Ab., appena l’ebbe letta, ordinò a Clorinda di chiamarmi, io mi portai subito in chiesa ed il p. Ab. mi attendeva in sacrestia, ove giunta, mi fece una riprensione fortissima indi mi fece mettere con la fronte per terra e posto il suo piede sulla mia testa me la calcò fortemente trattandomi da superba disubbidiente, infine, mi fece andare in confessionale e fatta l’accusa mi dette l’assoluzione ordinandomi di scrivere tutto.

La mattina appresso mi portai in chiesa ed andai dal p. Ab., questi mi sgridò fortemente perché le ero andata avanti con la fronte e gli occhi tutti lividi (io non ne sapevo niente perché in casa non avevo specchi) e mi tolse la Com. per otto giorni e in tutti questi giorni mi ordinò di non sortire di casa, sicché mi costò molto la disubbidienza fatta. Cristina Consoli cominciò a venire da me, aveva sette anni, essa mi diceva che si voleva far religiosa perché si voleva far santa e far molta penitenza. Vedendo in questa bambina tante buone disposizioni cominciai ad istruirla un poco, a farle conoscere il Signore, le facevo fare i fioretti alla Madonna, e su tutto le insinuavo l’obbedienza ai genitori e la visita a Gesù Sacrnto.

Le penitenze che facevo erano le solite, però un giorno mi venne in mente di farmi un corpetto tutto di punte di chiodi, lo feci e poi lo portai a p. Ab. per avere il permesso d’indossarlo, mi fu proibito ed ebbi una buona strillata. Un’altra volta mi venne in mente di farmi un paio di mutande con pezzi di latta bucata, le portai poi al p. Ab., questi mi permise di adoprarle il Venerdì Santo e poi spesso me lo concedeva. Una volta ai piedi di G. Sacrnto avevo provato tanta pena per il Cuore trafitto di Gesù e sentivo un bisogno grande di corrispondere all’amore che Gesù ha per noi, tornata in casa feci un cuore di filo di ferro grosso ed infocatolo me lo applicai sul petto. Ebbi anche per questo una buona sgridata. La piaga mi durò un anno.

Io non so esprimere quanta pena mi faceva il Cuore trafitto di Gesù, a me sembrava poco qualunque cosa che per suo amore avessi fatto, io cercavo tutti i mezzi per consolarlo, ed il patire, certe volte, era in me tanto necessario che non potevo farne a meno, e quindi lo chiedevo con istanza al Signore e abbracciavo con amore e slancio qualunque sacrificio, grosso, e piccolo, che mi si presentava. Io sentivo nel mio animo che il Cuore trafitto di Gesù sarebbe stato da me consolato, se io obbedivo perfettamente e se mi davo al disprezzo ed umiliazioni. Tali sentimenti, ora li sento nuovamente nel mio cuore, e quella pace e tranquillità di animo che allora provavo, la provo anche presentemente. Dietro questi sentimenti io cercavo di essere sempre più esatta nell’obbedienza, domandavo perdono in ginocchio a Clorinda ogni qualvolta mi sembrava di averla offesa, infine mi esercitavo in tutte quelle cose che credevo avessero fatto piacere al Cuore traf. di Gesù. Quando il p. Ab. non c’era io mi rivolgevo a D. Teodoro Merluzzi, e le obbedivo sempre, alle volte stando male D. Teodoro mi rivolgevo da Mgr Fratocchi, per me era indifferente la persona purché avessi obbedito per potere così dar piacere al Cuore di Gesù.

Di altre cose passate in questo tempo io non le ricordo.

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